Corte di Cassazione, sezioni unite penali, Sentenza 15 maggio 2019, n. 20808.
La massima estrapolata:
In tema di recidiva, la valorizzazione da parte del giudice dei precedenti penali dell’imputato ai fini del diniego delle circostanze attenuanti generiche non implica il riconoscimento della recidiva contestata in assenza di aumento della pena a tale titolo o di confluenza della stessa nel giudizio di comparazione tra le circostanze concorrenti eterogenee, attesa la diversità dei giudizi riguardanti i due istituti, sicché di essa non può tenersi conto ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato.
Sentenza 15 maggio 2019, n. 20808
Data udienza 25 ottobre 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARCANO Domenico – Presidente
Dott. FUMO Maurizio – Consigliere
Dott. MAZZEI Antonella – Consigliere
Dott. ZAZA Carlo – Consigliere
Dott. FIDELBO Giorgio – Consigliere
Dott. DOVERE Salvatore – rel. Consigliere
Dott. BELTRANI Sergio – Consigliere
Dott. DE AMICIS Gaetano – Consigliere
Dott. ANDRONIO Alessandro M. – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1. (OMISSIS), nato a (OMISSIS);
2. (OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli del 09/02/2017;
Visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
udita la relazione svolta dal componente Salvatore Dovere;
lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Procuratore generale aggiunto Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
1. (OMISSIS) e (OMISSIS) sono stati giudicati dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli responsabili, il primo, della detenzione di tabacco lavorato estero e, il secondo, della detenzione e del trasporto di tabacco lavorato estero, per entrambi aggravati dalla recidiva specifica reiterata ed infraquinquennale ex articolo 99 c.p., e pertanto condannati, all’esito del rito abbreviato, lo (OMISSIS) alla pena di due anni e dieci mesi di reclusione ed Euro 3.433.334,00 di multa ed il (OMISSIS) alla pena di due anni e dieci mesi di reclusione ed Euro 1.500,00 di multa.
Con sentenza emessa il 9 febbraio 2017 la Corte d’appello di Napoli ha confermato siffatta pronuncia, in particolare condividendo il diniego di riconoscimento delle attenuanti generiche, in ragione dei plurimi, specifici e prossimi precedenti penali degli imputati, giudicati espressione di una piu’ elevata capacita’ criminale.
2. Gli imputati hanno proposto congiunto ricorso per cassazione, a mezzo del comune difensore di fiducia, articolando un unico motivo con il quale vengono dedotti la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione all’articolo 157 c.p., per non aver la Corte d’appello rilevato l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione.
I ricorrenti osservano che le condanne sono intervenute per il reato di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 43 del 1973, articolo 291 bis, comma 1, punito con la pena da 1 a 5 anni di reclusione e con la multa di 5 Euro per ogni grammo convenzionale di prodotto; avuto riguardo alla data di consumazione (19.1.2008), i reati si sarebbero quindi estinti per prescrizione alla data del 19.6.2016 (anni 7 e mesi 6), dunque in data antecedente non solo alla sentenza di appello ma allo stesso decreto di citazione per il giudizio di secondo grado, emesso in data 9.1.2017. Ai fini del computo del termine di prescrizione, secondo quanto stabilito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 35738 del 2010, non rileverebbe la circostanza che sia stata loro contestata la recidiva specifica, reiterata ed infraquinquennale, poiche’ la stessa non era stata applicata dal primo giudice, con scelta condivisa dai giudici di appello.
3. La Seconda Sezione di questa Corte, assegnataria del procedimento, ritenuto il ricorso non inammissibile, ha ravvisato la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale sul tema della rilevanza della valorizzazione dei precedenti penali per motivare il diniego di riconoscimento delle attenuanti generiche ai fini del calcolo del tempo necessario alla prescrizione del reato, quando la recidiva contestata ed implicitamente riconosciuta non abbia determinato un aumento della pena, e ha rimesso la questione alle Sezioni Unite ai sensi dell’articolo 618 c.p.p., comma 1.
Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite e’ stato formulato nei seguenti termini:
“se la recidiva contestata e accertata nei confronti dell’imputato e solo implicitamente riconosciuta dal giudice di merito che, pur non ritenendo di aumentare la pena a tale titolo, abbia specificamente valorizzato, per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, i precedenti penali dell’imputato, rileva o meno ai fini del calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato”.
La Sezione remittente ha osservato in proposito che, a fronte di decisioni secondo cui, quando il giudice abbia escluso, anche implicitamente, la circostanza aggravante della recidiva, non ritenendola in concreto espressione di una maggiore colpevolezza o pericolosita’ sociale dell’imputato, la predetta circostanza deve ritenersi ininfluente anche ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato (da ultimo: Sez. 6, n. 54043 del 16/11/2017, S., Rv. 271714; in senso conforme: Sez. 3, n. 9834 del 17/11/2015 – dep. 2016, Cosentino, Rv. 266459; Sez. 2, n. 48293 del 26/11/2015, Carbone, Rv. 265382; Sez. 2, n. 2090 del 10/01/2012, Nigro, Rv. 251776; Sez. 6, n. 43771 del 07/10/2010, Karmaoui, Rv. 248714), si registra, tuttavia, una posizione difforme in seno alla giurisprudenza di legittimita’, la quale ritiene che la recidiva contestata e accertata nei confronti dell’imputato e solo implicitamente riconosciuta dal giudice di merito che, pur non ritenendo di aumentare la pena a tale titolo, abbia specificamente valorizzato, per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, i precedenti penali dell’imputato, rileva ai fini del calcolo dei tempo necessario ai fini della prescrizione del reato (cosi’, Sez. 5, n. 34137 del 11/05/2017, Briji, Rv. 270678, che, in motivazione, ha specificato che solo la recidiva contestata ma non valutata in alcun modo ai fini dell’applicazione del trattamento sanzionatorio, puo’ ritenersi ininfluente sui termini prescrizionali; in senso conforme a tale ultimo orientamento, Sez. 5, n. 38287 del 06/04/2016, Politi, Rv. 267862; Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013, Romano, Rv. 257298; Sez. 1, n. 26786 del 18/06/2009, Favuzza, Rv. 244656; Sez. 5, n. 37550 del 26/06/2008, Locatelli, Rv. 241945).
4. Con decreto del 6 luglio 2018 il Primo Presidente ha disposto, ai sensi dell’articolo 610 c.p.p., comma 2, l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, da trattarsi all’odierna udienza pubblica.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. In primo luogo deve ritenersi l’ammissibilita’ dei ricorsi, ancorche’ incentrati su unico motivo, con il quale si lamenta che la Corte di Appello non abbia rilevato l’intervenuta prescrizione del reato, pur in assenza di denuncia dell’appellante nel corso del giudizio di secondo grado.
Come e’ noto, le Sezioni Unite hanno statuito che ove il ricorso per cassazione sia inammissibile e’ preclusa la possibilita’ di rilevare d’ufficio, ai sensi dell’articolo 129 c.p.p., e articolo 609 c.p.p., comma 2, l’estinzione del reato per prescrizione. E cio’ in quanto l’articolo 129 c.p.p., non riveste una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilita’ e non attribuisce al giudice dell’impugnazione un autonomo spazio decisorio svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali; piuttosto esso enuncia una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo e che presuppone la proposizione di una valida impugnazione (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015 – dep. 2016, Ricci, Rv. 266818).
In tale contesto le S.U. hanno anche precisato che non e’ ex se inammissibile il ricorso per cassazione con il quale si deduce, pur con unico motivo, l’estinzione del reato per prescrizione maturata prima della sentenza d’appello, ma non eccepita dalla parte interessata nel grado di merito ne’ rilevata da quel giudice.
In questa ipotesi, hanno osservato le S.U., il ricorso non puo’ ritenersi inammissibile e la causa di non punibilita’ erroneamente non dichiarata dal giudice di merito deve essere rilevata e dichiarata, in accoglimento del proposto motivo, in sede di legittimita’. Cio’ in quanto il dato positivo non consente di ritenere incensurabile, con il ricorso per cassazione, l’errore del giudice di appello che ha omesso di dichiarare la gia’ intervenuta prescrizione del reato, pur se non eccepita dalla parte interessata in quel grado. Errore che si concreta nella inosservanza o nella erronea applicazione della legge penale ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b).
2. Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite, risultando scandito attraverso proposizioni subordinate apparentemente di pari rilevanza, richiede un preliminare chiarimento. Nonostante si rimarchi che la recidiva e’ “solo implicitamente riconosciuta” e si ponga l’enfasi sulla mancata esplicazione dell’effetto diretto di essa, il denunciato contrasto non attiene agli effetti connessi al mancato aumento di pena, che pure sarebbe imposto da una recidiva riconosciuta, e neppure all’ammissibilita’ di una motivazione implicita quale giustificazione del riconoscimento della recidiva o alla derivabilita’ dell’effetto estintivo da una recidiva implicitamente riconosciuta.
L’analisi delle motivazioni che hanno animato il contrasto interpretativo evidenzia che la controversia verte sulla ammissibilita’ di un riconoscimento della recidiva che pretenda di emergere dalla mera evocazione dei precedenti penali come ragione del diniego delle attenuanti generiche. Quindi sulla rilevanza che legittimamente puo’ assumere il giudizio di (dis) valore che, incentrato sui precedenti penali dell’imputato, e’ elaborato con riferimento alla richiesta di riconoscimento delle attenuanti generiche.
