SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
SENTENZA 24 maggio 2012, n.8222
2. — Sul reclamo proposto dal S. , la Corte d’Appello di Roma, con decreto del 26 febbraio 2007, ha confermato il provvedimento impugnato.
Premesso che nel procedimento di cui all’art. 9, primo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 assume rilievo la sola sopravvenienza di circostanze idonee a modificare le posizioni economiche dei coniugi, irrevocabilmente accertate nel giudizio di divorzio, la Corte ha preso atto che il S. , già dirigente della Edilgori Precompressi S.r.l., dall’epoca del divorzio aveva denunciato solo redditi da lavoro autonomo, essendosi impegnato nei confronti della medesima società allo svolgimento di attività libero-professionale quale dipendente dello studio di progettazione MS Progettazioni Strutturali S.r.l., della quale era stato dapprima amministratore unico e successivamente socio di minoranza, avendo successivamente trasferito la quota di maggioranza e l’amministrazione alla sua seconda moglie, oltre ad aver costituito un’altra società, la S+R Unit-Studio S.r.l., nella quale era titolare di una partecipazione al 50%. Rilevato che, mentre il reddito personale del reclamante aveva subito una rilevante contrazione, le predette società avevano fatto registrare elevati volumi di affari e consistenti redditi, ha ritenuto che questi ultimi dovessero essere presi in considerazione nella valutazione delle potenzialità economiche del S. , essendo certo che, al di là dell’intestazione formale delle partecipazioni sociali, la MS Progettazioni Strutturali aveva costituito la forma attraverso la quale egli aveva esercitato la sua professione. Ha quindi affermato che, indipendentemente dalla diversificazione formale delle fonti di reddito, la situazione economica del reclamante non aveva subito significative variazioni, pervenendo ad analoghe conclusioni in riferimento al reddito della A. , la quale aveva continuato a svolgere attività lavorativa alle dipendenze della RAI, sia pure con rapporto a tempo determinato.
3. – Avverso il predetto decreto il S. propone ricorso per cassazione, articolato in nove motivi.
La A. resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1. — Con i primi quattro motivi d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., dell’art. 2909 cod. civ. e dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970, nonché l’omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che la Corte d’Appello ha omesso di pronunciare in ordine alla domanda di esclusione dell’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile, da lui proposta in primo grado e riproposta in sede di reclamo, avendo proceduto alla sola verifica della sopravvenienza di significative variazioni della posizione economica delle parti, senza accertare la perdurante sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno. In ordine a questi ultimi, essa si è infatti limitata ad affermare l’irrevocabilità delle statuizioni adottate nella sentenza di divorzio, in assenza di un’eccezione di giudicato esterno ed in contrasto con l’art. 9 cit., che nel disciplinare la revisione delle condizioni stabilite nella sentenza di divorzio non esclude l’allegazione della sopravvenienza di giustificati motivi ostativi alla persistenza dell’obbligo.
2. — Con il quinto ed il sesto motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970, dell’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74 e dell’art. 710 cod. proc. civ., nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha omesso di procedere prioritariamente alla valutazione in ordine all’adeguatezza delle risorse reddituali a disposizione della A. , trascurando le circostanze da quest’ultima ammesse nella comparsa di costituzione, che avevano indotto il Tribunale di Rieti a ritenere che ella, oltre ad essere titolare di un reddito decoroso e tendenzialmente stabile, potesse ambire ad un ulteriore miglioramento delle proprie condizioni. Nel valutare le posizioni economiche delle parti, la Corte d’Appello ha fatto inoltre riferimento all’attualità, anziché al periodo anteriore alla separazione dei coniugi o allo scioglimento del matrimonio, omettendo di considerare che i miglioramenti conseguiti da esso ricorrente erano stati ottenuti con le sue sole forze e con quelle del nuovo coniuge, senza che la A. avesse fornito alcun contributo.
3. – Con il settimo e l’ottavo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2697 cod. civ., nonché l’insufficiente, contraddittoria, illogica ed irrazionale motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che la Corte d’Appello ha escluso la sopravvenienza di significative variazioni nelle posizioni economiche delle parti sulla base della vantazione dei loro redditi attuali, anziché del tenore di vita dalle stesse goduto in costanza di matrimonio. Essa non ha tenuto conto dell’autosufficienza di entrambe le parti e dei nuovi obblighi familiari assunti da esso ricorrente, della natura consensuale della separazione e dell’assenza di qualsiasi contributo dell’A. alla conduzione della famiglia. Ha inoltre trascuralo l’accertato incremento del reddito della A. ed ha ascritto ad esso ricorrente l’intero reddito delle società delle quali era socio, senza considerare l’entità delle sue quote di partecipazione e senza tener conto della mancata distribuzione degli utili, sul mero presupposto che egli fosse l’unico titolare di tali società, pur non essendone stata eccepita o provata la simulazione.
