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Suprema Corte di Cassazione 

sezione II

sentenza  n. 15093 del 17 giugno 2013

Svolgimento del processo

F.C. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Terni l’ing. Ma.Pi. e M.A., titolare della ditta omonima, per la risoluzione di un contratto di progettazione, fornitura e posa in opera nel proprio studio professionale di un impianto di condizionamento d’aria, lamentandone il difettoso funzionamento. Entrambi i convenuti resistevano alla domanda, assumendo che i difetti di funzionamento dell’impianto erano ascrivibili ad una sua erronea utilizzazione. M.A. , inoltre, proponeva domanda riconvenzionale di condanna dell’attore al pagamento del residuo prezzo.

Il Tribunale accoglieva la domanda principale, rigettava quella riconvenzionale e, dichiarato risolto il contratto, condannava i convenuti, in solido fra loro, alla restituzione delle somme ricevute in acconto.

L’appello proposto dal Ma. e dal M. era respinto dalla Corte d’appello di Perugia, con sentenza n. 380 del 26.9.2006.

In ordine al motivo di gravame col quale gli appellanti avevano censurato la sentenza impugnata per aver ritenuto l’esistenza di un unico contratto, in luogo di due distinti ed autonomi rapporti, uno di prestazione d’opera avente ad oggetto la progettazione dell’impianto, cui si era obbligato l’ing. Ma., l’altro di realizzazione dell’opera, cui aveva provveduto il M., la Corte territoriale osservava che quest’ultimo aveva ammesso nel corso delle operazioni di c.t.u. di aver concorso alla progettazione realizzando il progetto esecutivo, e che l’istruzione probatoria aveva dimostrato l’esecuzione promiscua dell’incarico da parte dei due convenuti, sicché era da escludere una distinzione tra incarico di progettazione e incarico di installazione dell’impianto.

L’esistenza dei difetti dell’opera, poi, oltre ad essere stata ammessa dal Ma., e dagli stessi dipendenti del M. , salvo attribuirla ad una non corretta utilizzazione, era stata altresì adeguatamente dimostrata dai dipendenti dello studio professionale del F. , e confermata dalla relazione del c.t.u., che aveva individuato l’origine del malfunzionamento nella mancanza di bocchette e di canali di ripresa dell’aria dall’ambiente.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre M.A., che formula sei mezzi d’annullamento. Resiste con controricorso F.C. . Ma.Pi. è rimasto intimato. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

1. – Col primo motivo d’impugnazione è dedotta “la nullità della sentenza (art. 360 n. 5 c.p.c.) per carente, insufficiente e contraddittoria motivazione, anche in relazione a quanto disposto dagli artt. 116 e 228 c.p.c.”.

Individuato il fatto controverso e decisivo nell’esistenza o non di un incarico di progettazione dell’impianto affidato dal F. al M. , parte ricorrente censura la mancata specificazione, nella sentenza impugnata, della dichiarazione con la quale il M. avrebbe ammesso di aver concorso alla fase progettuale esecutiva, ammissione di cui neppure nella sentenza di primo grado vi sarebbe traccia.

2. – Col secondo motivo è dedotta la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c..

Anche a voler ritenere che il M. avesse redatto un progetto esecutivo, da ciò solo non potrebbe dedursi un incarico di progettazione dell’impianto, non essendovi prova di una comune intenzione delle parti in tal senso.

La mancata indagine al riguardo ha fatto che sì che la Corte non esaminasse degli elementi (l’attività imprenditoriale svolta dal M., il genere di corrispettivo chiesto per essa, l’esistenza di un progetto, qualificabile come esecutivo, redatto in autonomia dal solo Ma., la redazione da parte del M. di un semplice disegno del tracciato delle canalizzazioni) che deponevano in senso contrario a quello della decisione, ed ha esonerato di fatto l’attore dall’onere di provare sia di aver affidato la progettazione al M., sia che questi abbia accettato tale incarico.