Ne e’ dimostrazione il fatto che non si pone in discussione la necessita’ che, per poter incidere sui termini di prescrizione, la recidiva debba essere ritenuta, ma si argomenta in ordine ai segni che ne attestano l’avvenuto riconoscimento, rintracciandoli nell’aver tenuto conto dei precedenti penali per escludere la concessione delle attenuanti generiche, giungendo poi a derubricare in mero errore il mancato aumento della pena (cfr. Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013, Romano, Rv. 257298; Sez. 5, n. 38287 del 06/04/2016, Politi, Rv. 267862). In termini chiari si sostiene che “nella fattispecie, la recidiva non solo era stata contestata ma era stata anche positivamente ed esplicitamente accertata e il giudice del merito aveva solamente ritenuto, discrezionalmente, di non infliggere alcun aumento di pena a tale titolo, peraltro valorizzando specificamente i precedenti penali dell’imputato per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche” (Sez. 5, n. 34137 del 11/05/2017, Briji, Rv. 270678).
In modo speculare Sez. 6, n. 54043 del 16/11/2017, S., Rv. 271714 ha affermato che “… mai puo’ ritenersi che, attraverso il diniego delle circostanze attenuanti per effetto della esistenza dei precedenti penali, la recidiva puo’ dirsi implicitamente riconosciuta dal giudice cosi’ rilevando, come circostanza aggravante speciale, ai fini del calcolo dei termini di prescrizione…”, cosi’ escludendo che, in assenza di una qualche argomentazione sulla concreta attitudine dimostrativa dei precedenti penali dell’imputato ai fini del giudizio di pericolosita’, valorizzati solo per negare le attenuanti generiche, e in assenza di un aumento di pena per la recidiva, potesse ritenersi che il giudice avesse ritenuto di riconoscere l’aggravante in parola.
Dal canto suo, Sez. 2, n. 48293 del 26/11/2015, Carbone, Rv. 265382 ha ritenuto che l’assenza di un aumento di pena riconducibile alla recidiva, pur contestata, sta ad indicare che questa non e’ stata ritenuta; e che la considerazione dei precedenti penali nel giudizio di diniego delle attenuanti generiche non contraddice tale conclusione per la diversita’ dei piani di valutazione, l’uno ancorato allo specifico fatto di reato per l’apprezzamento della capacita’ criminale dell’autore, l’altro ad un giudizio prognostico sulla probabilita’ di commissione di nuovi reati (integralmente adesiva Sez. 6, n. 16109 del 31/3/2016, Capacci; la non riducibilita’ ad unum dei giudizi e’ rimarcata anche da Sez. 6, n. 38780 del 17/06/2014, Morabito, Rv. 260460). Univocamente militanti per la medesima impostazione Sez. 6, n. 43771 del 07/10/2010, Karmaoui, Rv. 248714; Sez. 2, n. 2090 del 10/01/2012, Nigro, Rv. 251776; Sez. 3, n. 9834 del 17/11/2015 – dep. 2016, Cosentino, Rv. 266459; Sez. 2, n. 46297 del 13/7/2016, D’Onofrio).
Si puo’ quindi ribadire che le diverse tesi si confrontano sulla possibilita’ di ritenere riconosciuta la recidiva per il fatto che il giudice ha tenuto conto dei precedenti penali dell’imputato per negare le attenuanti generiche, valendo cio’ come implicita affermazione di sussistenza dei costrutti della circostanza aggravante; risultando consequenziale la inserzione del mancato aumento della pena nella categoria dell’errore o invece del coerente corollario.
3. Cosi’ definito il tema del contrasto giurisprudenziale, occorre innanzitutto svolgere qualche considerazione sul rilievo che deve riconoscersi alla contestazione della recidiva. Infatti, in talune decisioni, invero non delle piu’ recenti, il rilievo accordato alla contestazione condiziona le conclusioni cui si perviene. Accade quando si afferma che la recidiva contestata e non esclusa deve ritenersi sussistente e quindi produttiva di effetto (ad esempio, quello ostativo di cui all’articolo 172 c.p., comma 7: Sez. 5, n. 37550 del 26/06/2008, Locatelli, Rv. 241945). E’ la medesima posizione espressa dal Procuratore Generale nell’odierna requisitoria, quando ha inteso rimarcare l’intangibilita’ di un giudicato formatosi per effetto di una contestazione non contraddetta dalla decisione di primo grado.
3.1. Prescindendo in questa sede dalla relazione corrente tra contestazione della recidiva e diritto di difesa dell’imputato, occorre porre a fuoco la circostanza che l’attribuzione di una valenza decisiva alla contestazione, tale da far ritenere consolidato il suo avallo da parte del giudice solo che questi non abbia preso esplicitamente una posizione negatoria, mette radici nella temperie normativa e culturale che attribuiva alla recidiva il valore di status personale – “indicato” dal certificato del casellario giudiziale e non bisognevole della mediazione valutativa del giudice -, dal quale conseguiva con automatismo indefettibile l’aumento della pena (salvo le ipotesi di cui all’articolo 100 c.p.).
In ragione di tale presupposto si poteva affermare, ad esempio, che non e’ violato il divieto della reformatio in peius quando il giudice di appello, in mancanza del gravame del Pubblico Ministero, si limiti a rettificare la motivazione e non gia’ il dispositivo della sentenza di primo grado, rilevando l’omesso calcolo della recidiva contestata e mai esclusa (cfr. Sez. 5, n. 1095 del 07/07/1967, Minale, Rv. 105546); o che i precedenti penali costituiscono un elemento cui necessariamente consegue un aumento di pena a titolo di recidiva (cfr. Sez. 2, n. 15 del 12/01/1968, Pedrini, Rv. 107812).
Sul piano degli oneri motivazionali l’impostazione si traduceva nel riconoscimento della necessita’ che il giudice motivasse le proprie determinazioni sul trattamento sanzionatorio solo in caso di recidiva facoltativa ex articolo 100 c.p. (abrogato dal Decreto Legge 11 aprile 1974, n. 99); e neppure in ogni caso ma solo quando avesse ritenuto di escludere l’aumento della pena (ex multis, Sez. 4, n. 1841 del 15/11/1968 – dep. 1969, Boncini, Rv. 110319).
Con la novella del 1974 la recidiva divenne facoltativa in ogni sua specie; tuttavia la giurisprudenza di legittimita’ elaboro’ posizioni non coincidenti quanto al campo di esercizio del potere discrezionale connesso al carattere facoltativo della circostanza.
Secondo l’orientamento prevalente (contrastato ad esempio da Sez. 5, n. 79 del 21/08/1975 – dep. 1976, Di Giorgio, Rv. 131754; Sez. 1, n. 4975 del 13/01/1976, Tosto, Rv. 136903; Sez. 1, n. 6127 del 31/01/1979, Lorrai, Rv. 142451), la nuova disciplina dava facolta’ al giudice non di escludere la recidiva, bensi’ di non apportare gli aumenti di pena che da essa dovrebbero conseguire (Sez. 2, n. 10248 del 12/04/1983, Querzola, Rv. 161468; Sez. 3, n. 435 del 29/09/1978 – dep. 1979, Vinciguerra, Rv. 140816; Sez. U, n. 9148 del 17/04/1996, Zucca, Rv. 205543, in motivazione). Ragion per cui, si osservava, “il primo problema che il giudice deve porsi non e’, quindi, di esclusione o meno della recidiva, bensi’ – ferma questa restando – di scelta circa l’opportunita’ o meno di aumentare la pena. Egli, infatti, non e’ piu’ vincolato all’opinione preventiva ed astratta della maggiore capacita’ a delinquere e pericolosita’ del reo espresse dalla ricaduta nel reato, ma e’ tenuto a stabilire volta per volta se effettivamente la recidiva sia espressione d’insensibilita’ etica e di pericolosita’ e giustifichi, percio’, la maggiore punizione del reo; o se invece, per l’occasionalita’ della ricaduta, per i motivi che la determinarono, per il lungo intervallo di tempo tra il precedente reato ed il nuovo, per la diversita’ di indole delle varie manifestazioni delinquenziali, per la condotta in genere tenuta dal reo, quella insensibilita’ e quella pericolosita’ non siano riscontrabili” (Sez. 6, n. 3874 del 05/09/1974 – dep. 1975, Mele, Rv. 130148).
Ancora in tempi piu’ recenti si e’ affermato che “… la nuova disciplina della recidiva, di cui alla L. 7 giugno 1974, n. 220, ha sancito soltanto la facoltativita’ dell’aumento di pena e non anche degli altri effetti penali connessi alla recidiva (…). Pertanto, e’ ius receptum che il giudice e’ vincolato ad applicare la recidiva, una volta accertato che sia stata correttamente contestata. Mentre, la discrezionalita’ riguarda solo la scelta di aumento o meno di pena, fermo restando che, in ogni caso, la recidiva ha gli altri effetti penali per essa stabiliti dalla legge.
Effetti che vanno dal divieto di misure previste dal diritto sostanziale a quelle previste dall’ordinamento giudiziario – quali la sospensione condizionale della pena, l’oblazione speciale, la liberazione condizionale, la riabilitazione, la prescrizione – e, infine, a quelle processuali, quale quella della preclusione della richiesta di pena ex articolo 444 c.p.p., comma 1 bis. Altrettanto e’ diritto vivente che la recidiva rileva agli effetti penali solo in quanto sia stata ritenuta dal giudice del processo di cognizione dopo essere stata regolarmente contestata, attesa la sua natura di aggravante” (Sez. 6, n. 18302 del 27/02/2007, Ben Hadhria, Rv. 236426).