4. – Il primo, il terzo, il quarto, il quinto e l’ottavo motivo, aventi ad oggetto censure di violazione di legge, sono inammissibili, concludendosi con la formulazione di quesiti di diritto generici, mediante i quali il ricorrente, senza fare alcun cenno alle domande proposte ed alla decisione concretamente adottata nella sentenza impugnata, chiede a questa Corte di individuare astrattamente l’oggetto ed i termini di riferimento della valutazione demandata al giudice in sede di revisione dell’assegno divorzile.
Il quesito di diritto che, ai sensi dell’art. 366-bis cod. proc. civ., la parte ha l’onere di formulare a pena d’inammissibilità nel ricorso per cassazione, deve invece consistere in una chiara sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del Giudice di legittimità, formulata in termini tali per cui dalla risposta, negativa od affermativa, che ad esso si dia, discenda in modo univoco l’accoglimento od il rigetto del gravame (cfr. Cass., Sez. Un., 28 settembre 2007, n. 20360; 30 ottobre 2008, n. 26020). La sua formulazione, pertanto, non può risolversi in una generica richiesta rivolta alla Corte di stabilire se sia stata violata una certa norma, ma postula l’enunciazione, da parte del ricorrente, di un principio di diritto diverso da quello posto a base del provvedimento impugnato e, perciò, tale da implicare un ribaltamento della decisione assunta dal giudice di merito (cfr. Cass., Sez. III, 19 febbraio 2009, n. 4044).
Il quesito, dovendo investire la ratio decidendi della sentenza impugnata e proporne una alternativa e di segno opposto, deve comprendere l’indicazione sia della regula juris adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo (cfr. Cass., Sez. lav., 26 novembre 2008, n. 28280; Cass., Sez. III, 30 settembre 2008, n. 24339). La mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il motivo inammissibile, non potendo il quesito essere desunto dal contenuto della censura alla quale si riferisce, in quanto rispetto al sistema processuale previgente, che già richiedeva nella redazione del motivo l’indicazione della norma violata, la peculiarità dell’innovazione introdotta dall’art. 6 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 consiste proprio nell’imposizione di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionale alla formazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al miglior esercizio della funzione nomofilattica di questa Corte (cfr. Cass., Sez. 1, 24 luglio 2008, n. 20409).
4.1. — Sono parimenti inammissibili il secondo, il sesto ed il settimo motivo, con cui il ricorrente prospetta vizi di motivazione, senza far accompagnare le cen-sure proposte da sintesi conclusive, recanti la chiara indicazione dei fatti controversi e delle ragioni per cui si afferma l’inidoneità della motivazione a reggere la decisione adottata.
La necessità di una distinta individuazione del fatto controverso e delle ragioni dell’inadeguatezza della motivazione, ove la sentenza sia impugnata ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., è infatti connessa ad un’esigenza di chiarezza, emergente dall’art. 366-bis cod. proc. civ., la quale impone, nella formulazione del motivo, un distinto momento di sintesi (omologo del quesito di diritto prescritto per l’ipotesi in cui la sentenza sia impugnata ai sensi dell’art. 360 n. 3) che circoscriva puntualmente i limiti della critica alla motivazione in fatto, in modo da non ingenerare incertezze in sede di valutazione della sua ammissibilità (cfr. Cass., Sez. Un., 1 ottobre 2007, n. 20603; Cass. Sez. III, 18 luglio 2007, n. 16002).
5. – È invece ammissibile, ma infondato, il nono motivo, con cui il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970, censurando il decreto impugnato nella parte in cui, ai lini della determinazione dell’assegno, ha preso in considerazione il reddito attuale di esso ricorrente, anziché quello da lui goduto all’epoca del divorzio, ed ha omesso di tener conto del reddito attuale della A. e di tutti gli altri elementi indicati dall’art. 5 cit..