All’esito, parte ricorrente formula i seguenti quesiti: “1) l’ammissione da parte dell’asserito prestatore d’opera intellettuale della redazione di un progetto esecutivo di progetto di impianto di condizionamento redatto da terzi: a. esonera il giudice del merito, cui sia stato chiesto di accertare l’esistenza di un contratto avente ad oggetto la progettazione di un impianto di condizionamento, dall’indagine imposta agli artt. 1362 e ss. c.c. b. consente al medesimo giudice di merito di prescindere dagli altri elementi in fatto pure rilevanti per gli effetti degli artt. 1362 e ss. c.c. 2) l’ammissione da parte dell’asserito prestatore d’opera intellettuale della redazione di un progetto esecutivo di progetto di impianto di condizionamento redatto da terzi esonera il giudice del merito dal verificare se il sedicente committente l’opera intellettuale abbia fornito la prova, in ossequio dell’art. 2697 c.c., del conferimento al primo di un incarico progettazione del medesimo impianto di condizionamento”.

3. – Il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, n. 5 c.p.c., la nullità della sentenza per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione “anche in relazione a quanto disposto dagli artt. 1362 e ss. c.c. e dagli artt. 116 e 228 c.p.c.”.

La sentenza impugnata, si sostiene, non spiega l’irrilevanza degli altri elementi di fatto pacifici al fine di accertare il rapporto contrattuale tra le parti, né chiarisce in quali termini la redazione di un c.d. progetto esecutivo determini un concorso nella fase progettuale di un impianto di condizionamento, atteso che il progetto esecutivo è null’altro che l’attuazione di un’ideazione già compiuta. Il vizio della sentenza impugnata, prosegue la censura, consiste nel non aver motivato l’asserita equivalenza tra progettazione e progettazione esecutiva; nella contraddizione di aver ritenuto responsabile il M. nonostante questi avesse, in ipotesi, redatto al più un progetto esecutivo; e nella carenza di motivazione lì dove non spiega come la redazione di un progetto esecutivo possa non solo aver concorso alla progettazione, ma anche a rendere viziata la stessa.

4. – Il quarto mezzo d’annullamento deduce la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1223 c.c. e dell’art. 40 c.p.. L’attività materiale di causazione dell’evento dannoso imputata al M. consiste, secondo la Corte territoriale, nell’aver redatto il progetto esecutivo, concorrendo nell’errore di progettazione dell’impianto. Ma se è nel progetto che risiedeva l’errore, nessun contributo causale può aver dato la redazione del progetto esecutivo. Ne consegue che il giudice d’appello ha mancato di applicare l’art. 40 c.p. e gli artt. 1218 e 1223 c.c.. Segue il quesito: “assunta la sussistenza di un rapporto di causalità diretta tra un evento di danno “A” (nel caso di specie, il vizio dell’impianto) e la condotta B (la redazione del progetto iniziale in base al quale è stato realizzato l’impianto), può dirsi sussistente, ai sensi degli artt. 40 c.p., 1218 e 1223 c.c., il rapporto di causalità tra la condotta di C (l’aver redatto un progetto meramente esecutivo del progetto B) e l’evento “A”, se, eliminando la condotta di C, l’evento di danno “A” si sarebbe comunque verificato?”.

5. – Col quinto motivo è dedotta la nullità della sentenza per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, “anche in relazione a quanto disposto dagli artt. 40 c.p., 1218 e 1223 c.c.”.

La sentenza impugnata, sostiene parte ricorrente, non spiega con quale condotta partecipativa della fase di progettazione la ditta M. avrebbe contribuito a causare l’asserita difettosità del funzionamento dell’impianto.

6. – Col sesto e ultimo motivo è dedotta la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 1453, 1455, 1458 e 1668 c.c., nonché degli artt. 1513, comma 2 e 2697 c.c., e per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. La sentenza, si sostiene, è errata nella parte in cui ha considerato sufficiente ai fini della risoluzione del contratto l’inidoneità degli interventi già effettuati dall’appaltatore, mentre per altro verso la Corte territoriale avrebbe dovuto confrontarsi con gli esiti della c.t.u. e dare conto della non emendabilità delle opere realizzate e, dunque, della definitiva inservibilità dell’impianto. Ulteriore errore di diritto è ravvisato dal ricorrente nel fatto che la sentenza impugnata abbia esentato l’attore dall’onere di provare la completa inservibilità dell’opera, perita, com’è pacifico, a causa dello smantellamento dell’impianto effettuato dallo stesso committente di sua iniziativa.