Corollario di un simile orientamento era che una volta contestata la recidiva, ove non motivatamente esclusa, non poteva considerarsi indice di un giudizio di insussistenza della stessa il mancato aumento della pena.
Se ne puo’ dedurre che un consistente filone giurisprudenziale ha per lungo tempo inteso la recidiva come uno status personale, da ricavare dalla lettura del certificato giudiziale, e pertanto l’ha ritenuta obbligatoria quanto all’an, ove ricorrenti i necessari precedenti penali, e facoltativa nell’effetto diretto (ma non in quelli indiretti).
3.2. Si tratta, tuttavia, di un orientamento ormai abbandonato, poiche’ la riforma della recidiva recata dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, ha oggettivamente fatto da volano ad un’evoluzione della disciplina verso tutt’altra direzione. Evoluzione che prende le mosse dalla sentenza n. 192/2007 della Corte costituzionale (che dichiaro’ inammissibili le questioni di legittimita’ costituzionale dell’articolo 69 c.p., comma 4, come sostituito dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, articolo 3), tra le cui righe puo’ leggersi anche il rimprovero mosso ai giudici remittenti, per aver interpretato l’articolo 99 c.p., comma 4, e quindi il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti concorrenti con la recidiva qualificata, muovendo da un riflesso antico, quello che conduceva a ritenere obbligato il riconoscimento della recidiva (reiterata, ma non solo) ove presenti pertinenti precedenti penali. La Corte costituzionale sollecito’ quindi i giudici a valutare la diversa interpretazione emersa all’indomani della riforma, la quale segnalava come in forza del nuovo regime la recidiva reiterata fosse divenuta obbligatoria unicamente ove concernente uno dei delitti indicati dal citato articolo 407 c.p.p., comma 2, lettera a), ogni altra specie risultando ancora esito di un giudizio discrezionale.
I successivi interventi sono stati ricalcati su questa prima pronuncia (Corte Cost. n. 198 e n. 409 del 2007; n. 33, n. 90, n. 91, n. 193 e n. 257 del 2008; n. 171 del 2009), motrice del convergente indirizzo del giudice di legittimita’, infine prevalso su quello di segno opposto, emerso anche a fronte della nuova disciplina.
Nel 2010 le Sezioni Unite qualificarono la recidiva come circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole, ribadirono che essa va obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero, perche’ cio’ e’ imposto dal principio del contraddittorio, ma rimarcarono che essa puo’ non essere ritenuta configurabile dal giudice (a meno che non si tratti dell’ipotesi di recidiva reiterata prevista dall’articolo 99 c.p., comma 5: previsione attinta dalla successiva dichiarazione di illegittimita’ costituzionale pronunciata con sentenza n. 185/2015). Nell’occasione le Sezioni Unite puntualizzarono che al giudice sta di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosita’ del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualita’ e al grado di offensivita’ dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneita’ esistente tra loro, all’eventuale occasionalita’ della ricaduta e a ogni altro parametro individualizzante significativo della personalita’ del reo e del grado di colpevolezza, al di la’ del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali (cosi’ Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibe’, Rv. 247839).
Con un successivo intervento il massimo organo di nomofilachia descrisse definitivamente la totalita’ dello spazio coperto dall’onere motivazionale, puntualizzando che esso ricorre sia nell’ipotesi che la recidiva venga riconosciuta, sia nel caso che essa venga esclusa. Per Sez. U, n. 5859 del 27/10/2011, Marciano’, Rv. 251690, “sul giudice del merito incombe uno specifico dovere di motivazione sia quando ritiene sia quando esclude la rilevanza della recidiva”, risultando tale dovere insito nei principi affermati nella sentenza n. 192/2007 della Corte costituzionale e in quella n. 35738/2010 delle Sezioni Unite.
Uno specifico riferimento all’esigenza che il giudice offra comunque una adeguata motivazione a supporto della propria valutazione discrezionale si rinviene anche in Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664 e nella piu’ recente pronuncia Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016 Filosofi, Rv. 267044, la’ dove si precisa che proprio a tale tipo di valutazione discrezionale si correla uno specifico obbligo motivazionale del giudice.
L’orientamento cosi’ espresso ha trovato piena adesione anche nella giurisprudenza delle Sezioni semplici, proprio sulla considerazione per cui l’applicazione dell’aumento di pena per effetto della recidiva contestata attiene all’esercizio di un potere discrezionale del giudice che deve essere motivato (tra le altre, Sez. 6, n. 14550 del 15/03/2011, Bouzid Omar, Rv. 250039; Sez. Fer., n. 35526 del 19/08/2013, De Silvio, Rv. 25671; Sez. 6, n. 16244 del 27/2/2013, Nicotra, Rv. 256183; Sez. 3, n. 19170 del 17/12/2014 – dep. 2015, Gordyusheva, Rv. 263464; Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016 – dep. 2017, Del Chicca, Rv. 270419; e gia’ in precedenza Sez. 2, n. 19557 del 19/03/2008, Buccheri, Rv. 240404; Sez. 5, n. 46452 del 21/10/2008, Tegzesiu, Rv. 242601; Sez. 4, n. 21523 del 23/04/2009, Pinna, Rv. 244010; Sez. 6, n. 42363 del 25/09/2009, Dommarco, Rv. 244855).
Sicche’, il superamento di ogni dubbio interpretativo circa il carattere e gli esatti termini della facoltativita’ della recidiva sortita dalla riforma del 2005, conseguito in virtu’ dei ripetuti interventi della Corte costituzionale e dei consonanti arresti delle Sezioni Unite, consente di affermare che nel vigente quadro normativo la recidiva e’ sempre facoltativa, che tale facoltativita’ investe il piano del suo riconoscimento, mentre risulta estranea al piano degli effetti, che si dispiegano o rimangono inespressi a seconda che l’aggravante sia ritenuta o esclusa, salvo riemergere allorquando essi devono essere modulati. Correlativamente, il giudice di merito, proprio perche’ investito di un potere discrezionale, ha l’obbligo di spiegare la sua scelta fornendo adeguata motivazione in ordine ai due profili evidenziati di una “maggiore pericolosita’ del reo” e di una “piu’ accentuata colpevolezza per il fatto”, secondo la precisazione operata da S.U. Calibe’; e, come gia’ accennato, egli e’ chiamato a rendere motivazione in ordine non gia’ all’an dell’effetto diretto, che consegue indefettibile in caso di riconoscimento della circostanza, ma in ordine alla sua entita’, ovvero alla misura dell’aumento di pena e infine in ordine alla relazione con concorrenti circostanze eterogenee, quando non soggetta a vincolo normativo.
3.4. La lezione che deve trarsi da quanto sin qui esposto e’ che la contestazione della recidiva, onere dell’organo dell’accusa che intenda farne oggetto di decisione giurisdizionale, non consolida alcunche’, dovendosi fare riferimento alle statuizioni adottate dal giudice. La facoltativita’ della recidiva – ma l’utilizzo di una locuzione “tradizionale” non deve far credere che si compia un giudizio ontologicamente differente da quello che attiene alle altre circostanze del reato – si traduce in un obbligo motivazionale che ove inadempiuto apre all’ipotesi di una violazione di legge o di un vizio di motivazione. Di certo l’avvenuta contestazione non puo’ prendere il posto di una statuizione mancante.
4. E’ utile ai fini che qui occupano rimarcare quale sia la funzione assolta nel vigente sistema dalla facoltativita’ della recidiva. Essa si inscrive nel processo di conformazione del diritto penale nazionale alle funzioni che la Carta costituzionale assegna alla pena, tra le quali assume preminenza la finalita’ rieducativa, che implica “un costante “principio di proporzione” tra qualita’ e quantita’ della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra” (Corte Cost. n. 341/1994).
Tale finalita’ viene puntualmente evocata nelle decisioni del Giudice delle leggi che hanno colto profili di illegittimita’ costituzionale nella disciplina in tema di recidiva.
Con la sentenza n. 183 del 2011, che ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 62-bis c.p. come modificato dalla legge “ex Cirielli” nella parte in cui non consentiva la concessione delle attenuanti generiche al recidivo reiterato, autore di delitti di cui all’articolo 407 c.p.p., comma 2, lettera a), puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni, in considerazione della condotta susseguente al reato, si e’ affermato che siffatta preclusione si pone in insanabile contrasto con i principi fissati dall’articolo 3 Cost., e articolo 27 Cost., comma 3, sancendo una presunzione del tutto irragionevole e discriminatoria, nonche’ contraria alla fondamentale finalita’ rieducativa della pena, in quanto ciecamente livellatrice delle diverse situazioni personali e dei diversi indici di risocializzazione inerenti i singoli condannati.
Anche in occasione della dichiarazione di illegittimita’ costituzionale per violazione del principio di proporzionalita’ della pena ex articolo 27 Cost., comma 3, dell’articolo 69 c.p., comma 4, nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza dell’attenuante prevista (all’epoca) dal citato Decreto del Presidente della Repubblica n. 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 73, comma 5, in materia di stupefacenti (sent. n. 251 del 2012 C. Cost.); della dichiarazione di illegittimita’ costituzionale dello stesso articolo 69 c.p., comma 4, nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza di cui all’articolo 648 c.p., comma 2, (sent. 105 del 2014) e del divieto di prevalenza dell’attenuante di cui all’articolo 609 bis c.p., comma 3, sulla recidiva reiterata (sent. n. 106 del 2014); della dichiarazione di illegittimita’ costituzionale dell’automatismo relativo all’attenuante della collaborazione nell’ambito dei procedimenti per fatti di narcotraffico (sentenza n. 74 del 2016), i motivi di incostituzionalita’ sono stati individuati dalla Corte nel contrasto della presunzione assoluta di cui all’articolo 69 c.p., comma 4, con i principi di uguaglianza e parita’ di trattamento, potendosi giungere a pene identiche per situazioni di rilevo penale diverso, con il principio della finalita’ rieducativa della pena, introducendosi un trattamento punitivo non individualizzato, nonche’ con il principio di proporzionalita’ ed offensivita’, precludendo al giudice di rapportare la risposta sanzionatoria alla specifica gravita’ del fatto concreto.