5.1. — Nel procedimento per la modifica dell’assegno divorzile, ai sensi dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970, il giudice non può procedere ad un nuovo accertamento dei presupposti prescritti dall’art. 5 della medesima legge per il riconoscimento del diritto all’assegno, la cui sussistenza non può essere rimessa in discussione, avuto riguardo all’efficacia di giudicato spiegata in proposito, sia pure rebus sic stantibus, dalla sentenza di divorzio. L’ambito dell’apprezzamento demandato al giudice della revisione è circoscritto pertanto alla sopravvenienza di nuove circostanze, incidenti sulla situazione economica delle parti e tali da determinare un’alterazione dell’assetto patrimoniale realizzato mediante l’attribuzione dell’assegno, la cui rilevanza va accertata sulla base di una valutazione comparativa delle condizioni economiche degli ex-coniugi e con riguardo alla natura ed alla funzione dell’assegno divorzile, rivolto ad assicurare, in ogni tempo, la disponibilità di quanto necessario alla conservazione di un tenore di vita adeguato alla pregressa posizione economico-sociale del beneficiario (cfr. Cass., Sez. I, 23 ottobre 2007, n. 22249; 23 febbraio 2006, n. 3018).
In particolare, allorché a fondamento dell’istanza rivolta ad ottenere la riduzione o la totale soppressione del diritto al contributo economico siano allegati sopravvenuti oneri familiari dell’obbligato, il giudice, ai fini dell’accoglimento della domanda, deve verificare se detta sopravvenienza determini un effettivo depauperamento delle sue sostanze, mentre, ove sia dedotto il miglioramento delle condizioni economiche del beneficiario, non può limitarsi a considerare isolatamente detto miglioramento, attribuendo ad esso una valenza automaticamente estintiva della solidarietà postconiugale, ma, assumendo a parametro l’assetto di interessi che faceva da sfondo al precedente provvedimento, deve verificare se l’ex-coniuge titolare del diritto all’assegno abbia acquistato, per effetto di quel miglioramento, la disponibilità di mezzi adeguati, ossia idonei a renderlo autonomamente capace, senza necessità di integrazioni ad opera dell’obbligato, di assicurarsi un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio.(cfr. Cass., Sez. 1, 2 maggio 2007, n. 10133; 23 agosto 20067 n. 18367).
Tali principi appaiono puntualmente rispettati nel decreto impugnato, con il quale la Corte d’Appello ha preso atto del divario tra le situazioni economiche delle parti, emergente dalla sentenza di divorzio, escludendo la possibilità di rimettere in discussione l’accertamento dalla stessa compiuto, e si è pertanto limitata alla verifica dei mutamenti intervenuti nelle disponibilità economico-patrimoniali degli ex-coniugi, pervenendo alla conclusione che lo squilibrio reddituale tra le parti era rimasto sostanzialmente immutato. A tal fine, essa ha correttamente preso in considerazione da un lato i redditi di cui le parti erano titolari all’epoca dello scioglimento del matrimonio, così come accertati nella sentenza di divorzio, dall’altro quelli attuali, comprovati dalla documentazione prodotta, costituendo tali elementi i termini necessari di riferimento della valutazione da compiere in ordine all’eventuale modificazione delle posizioni economi che degli ex-coniugi.
È pur vero che la mera comparazione tra i redditi e le sostanze di cui le parti sono titolari all’attualità e quelli posseduti all’epoca del divorzio non è sufficiente ai fini della valutazione in ordine al perdurante obbligo di corrispondere l’assegno ed alla determinazione della sua misura, dovendosi altresì accertare se eventuali incrementi delle risorse economico-patrimoniali dell’obbligato si configurino come ragionevole sviluppo di situazioni ed aspettative maturate nel corso della vita coniugale. La finalità cui risponde l’assegno, consistente nell’assicurare al beneficiario la conservazione di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, impone infatti di tener conto, nell’apprezzamento dell’adeguatezza dei mezzi economici a disposizione del beneficiario, della posizione economico-sociale del nucleo familiare all’epoca dello scioglimento del matrimonio, e quindi di far riferimento, nella valutazione degli sviluppi successivi, unicamente alle prospettive di miglioramenti economici che trovino la loro radice nell’attività svolta all’epoca, oppure nel tipo di qualificazione professionale, o ancora nella collocazione sociale dell’onerato (cfr. Cass., Sez. I, 3 dicembre 2002, n. 17103; 28 gennaio 2000, n. 958; 29 aprile 1999, n. 4319).
L’assenza di qualsiasi riferimento alla predetta valutazione non appare tuttavia sufficiente ad inficiare la correttezza dell’iter logico-argomentativo seguito dal decreto impugnato, avendo la Corte d’Appello accertato che i redditi attualmente posseduti dal ricorrente hanno la loro fonte nella professione di ingegnere edile da lui già svolta all’epoca del divorzio, caratterizzandosi soltanto per la circostanza di essere formalmente imputabili a società successivamente costituite proprio per l’esercizio dell’attività professionale.
6. – Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, e condanna S.M. al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in complessivi Euro 2.200,00, ivi compresi Euro 2.000,00 per onorario ed Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
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