Seguono i quesiti: “l’inidoneità degli interventi dell’appaltatore volti a emendare difetti dell’opera costituisce presupposto sufficiente per risolvere il contratto d’appalto ex art. 1668, comma 2 c.c. “. “L’unilaterale smantellamento delle opere da parte del committente, prima che ne sia accertata la completa inservibilità, osta a che il committente medesimo si avvalga del rimedio della risoluzione del contratto d’appalto”. “L’unilaterale smantellamento delle opere da parte del committente, prima che ne sia accertata la completa inservibilità, aggrava l’onere della prova del committente in applicazione analogica dell’art. 1513 c.c.”.

7. – I primi cinque motivi, da esaminare congiuntamente per la comune inerenza alla medesima questione concernente la responsabilità dell’appaltatore per i vizi del progetto esecutivo, sono manifestamente infondati, perché non considerano un antecedente logico-giuridico che rende vane le censure formulate.

È noto e fermo orientamento di questa Corte che l’appaltatore, dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale nudus minister, per le insistenze del committente ed a rischio di quest’ultimo. Pertanto, in mancanza di tale prova, l’appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all’intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell’opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l’efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori (Cass. n. 8016/12; conformi, ex pluribus, nn. 7515/05,10550/01, 5099/95 e 821/83).

Data, dunque, la responsabilità dell’appaltatore anche per i difetti del progetto che egli non abbia rilevato o in ordine ai quale non abbia espressamente manifestato il proprio dissenso, è del tutto irrilevante ogni questione circa la partecipazione o non dell’appaltatore alla redazione del progetto stesso.

8. – Anche il sesto motivo è infondato.

In disparte sia la commistione fra profili di diritto e profili inerenti alla motivazione della sentenza, sia la pluralità, a fonte di un medesimo mezzo d’annullamento, di quesiti eterogenei (aventi ad oggetto ora la risolubilità del contratto d’appalto, ora l’onere probatorio sul difetto dell’opus), è sufficiente rilevare che la Corte perugina non ha né esentato la parte committente dall’onere di provare il difetto dell’impianto, né ha omesso di valutarne la gravità ai fini della risoluzione del contratto. Accertata la grave difettosità dell’impianto (v. pagg. 4-5 della sentenza impugnata), la Corte distrettuale ha ritenuto che l’opera così come realizzata “pregiudicava in modo totale l’interesse del committente, specie se si considera che egli era tenuto ad assicurare – in particolare ai suoi dipendenti, ma anche ai suoi clienti – condizioni di comfort adeguate al decoro dell’attività professionale esercitata” (pag. 6 sentenza impugnata).

Ancora, la garanzia spettante in favore del committente ai sensi dell’art. 1668 c.c., contempla, alternativamente, l’azione di esatto adempimento, mediante l’eliminazione delle difformità e dei vizi dell’opera a spese dell’appaltatore, la riduzione del prezzo (1 comma), ovvero la risoluzione del contratto (2 comma).

Quest’ultima azione, a differenza delle altre due che presuppongono unicamente l’inesatto adempimento, si basa su di una sola condizione ulteriore, costituita dall’essere le difformità o i vizi tali da rendere l’opera del tutto inadatta alla sua destinazione. Tale condizione, a sua volta, non richiede affatto né che l’appaltatore sia stato previamente posto in condizione di eliminare i difetti, né che l’eventuale tentativo sia stato esperito senza esito, di guisa che è del tutto irrilevante, ai fini dell’accoglimento dell’azione di risoluzione, che l’opera sia stata smantellata dal committente senza consentire all’appaltatore di emendarne i vizi o le difformità. Infine, né le norme di cui è denunciata la violazione, né altre prevedono per la dimostrazione dei vizi redibitori una prova legale consistente in un esame tecnico dell’opera ancora in essere, ben potendone essere accertata l’inidoneità alla destinazione sua propria attraverso la prova storica.

9. – Il ricorso va pertanto respinto.

10. – Le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza della parte ricorrente.

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 2.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre IVA e CPA come per legge.

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