Di particolare interesse, sotto il profilo in considerazione, e’ la sentenza n. 185 del 2015. I giudici costituzionali, nel dichiarare l’illegittimita’ dell’articolo 99 c.p. comma 5, limitatamente alle parole “e’ obbligatorio e”, con riferimento ai principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’articolo 3 Cost., e ai principi di proporzionalita’ e finalita’ rieducativa della pena, sanciti dall’articolo 27 Cost., hanno sottolineato come il rigido automatismo sanzionatorio cui dava luogo la norma censurata collegando l’automatico e obbligatorio aumento di pena esclusivamente al dato formale del titolo di reato commesso, fosse del tutto privo di ragionevolezza, perche’ “inadeguato a neutralizzare gli elementi eventualmente desumibili dalla natura e dal tempo di commissione dei precedenti reati e dagli altri parametri che dovrebbero formare oggetto della valutazione del giudice prima di riconoscere che i precedenti penali sono indicativi di una piu’ accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosita’ del reo”. Quanto alla finalita’ rieducativa della pena, i giudici della Consulta, richiamando le prime pronunce sul tema (sent. n. 192 del 2007 e n. 183 del 2011) hanno affermato che la previsione di un obbligatorio aumento di pena, legato solamente al dato formale del titolo di reato, senza alcun accertamento della concreta significativita’ del nuovo episodio delittuoso – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti e avuto riguardo ai parametri indicati dall’articolo 133 c.p. – sotto il profilo della piu’ accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosita’ del reo, viola anche l’articolo 27 Cost., comma 3, che implica “un costante principio di proporzione tra qualita’ e quantita’ della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra” (sentenze n. 341 del 1994 e n. 251 del 2012).
Da ultimo, nel dichiarare l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 69 c.p., comma 4, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui al Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, articolo 219, comma 3, (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) sulla recidiva di cui all’articolo 99 c.p., comma 4, la Corte costituzionale ha esplicitato la relazione che corre tra la necessita’ di individualizzazione della pena in funzione della rieducazione del condannato e il principio di offensivita’ del fatto, in sostanza escludendo che i due aspetti della colpevolezza e della pericolosita’ possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo (sent. n. 205/2017).
Se ne puo’ inferire che un uso non adeguatamente sorvegliato della recidiva minaccia la funzione rieducativa della pena proprio per il rischio di eccedere la pena proporzionata; per questo la motivazione deve restituire la valutazione che il giudice ha compiuto, in termini che comunichino il difficile e peculiare itinerario percorso, attraverso l’evidenziazione tanto degli elementi assunti ad indicatori quanto del traguardo dell’accertamento.
5. Ne consegue, una volta di piu’, la assoluta centralita’ della motivazione. La formulazione del quesito impone di chiarire che certamente puo’ trattarsi anche di motivazione implicita.
5.1. La giurisprudenza di legittimita’ e la dottrina non dubitano, in generale, della legittimita’ del ricorso alla motivazione implicita, che si configura non gia’ come idealtipo strutturalmente diverso e “scalare”, fronteggiante quello della motivazione “esplicita”, ma piuttosto come una particolare tecnica espositiva, caratterizzata dal proporre un’argomentazione, espressa a giustificazione di una determinata statuizione, in funzione di giustificazione anche di altra statuizione, sul presupposto di una stretta conseguenzialita’ logica o giuridica tra quanto affermato a riguardo della prima e quanto valevole per la seconda. Come e’ stato acutamente osservato, nella motivazione implicita manca il testo grafico ma non il discorso argomentativo. Sicche’, per definizione, ove ricorre una motivazione implicita non puo’ mai parlarsi di omessa motivazione; semmai puo’ emergere un vizio di motivazione. Solo ove manchi il menzionato nesso di conseguenzialita’ logica e giuridica si determina una violazione di legge per l’inesistenza della motivazione (cfr. Sez. 6, n. 33705 del 15/06/2016, Caliendo, Rv. 270080).
5.2. Il ricorso da parte del giudice alla motivazione implicita trova riscontro nella disciplina processuale, la’ dove essa impone che la sentenza contenga “una concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto” su cui e’ fondata (articolo 544 c.p.p., comma 1, e articolo 546 c.p.p., comma 1, lettera e). La stessa previsione della regola della redazione della sentenza “subito” dopo la sua deliberazione depone per la legittimita’ del ricorso a modalita’ di argomentazione funzionali al rispetto della regola della subitaneita’.
La motivazione implicita e’ altresi’ compatibile con il diritto ad un equo processo, come previsto dall’articolo 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, secondo la interpretazione datane dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (cfr. Corte Edu, Quarta Sezione, 24.07.2015, Chipani ed altri c. Italia, nella quale si e’ ritenuto violato l’articolo 6 della Convenzione per non essere stata resa motivazione del rigetto della questione pregiudiziale posta dai ricorrenti, ma solo per uno dei due profili segnalati, l’altro essendo stato oggetto di motivazione implicita).
In ragione dell’ammissibilita’ della motivazione implicita si ritiene che non sia censurabile in sede di legittimita’ una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando risulti che la stessa sia stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata (Sez. 1, n. 27825 del 22/05/2013, Caniello, Rv. 256340).
5.3. Con specifico riferimento agli istituti che piu’ da presso vengono in considerazione in questa sede, giova rammentare l’insegnamento secondo il quale, in caso di diniego delle circostanze attenuanti generiche, la motivazione puo’ implicitamente ricavarsi anche mediante il raffronto con le considerazioni poste a fondamento del loro avvenuto riconoscimento, riguardo ad altre posizioni esaminate nella stessa sentenza, quando gli elementi oggetto di apprezzamento siano gli stessi la cui mancanza ha assunto efficacia determinante nell’ambito di una valutazione generalmente negativa (Sez. 6, n. 14556 del 25/03/2011, Belluso, Rv. 249731).
Con precipuo riguardo alla recidiva, si afferma che il giudice puo’ adempiere all’onere motivazionale anche implicitamente, ove la sentenza dia conto della ricorrenza di quei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosita’ del suo autore, che sono alla base dell’aggravamento di pena disposto dal legislatore per effetto della circostanza di cui all’articolo 99 c.p. (cosi’, Sez. 6, n. 20271 del 27/04/2016, Duse, Rv. 267130); che l’esclusione della recidiva facoltativa contestata richiede uno specifico onere motivazionale da parte del giudice che, tuttavia, puo’ essere adempiuto anche implicitamente ove si sia in concreto apprezzata l’insussistenza dei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosita’ del suo autore (Sez. 3, n. 4135 del 12/12/2017 – dep. 2018, Alessio, Rv. 272040; cosi’ anche, Sez. 2, n. 39743 del 17/09/2015, Del Vento, Rv. 264533; Sez. 2, n. 40218 del 19/06/2012, Fatale, Rv. 254341).
5.4. L’esame della giurisprudenza di legittimita’ rende quindi evidente che non e’ in dubbio che il giudice possa argomentare secondo la tecnica della motivazione implicita; e che un simile principio trova riconoscimento pure con riferimento al giudizio in merito alla sussistenza o insussistenza della recidiva.
Ma va rimarcato che anche ove si faccia ricorso a tale particolare modalita’ argomentativa deve risultare che sia stata compiuta la specifica indagine imposta dalla contestazione della recidiva.
6. Occorre allora verificare se il menzionato nesso di consequenzialita’ ricorre tra la valorizzazione dei precedenti penali utilizzati quali fattori ostativi alle attenuanti generiche ed il giudizio che riconosce la recidiva.
6.1. Il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimita’ chiarisce che ai fini dell’applicabilita’ delle circostanze attenuanti generiche di cui all’articolo 62 bis c.p., il giudice deve riferirsi ai parametri di cui all’articolo 133 c.p.; fermo restando che non e’ necessario, a tale fine, che li esamini tutti, essendo sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso fare riferimento (Sez. 2, n. 2285 del 11/10/2004 – dep. 2005, Alba, Rv. 230691; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269).
Si tratta di una interpretazione che, attraverso l’argomento a contrario, ha un preciso ancoraggio nell’articolo 62 bis c.p., comma 2. Poiche’ la disposizione esclude che nei casi previsti dall’articolo 99, comma 4, in relazione ai delitti previsti dall’articolo 407 c.p.p., comma 2, lettera a), ove puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni, assumano rilevanza i criteri previsti dall’articolo 133, comma 1, n. 3, e comma 2 (ma, a seguito di Corte costituzionale, sent. del 10.6.2011, n. 183, puo’ tenersi conto della condotta del reo susseguente al reato), fuori da tali casi valgono tutti i criteri di cui all’articolo 133 c.p..
Cio’ non di meno, la prevalente giurisprudenza di questa Corte (consonante con parte della dottrina), ritiene che le attenuanti generiche hanno la funzione di adeguare la pena al caso concreto, permettendo la valorizzazione di connotati oggettivi o soggettivi non tipizzati ma che appaiono in grado di diminuire la meritevolezza e/o il bisogno di pena. Esse, quindi, presuppongono l’esistenza di elementi “positivi”, intendendo per tali quelli che militano per una diminuzione della pena che risulterebbe dall’applicazione dell’articolo 133 c.p.. Come e’ stato precisato, la ragion d’essere della previsione normativa recata dall’articolo 62 bis c.p., e’ quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso piu’ favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si e’ reso responsabile. Ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non puo’ mai essere data per scontata o per presunta, si’ da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza (cfr. Sez. 3, n. 35570 del 30/05/2017, Di Luca, Rv. 270694).
Al contrario, e’ la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che cio’ comporti tuttavia la stretta necessita’ della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (in tali termini gia’ Sez. 1, n. 11361 del 19/10/1992, Gennuso, Rv. 192381; Sez. 2, n. 38383 del 10/07/2009, Squillace, Rv. 245241 e piu’ di recente Sez. 1, n. 46568 del 18/05/2017, Lamin, Rv. 271315; Sez. 3, n. 35570 del 30/05/2017, Di Luca, Rv. 270694).
La conciliazione tra affermazioni apparentemente cosi’ diverse si coglie sul piano applicativo, il quale conferma quel carattere pressoche’ onnicomprensivo dell’articolo 133 c.p., da sempre segnalato dalla dottrina. Nel medesimo orizzonte si registra il ricorso alle attenuanti generiche per la mitigazione di trattamenti sanzionatori che diversamente risulterebbero sproporzionati, sia pure valorizzando profili avvertiti (non sempre a ragione) come estranei al catalogo dell’articolo 133 c.p.; ma anche la cura nel filtrare eventuali spinte irrazionalistiche attraverso l’ancoraggio ai parametri legali della dosimetria sanzionatoria.
6.2. Orbene, i precedenti penali dei quali fa menzione l’articolo 133 c.p., non sono del tutto coincidenti con quelli che contribuiscono a costituire la recidiva. A solo titolo esemplificativo si puo’ considerare che nei primi rientrano anche le sentenze che concedono il perdono giudiziale, che invece non rilevano ai fini della recidiva (Sez. 5, n. 2655 del 16/10/2015 – dep. 2016, Halilovic, Rv. 265709); quelle che escludono la punibilita’ per la particolare tenuita’ del fatto, ai sensi dell’articolo 131 bis c.p. (soggette ad iscrizione nel casellario giudiziale ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 313 del 2002, articolo 3, lettera f, ma non valevoli ai fini della recidiva); le sentenze di condanna per reati colposi e per le contravvenzioni, che non possono concorrere a concretare la recidiva, pur quando formatesi prima dell’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005, ma che possono essere prese in considerazione nella valutazione della gravita’ del fatto ostativa all’ammissione all’oblazione di cui all’articolo 162 bis c.p., (Sez. 3, n. 29238 del 17/02/2017, Cavallero, Rv. 270147, in motivazione, ove si rammenta che quella gravita’ va apprezzata alla luce degli indici di cui all’articolo 133 c.p.); le condanne per le quali si e’ prodotta l’estinzione di ogni effetto penale determinata dall’esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale, che invece non possono essere considerate agli effetti della recidiva (Sez. 3, n. 39550 del 04/07/2017, Mauri, Rv. 271342).
Allo stesso modo, mentre la riabilitazione non preclude la valutazione dei precedenti penali e giudiziari del riabilitato nell’apprezzamento del comportamento pregresso dell’imputato ai fini della determinazione della pena, ai sensi dell’articolo 133 c.p. (cfr. Sez. 6, n. 16250 del 12/03/2013, Schirinzi, Rv. 256186), l’estinzione delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna conseguente alla riabilitazione preclude che della condanna si possa tener conto ai fini della recidiva, sino a quando non sia intervenuto il provvedimento di revoca della sentenza di riabilitazione (Sez. 1, n. 55359 del 17/06/2016, Pesce, Rv. 269042).
E’ poi da rammentare che l’articolo 133 c.p., comma 2, n. 2, considera anche i precedenti giudiziari, certamente irrilevanti ai fini del giudizio sulla recidiva.
6.3. Quel che ulteriormente rileva in questa sede e’ che, ancorandosi le attenuanti generiche a specifici elementi positivi in grado di condurre ad una riduzione della pena quale risultante dall’applicazione dell’articolo 133 c.p., quegli elementi possono risultare contrastati e depotenziati da fattori di segno opposto; tra i quali legittimamente si collocano anche i precedenti penali del reo (ex multis, Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269).
Si vede bene, quindi, che allorquando il giudice fa ricorso ai precedenti penali per negare la meritevolezza dell’attenuazione della pena prevista dall’articolo 62 bis c.p., egli opera una ricognizione che sfocia nel giudizio di insussistenza di elementi positivi o nel giudizio di dominanza di un fattore negativo sui concorrenti elementi positivi. Quando il fattore in parola e’ costituito dai precedenti penali del reo, la loro evocazione costituisce quindi un espediente retorico che esalta l’assenza di elementi positivi o la ricorrenza di un concreto elemento in grado di depotenziare quelli favorevoli pur accertati.
7. Del tutto diverso il giudizio in materia di recidiva.
7.1. In primo luogo ben piu’ limitato e’ il senso della locuzione “precedenti penali” valevole per essa. Costituiscono precedenti penali valutabili ai fini della recidiva unicamente le condanne definitive e solo quelle che siano divenute tali prima della commissione del nuovo reato; a seconda della specie di recidiva, la condanna deve avere connotazioni particolari, quanto all’oggetto, al tempo, al numero. Ricorrono poi le ulteriori esclusioni gia’ elencate al paragrafo.
7.2. In concreto, quindi, ben puo’ accadere che i giudizi – quello concernente il (negato) riconoscimento delle attenuanti generiche e quello attinente al (positivo) riconoscimento della recidiva – non abbiano una base fattuale coincidente.
In caso diverso, quando la evocazione dei precedenti penali non si riduca alla gia’ rammentata operazione retorica, l’uso del medesimo elemento, sia per escludere le attenuanti generiche che per ritenere la recidiva, da’ luogo ad operazioni non sovrapponibili.
La dottrina e’ incline a cogliere una diversita’ prospettica delle valutazioni dei precedenti penali cui chiamano, rispettivamente, l’articolo 133, e l’articolo 99 c.p.. Mentre la prima considera i precedenti penali per la loro attitudine a dare indicazioni in merito alla personalita’ del reo, quale ulteriore elemento di conoscenza che, in una considerazione globale (che quindi puo’ vederlo recessivo), permette di apprezzare la gravita’ del reato, la seconda assume il precedente penale per l’accertamento della consapevolezza del disvalore dell’azione da parte del reo e della pericolosita’ sociale dello stesso. Ha rilievo, quindi, la conoscenza e la conoscibilita’ della precedente condanna, dovendosi valutare la possibilita’ per il reo di trarre dal precedente vissuto giudiziario le motivazioni per determinarsi verso condotte lecite e la natura delle controspinte che lo hanno condotto a delinquere nuovamente (per una esemplificazione di tale giudizio Sez. 3, n. 30029 del 20.12.2017, dep. 2018, Scarano; Sez. 4, n. 25564 del 09.05.2017, Pansera). La giurisprudenza di legittimita’, dal canto suo, ammette la polivalenza degli elementi indicati dall’articolo 133 c.p. (cfr. Sez. 2, n. 24995 del 14/05/2015, Rechichi, Rv. 264378; Sez. 2, n. 933 del 11/10/2013 – dep. 2014, Debbiche Helmi, Rv. 258011).
Risulta poi evidente che il giudizio che riconosce la recidiva considera il precedente non come fattore ostativo bensi’ come fattore costitutivo, sia pure non esclusivo, essendo ancora necessario verificare la relazione che esso intrattiene con il nuovo reato.
La irriducibilita’ della recidiva alla titolarita’ di precedenti penali e’ tra le premesse fondamentali della rammentata giurisprudenza costituzionale formatasi nel tempo successivo all’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005; essa importa la necessita’ che il giudice ne accerti i due requisiti costitutivi, verificando non solo l’esistenza del presupposto formale rappresentato dalla previa condanna, ma anche del presupposto sostanziale, costituito dalla maggiore colpevolezza e dalla piu’ elevata capacita’ a delinquere del reo, da accertarsi discrezionalmente.
Si tratta di nozioni ormai acquisite al diritto vivente ma che meritano di essere ribadite, per la pratica difficolta’ di farne corretta applicazione.
Ed invero, la complessita’ del giudizio e’ stata piu’ volte ribadita anche dalla giurisprudenza di legittimita’. Le Sezioni Unite Calibe’ hanno rimarcato l’obbligo del giudice di svolgere una verifica in concreto sulla reiterazione dell’illecito quale indice sintomatico di riprovevolezza e pericolosita’, tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualita’ dei comportamenti, del margine di offensivita’ delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneita’ esistente fra loro, dell’eventuale occasionalita’ della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalita’ del reo e del grado di colpevolezza, al di la’ del mero ed indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali.
Nel ribadire il rifiuto di una recidiva intesa come status formale del soggetto le Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664 hanno nuovamente rimarcato che essa e’ produttiva di effetti unicamente se il giudice ne accerti i requisiti costitutivi, verificando non solo l’esistenza del presupposto formale rappresentato dalla previa condanna, ma anche procedendo al riscontro sostanziale della “piu’ accentuata colpevolezza”, per cui il soggetto risulta particolarmente riprovevole per essersi mostrato insensibile all’ammonimento derivante dalla precedente condanna, e della “maggior pericolosita’”, intesa come indice della sua inclinazione a delinquere; sicche’ la recidiva richiede un accertamento, nel caso concreto, della relazione qualificata tra lo “status” e il fatto, che deve risultare sintomatico, in relazione alla tipologia dei reati pregressi e all’epoca della loro consumazione, sia sul piano della colpevolezza che su quello della pericolosita’ sociale (nel medesimo senso anche Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, Rv. 267044).
7.3. La complessita’ del giudizio e’ ulteriormente accentuata dal duplice fondamento della recidiva. Se la maggiore colpevolezza per il fatto impegna a rintracciare i segni del processo motivazionale sottostante il nuovo reato e a verificarne i nessi con il pregresso giudiziario del reo, per la maggiore pericolosita’ sociale si pongono in primo luogo problemi ricostruttivi, derivanti dalla contrarieta’ ai principi costituzionali di un’accezione che la faccia coincidere con una mera qualita’ della persona del reo e lasci prevalere esigenze di neutralizzazione. Pur cosi’ delimitato il campo delle possibili interpretazioni, la maggiore pericolosita’ puo’ essere ricercata in connessione con il reato commesso (faticando a distinguersi, allora, dalla capacita’ a delinquere), oppure intesa come sinonimo di minore sensibilita’ al processo di rieducazione. In effetti, gran parte degli effetti indiretti della recidiva vengono considerati espressione di una valutazione legislativa ispirata dalla ritenuta maggiore pericolosita’ sociale.
Il fattore di crisi e’ rappresentato dalla concentrazione in un solo giudizio, quello del giudice della cognizione, di valutazioni che guardano in direzioni diverse: la pena proporzionata alla gravita’ del fatto, la efficacia del concreto trattamento in una prospettiva special – preventiva.
Le soluzioni non sono nella disponibilita’ della giurisdizione ordinaria. Tuttavia a questa compete di tener presente, perche’ tal e’ il dato normativo, la circostanza che dalla recidiva conseguono tanto effetti diretti che effetti indiretti; in cio’ una forte caratterizzazione di questa particolare circostanza del reato. Dalla quale devono trarsi le conseguenze che si esporranno piu’ avanti.
7.4. Per quanto complesso il compito che incombe sul giudice chiamato ad accertare la fondatezza della contestazione della recidiva, una volta superata la vetusta concezione dello status – specie quando si consideri con realismo la struttura del processo penale – non sono ammissibili motivazioni di puro stile, che non espongano i dati fattuali presi in considerazione, i criteri utilizzati per valutarli, un coerente giudizio circa la maggiore rimproverabilita’ del reo per non essersi fatto motivare dalle precedenti condanne, come pure avrebbe dovuto fare.
Ne’ puo’ essere dimenticata la rilevantissima incidenza che la recidiva assume sul piano sanzionatorio e non solo. La consapevolezza di tali rigorosi effetti e del concorso della recidiva medesima nella necessaria opera di individualizzazione della pena deve responsabilizzare il giudice ed indurlo al massimo scrupolo nell’accertamento degli indici del presupposto sostanziale, sulla scorta di quanto le parti, assolvendo ai rispettivi oneri probatori, conferiscono al giudizio.
Nell’accertamento della fondatezza della contestazione della recidiva il giudice deve essere consapevole della necessita’ di sorvegliare che non si determini una indebita valorizzazione delle qualita’ della persona del reo. L’ormai consueto richiamo all’accertamento della maggiore colpevolezza per il fatto e della maggiore pericolosita’ sociale del reo non puo’ banalizzare il giudizio e far dimenticare che, in una prospettiva costituzionalmente orientata, esse non possono mai condurre a determinare una misura della pena che ecceda quella proporzionata alla gravita’ oggettiva e soggettiva del fatto. Come ribadito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 205/2017, “la recidiva reiterata riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosita’, ed e’ da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensivita’ e’ chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se cosi’ non fosse, la rilevanza dell’offensivita’ della fattispecie base potrebbe risultare neutralizzata” da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosita’ (sentenza n. 251 del 2012)”.
8. La parziale diversita’ della nozione di “precedente penale”; l’insufficienza della sola presenza di precedenti penali a sostenere il giudizio sulla recidiva; il diverso modo in cui essi vengono in considerazione nel giudizio che nega le attenuanti generiche; la differente proiezione teleologica delle due valutazioni in comparazione rendono evidente che non puo’ ravvisarsi alcun nesso di conseguenzialita’ logica e giuridica tra il diniego di riconoscimento della attenuanti generiche giustificato dalla presenza di precedenti penali e una statuizione di riconoscimento della recidiva.
Ne consegue che non e’ fondato attribuire ad un mero errore il mancato aumento della pena; va quindi respinta la diversa affermazione contenuta in Sez. 5, n. 34137 del 11/05/2017, Briji, Rv. 270678; Sez. 5, n. 38287 del 6/4/2016, Politi, Rv. 267862; Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013, Romano, Rv. 257298; Sez. 1, n. 26786 del 18/6/2009, Favuzza, Rv. 244656; Sez. 5, n. 37550 del 26/6/2008, Locatelli, Rv. 241945.
Ben diversamente, deve ritenersi che il mancato aumento di pena a titolo di recidiva costituisce indizio ulteriore del fatto che la circostanza aggravante non e’ stata riconosciuta.
9. Occorre soffermarsi brevemente su quest’ulteriore aspetto della questione proposta dalla Sezione remittente, che investe il piano della relazione tra il riconoscimento della recidiva e i suoi effetti.
Si e’ gia’ rammentato che queste Sezioni Unite hanno statuito che all’esito dell’accertamento al quale da’ via la contestazione della recidiva il giudice puo’ negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non irrogando il relativo aumento della sanzione. Mentre, ove la verifica effettuata si concluda nel senso del concreto rilievo della ricaduta sotto il profilo sintomatico di una piu’ accentuata colpevolezza e maggiore pericolosita’ del reo, la circostanza aggravante opera necessariamente e determina tutte le conseguenze di legge sul trattamento sanzionatorio e sugli ulteriori effetti commisurativi. Si dovranno, allora, trarre dal giudizio tutti gli effetti, diretti ed indiretti, che la legge assegna alla recidiva.
Nel fissare tale insegnamento le Sezioni Unite Calibe’ precisarono che in tale ipotesi la recidiva deve intendersi, oltre che “accertata” nei suoi presupposti (sulla base dell’esame del certificato del casellario), “ritenuta” dal giudice ed “applicata”, determinando essa l’effetto tipico di aggravamento della pena: e cio’ anche quando semplicemente svolga la funzione di paralizzare, con il giudizio di equivalenza, l’effetto alleviatore di una circostanza attenuante.
Inoltre, abbandono’ definitivamente la tesi della “facoltativita’ bifasica” della recidiva, per la quale e’ consentito al giudice di elidere l’effetto primario dell’aggravamento della pena mentre sono obbligatori gli ulteriori effetti penali della circostanza attinenti al momento commisurativo della sanzione.
Anche in Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664, considerando il tema dalla prospettiva del computo dei termini prescrizionali del reato, si e’ affermato che, mentre prima della sentenza di merito la piu’ severa disciplina dei tempi di estinzione (articolo 157 c.p., comma 2) opera sulla base della mera contestazione della recidiva, da considerare circostanza aggravante ad effetto speciale (cfr. Sez. 5, n. 35852 del 07/06/2010, Di Canio, Rv. 248502), una volta intervenuta la decisione che non abbia ravvisato una relazione qualificata fra i precedenti dell’imputato e il fatto a lui addebitato, la circostanza perde il suo rilievo ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato (Sez. 6, n. 43771 del 07/10/2010, Karmaoui, Rv. 248714; Sez. 2, n. 18595 dell’08/04/2009, Pancaglio, Rv. 244158).
Con la sentenza Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, Filosofi, Rv. 267044, le Sezioni unite hanno esaminato la questione relativa alla individuazione del corretto significato del verbo “applicare” utilizzato dall’articolo 81 c.p., comma 4, verificando quando la recidiva possa dirsi “applicata” dal giudice. Richiamando quanto gia’ messo in evidenza da altra e piu’ risalente pronuncia delle stesse Sezioni unite, la Corte ha dunque osservato che la circostanza aggravante deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplica il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all’articolo 69 c.p., un altro degli effetti che le sono propri, cioe’ quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare. Ad avviso delle Sezioni Unite, all’atto del giudizio di comparazione, l’azione dell’applicare la recidiva deve ritenersi gia’ esaurita, perche’ altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario: la recidiva ha comunque esplicato i suoi effetti nel giudizio comparativo, sebbene gli stessi siano stati ritenuti dal giudice equivalenti rispetto alle circostanze attenuanti concorrenti, in assenza delle quali, pero’, la recidiva avrebbe comportato l’aumento di pena. Le ragioni fondanti la conclusione raggiunta vengono altresi’ individuate dalle Sezioni Unite nella elaborazione giurisprudenziale sviluppatasi anche in relazione ai rapporti tra recidiva ed altri istituti, la’ dove si e’ ritenuto che il giudizio di bilanciamento con altre circostanze concorrenti non determini conseguenze neutralizzanti degli ulteriori effetti della recidiva. Cosi’ proprio in tema di prescrizione, dove si e’ affermato che la recidiva reiterata, quale circostanza aggravante ad effetto speciale, rileva ai fini della determinazione del termine di prescrizione, anche qualora nel giudizio di comparazione con le circostanze attenuanti sia stata considerata equivalente (Sez. 6, n. 39849 del 16/09/2015, Palombella, Rv. 264483; Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013 Romano, Rv. 257298; Sez. 1, n. 26786 del 18/06/2009, Favuzza, Rv. 244656; Sez. 5, n. 37550 del 26/06/2008, Locatelli, Rv. 241945). Si parla in simili casi di sostanziale “applicazione” della recidiva, rilevando che la circostanza aggravante deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplichi il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all’articolo 69 c.p., un altro degli effetti che le sono propri, cioe’ quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare (Sez. 2, n. 2731 del 02/12/2015, dep. 2016, Conti, Rv. 265729 in tema di prescrizione; Sez. 1, n. 8038 del 18/01/2011, Santoro, Rv. 249843; Sez. 1, n. 43019 del 14/10/2008, Buccini, Rv. 241831; Sez. 1, n. 29508 del 14/07/2006, Maggiore, Rv. 234867 in tema di divieto di sospensione dell’esecuzione di pene detentive brevi; Sez. 1, n. 47903 del 25/10/2012, Cecere, Rv. 253883; Sez. 1, n. 27846 del 13/07/2006, Vicino, Rv. 234717, in materia di detenzione domiciliare).
10. Queste Sezioni Unite ritengono che la laboriosa evoluzione della riflessione giurisprudenziale in tema di recidiva abbia condotto ad acquisire che si tratta di una circostanza aggravante del reato, inerente alla persona del colpevole, che non differisce nei suoi meccanismi applicativi dalle ulteriori circostanze del reato, se non per quelli aspetti che risultano esplicitamente regolati in modo peculiare dal legislatore (tra i quali gli effetti indiretti). Pertanto la recidiva risulta oggetto di un giudizio di riconoscimento, che mette radici nell’accertamento del presupposto formale e nella valutazione della relazione tra “precedente” e nuovo reato; a tale giudizio consegue ex se l’esplicazione di ogni effetto, diretto ed indiretto, che ad essa riconduce l’ordinamento, senza necessita’ di concettualizzare un particolare momento applicativo, cosi’ come non si dubita che una volta riconosciuta ad esempio una qualsiasi aggravante comune (ex articolo 61 c.p.), questa produca i suoi effetti senza necessita’ di menzionarne l’applicazione come di una particolare operazione.
E’ pur vero che nella trama del codice penale si rivengono due disposizioni nelle quali si legge di recidiva applicata (articolo 81, comma 4, e articolo 603-ter); ma si tratta di terminologia che intende alludere al fatto che il reo sia stato riconosciuto come recidivo, come attestano le conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite n. 31669/2016.
Per stretta attinenza, merita di essere esplicitato che risulta corretta l’interpretazione che prevalentemente si da’ dell’articolo 444 c.p.p., comma 1 bis, ove menziona coloro che sono stati “dichiarati” recidivi; si tratta di una locuzione che risente dell’accostamento nella disposizione dei recidivi ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, per i quali effettivamente e’ disciplinata la dichiarazione dello stato, e che non puo’ essere intesa come dimostrazione della necessita’ di una “dichiarazione di recidiva”, altra rispetto al riconoscimento della circostanza.
Cio’ precisato, va ritenuta erronea l’affermazione secondo la quale la recidiva risulta “applicata” “tenendone conto per escludere la concessione delle attenuanti generiche” (cosi’ Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013, Romano, Rv. 257298). Risulta palese che, non avendo il legislatore attribuito alla recidiva anche l’effetto di interdire il riconoscimento delle attenuanti generiche, non puo’ ipotizzarsi una sua applicazione che in cio’ consista.
L’assenza di una qualche relazione tra i due giudizi emerge anche dalla giurisprudenza che esclude vi sia contraddizione tra il riconoscimento della recidiva e quello contestuale delle attenuanti generiche; o tra il giudizio che escluda l’una e quello che escluda anche le altre (cfr. Sez. 6, n. 38780 del 17/06/2014, Morabito, Rv. 260460); o, ancora, tra il diniego delle circostanze attenuanti generiche, giustificato dai precedenti penali dell’imputato, ed il contemporaneo giudizio di equivalenza tra una circostanza attenuante e la recidiva (Sez. 2, n. 106 del 04/11/2009 – dep. 2010, Marotta, Rv. 246045).
11. Il discorso sin qui condotto conduce a prendere in considerazione Sez. U, n. 17 del 18/06/1991, Grassi, Rv. 187856, secondo cui “una norma va considerata applicata allorquando essa venga concretamente ed effettivamente utilizzata in senso funzionale ai suoi scopi, facendole esercitare uno qualsiasi degli effetti che le sono propri e da essa dipendano con nesso di causalita’ giuridica necessaria, in modo che senza di essa non possono derivare quegli effetti che il giudice riconosce nel farne uso. Salvo, quindi, i casi in cui vi sia specifica – pur se indiretta esclusione di taluno di quegli effetti, una norma deve essere ritenuta come applicata non solo quando da essa si facciano conseguire gli effetti tipici o primari, ma anche allorquando ne derivi uno qualsiasi di tali effetti, pure se secondari o collaterali, ma che trovano comunque matrice nella norma. Non sul piano meramente teorico bensi’ effettivamente incidendo sulla specifica realta’ giuridica. Ne consegue che una circostanza aggravante deve essere ritenuta, oltre che riconosciuta, anche come applicata, non solo allorquando nella realta’ giuridica di un processo viene attivato il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando se ne tragga – ai sensi dell’articolo 69 c.p. – un altro degli effetti che le sono propri e cioe’ quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena irroganda per il reato. Invece, non e’ da ritenere applicata solo allorquando, ancorche’ riconosciuta la ricorrenza dei suoi estremi di fatto e di diritto, essa non manifesti concretamente alcuno degli effetti che le sono propri a cagione della prevalenza attribuita all’attenuante la quale non si limita a paralizzarla, ma la sopraffa’ in modo che sul piano dell’afflittivita’ sanzionatoria l’aggravante risulta tamquam non esset”.
Questa decisione ha lasciato irrisolto il nodo delle conseguenze da trarre in caso di recidiva che, in esito al giudizio di cui all’articolo 69 c.p., sia valutata subvalente.
11.1. Nella giurisprudenza piu’ recente emerge un’oggettiva incertezza, giacche’ all’interpretazione per la quale, ai fini del computo del termine di prescrizione, deve ritenersi “applicata” la recidiva anche se considerata subvalente nel giudizio di bilanciamento con le attenuanti concorrenti (Sez. 7, n. 15681 del 13/12/2016 – dep. 2017, Esposito, Rv. 269669; Sez. 4, n. 8079 del 22/11/2016 – dep. 2017, D’Uva, Rv. 269129), si oppone un diverso orientamento, per il quale la recidiva contestata all’imputato, ritenuta e non applicata dal giudice di merito perche’ considerata subvalente rispetto alla circostanza attenuante, non rileva nel calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato (Sez. 2, n. 53133 del 04/11/2016, Chen, Rv. 269139, che richiama proprio la sentenza n. 17/1991; Sez. 5, n. 48891 del 20/09/2018, Donatacci, Rv. 274601, per le quali non e’ da ritenere applicata l’aggravante quando, ancorche’ riconosciuta la ricorrenza dei suoi estremi di fatto e di diritto, essa non manifesti concretamente alcuno degli effetti che le sono propri a cagione della prevalenza attribuita all’eventuale riconosciuta attenuante).
Ad avviso di questo Collegio, la disciplina della prescrizione offre un nitido punto di ancoraggio per la tesi della rilevanza della recidiva anche quando il giudizio di bilanciamento l’abbia vista subvalente; l’articolo 157 c.p., comma 3, esclude espressamente che possa tenersi in considerazione il giudizio di cui all’articolo 69 c.p., ai fini della determinazione della pena massima del reato di cui trattasi, fattore di riferimento per il computo del termine di prescrizione. E poiche’ l’articolo 161 c.p. richiama talune ipotesi di recidiva coordinando la regola al tempo necessario a prescrivere, definito secondo quanto previsto dall’articolo 157 c.p., resta confermato che anche ai fini del computo del termine di prescrizione in caso di sospensione e di interruzione del corso dello stesso la recidiva assume rilievo solo che sia stata riconosciuta.
Ma la questione ha portata piu’ generale; e’ emersa anche in tema di reato continuato, giacche’ si e’ affermato che il limite minimo per l’aumento stabilito dalla legge nei confronti dei soggetti per i quali sia stata ritenuta la contestata recidiva reiterata non opera quando il giudice abbia considerato la stessa subvalente alle riconosciute attenuanti, in quanto, in tale ipotesi, la recidiva, pur considerata nel giudizio di bilanciamento, non ha pero’ di fatto potuto paralizzare il loro effetto tipico di riduzione della pena (Sez. 6, n. 27784 del 05/04/2017, Abbinante, Rv. 270398). Essa potrebbe ipotizzarsi anche in tema di cd. patteggia mento allargato, ove risulta sinora affrontato solo il caso di recidiva ritenuta equivalente alle concorrenti attenuanti, risolto sostenendo che ai fini della preclusione al patteggiamento a pena detentiva superiore a due anni, e’ sufficiente che la recidiva, contestata ai sensi dell’articolo 99 c.p., comma 4, sia stata riconosciuta dal giudice, anche se in concreto non applicata per effetto del giudizio di equivalenza con circostanze attenuanti (cfr. Sez. 6, n. 23052 del 04/04/2017, Nahi, Rv. 270489).
11.2. Con la gia’ citata Sez. 6, n. 27784/2017 si e’ ritenuto che la soluzione adottata sia imposta dal principio del favor rei, stante la prospettabilita’ di plausibili interpretazioni tra loro discordanti.
A queste Sezioni Unite appare prioritario muovere dalla considerazione che, tanto sul piano normativo che su quello logico, il fatto stesso di aver operato il giudizio di bilanciamento presuppone il riconoscimento della recidiva; diversamente, mancando addirittura uno dei termini da comparare, non sussisterebbe quel concorso di circostanze eterogenee che e’ all’origine delle regole poste dall’articolo 69 c.p.. Come puntualizzato dalla stessa sentenza Filosofi, “… all’atto del giudizio di comparazione, l’azione dell’applicare la recidiva si e’ gia’ esaurita, perche’ altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario”. Cio’ vale anche quando la circostanza aggravante non riesca ad annullare l’attenuante, risultando subvalente all’esito del giudizio di comparazione. L’articolo 69 c.p., dal canto suo, chiaramente indica che esito del giudizio di bilanciamento non e’ la dissolvenza della circostanza subvalente – che in quanto fatto compiuto non puo’ piu’ essere negato – ma la paralisi del suo effetto piu’ tipico, quello di produrre una escursione della misura della pena.
Tuttavia, come si e’ gia’ considerato, la recidiva si caratterizza, tra le circostanze del reato, per essere produttiva non solo dell’escursione sanzionatoria, ma anche di effetti ulteriori, decisivi per la concreta conformazione del trattamento del condannato recidivo. Nell’attuale quadro normativo la recidiva costituisce circostanza del reato; ma permane una sua specificita’ funzionale, per il fatto che e’ produttiva dei cosiddetti effetti indiretti. Se ne censiscono alcuni ancora sul piano della commisurazione della pena; si allude alla previsione del limite minimo dell’aumento di pena da applicare per i reati in concorso formale o in continuazione, ai sensi dell’articolo 81 c.p., comma 4. Altri investono le sorti della punibilita’; si e’ gia’ rammentato l’aumento del tempo necessario alla prescrizione ordinaria del reato e l’incidenza sul termine massimo. Come si e’ gia’ fatta menzione dell’incidenza sul tempo che determina l’estinzione della pena (articolo 172 c.p., comma 7) e sul tempo necessario per ottenere la riabilitazione (articolo 179 c.p., comma 2). Vanno ancora rammentate le preclusioni in tema di amnistia (articolo 151 c.p., comma 5), di indulto (articolo 174 c.p., comma 3).
Anche nella fase esecutiva si registrano previsioni derogatorie al regime ordinario che rinvengono nella riconosciuta recidiva il proprio fondamento. Si rammentano qui: l’entita’ del periodo di espiazione che permette di fruire dei permessi premio previsti dall’articolo 30 ter ord. pen., elevata per i recidivi ex articolo 99 c.p., comma 4; la non concedibilita’ oltre una volta dell’affidamento in prova al servizio sociale nei casi previsti dall’articolo 47, della detenzione domiciliare e della semiliberta’ al condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall’articolo 99 c.p., comma 4, ex articolo 58 quater, comma 7 bis, ord. pen (nel testo scaturito da Corte Cost. sent. n. 291/2010).
In modo del tutto peculiare, quindi, quando e’ in gioco la recidiva, specie se qualificata, la funzione rieducatrice della pena risulta debitrice non tanto, e comunque non solo, della variazione quantitativa della sanzione, quanto anche dell’avvenuto riconoscimento della sussistenza della recidiva.
Orbene, il concreto farsi della risposta punitiva non puo’ essere tenuto in non cale, per il vincolo costituzionale a definire un trattamento sanzionatorio realmente idoneo a conseguire l’obiettivo della rieducazione del reo. Ancorche’ la modulazione del trattamento sanzionatorio secondo l’evoluzione del percorso di rieducazione del condannato sia affidato agli organi della esecuzione penale, il giudice della cognizione non puo’ ignorare che la sua statuizione costituisce il primo fattore di un complessivo programma tendente alla rieducazione del condannato; programma che si snoda in modo piu’ rilevante nella fase dell’esecuzione della pena, ma che si forma sulle direttrici identificate dal giudice del merito.
Decisivo e’ allora considerare che, quando il giudice di merito valuta la recidiva subvalente rispetto alle concorrenti attenuanti, egli esprime una valutazione di disfunzionalita’ della recidiva rispetto al programma di trattamento che comincia a delinearsi con la fissazione della pena da infliggere. Risulterebbe quindi in patente contraddizione con il giudizio che si cristallizza con la definitivita’ della pronuncia attribuire in questi casi valore alla recidiva nel contesto di successive valutazioni che pure si riflettono sulla conformazione di quel programma.
Ne consegue che, quando la recidiva sia stata ritenuta subvalente, fuori dai casi in cui la rilevanza di tale giudizio sia espressamente esclusa dal legislatore, come non si produce l’effetto diretto sulla pena cosi’ non si producono gli effetti indiretti della recidiva.
Su simile caposaldo si e’ attesta la pertinente giurisprudenza di legittimita’, limitando il significato di “applicazione” della recidiva ai casi in cui questa abbia impedito l’attenuazione della pena derivante da concorrenti attenuanti (cfr. Sez. 1, n. 47903 del 25/10/2012, Cecere, Rv. 253883, in tema di divieto di detenzione domiciliare nei confronti dei recidivi reiterati, venuto meno a seguito della modifica dell’articolo 47 ter, comma 1 bis, ord. pen., operata dal Decreto Legge 1 luglio 2013, n. 78, articolo 2, comma 1, lettera b), n. 1, convertito nella L. 9 agosto 2013, n. 94; Sez. 1, n. 27814 del 22/06/2006, Stacchetti, Rv. 234433, per la quale se con la condanna posta in esecuzione la recidiva reiterata e’ stata dichiarata subvalente rispetto alle circostanze attenuanti, l’articolo 58 quater, comma 7 bis, ord. pen., introdotto con L. n. 251 del 2005, non e’ di ostacolo alla concessione della semiliberta’, perche’ la recidiva puo’ ritenersi “applicata”, a norma del menzionato articolo 58 quater ord. pen., se realizza l’effetto tipico di aggravamento della pena e quindi se nel giudizio di comparazione ex articolo 69 c.p., le circostanze attenuanti non sono state dichiarate prevalenti; cosi’ anche Sez. 1, n. 33923 del 22/09/2006, Steiner, Rv. 235191).
Va qui ribadito che, ove il giudizio di bilanciamento di cui all’articolo 69 c.p., si concluda con una valutazione di subvalenza della recidiva, di questa non puo’ tenersi conto ad alcuno effetto, salvo che nelle ipotesi in cui sia espressamente previsto che deve tenersi conto della recidiva senza avere riguardo al giudizio di bilanciamento ex articolo 69 c.p.. Peraltro, proprio previsioni di tal fatta pongono in luce i diversi effetti derivanti da un giudizio che riconosce la recidiva ma la valuta subvalente e una statuizione che nega la ricorrenza della recidiva.
12. Risulta sufficientemente evidente, all’esito dell’itinerario sinora tracciato, come sia fondato su premesse non condivisibili l’orientamento secondo il quale la valorizzazione dei “precedenti penali” che sia stata operata per il diniego delle attenuanti generiche e’ indice di un giudizio che riconosce la ricorrenza della circostanza aggravante della recidiva, risultando un mero errore il mancato aumento della pena a titolo di recidiva.
Esso non coglie la profonda diversita’ che caratterizza l’uno e l’altro istituto, con le conseguenti difformita’ impresse ai giudizi che li concernono. Depaupera il giudizio concernente la recidiva, finendo con il ridurlo alla constatazione della presenza di pertinenti “precedenti penali”, che accidentalmente, in forza del reclutamento di mere formule di stile, possono anche risultare correlati retoricamente ad una maggiore colpevolezza per il fatto e ad una maggiore pericolosita’ sociale del reo, ma senza che il linguaggio possa far velo all’assenza di una reale indagine al riguardo.
Qualifica del tutto arbitrariamente come errore il mancato aumento della pena, facendo emergere con asettica noncuranza quel che costituirebbe, ove fosse effettiva, una patente violazione di legge.
Apre ad effetti in malam partem sulla base di una mera interpretazione della decisione di merito.
13. Puo’ quindi essere formulato il seguente principio di diritto:
“La valorizzazione dei precedenti penali dell’imputato per la negazione delle attenuanti generiche non implica il riconoscimento della recidiva in assenza di aumento della pena a tale titolo o di giudizio di comparazione tra le circostanze concorrenti eterogenee; in tal caso la recidiva non rileva ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato”.
14. Calando le superiori premesse nel caso che occupa, il ricorso risulta fondato. Invero, il giudice di primo grado si e’ limitato a richiamare i precedenti penali dell’imputato per sostenere il diniego delle attenuanti generiche; il richiamo e’ stato lapidario: “non possono essere concesse le attenuanti generiche atteso che si tratta di soggetti gravati da precedenti penali reiterati, specifici ed infraquinquennali”. Nessuna valutazione della relazione tra tali precedenti e i fatti sottoposti al giudizio. Inoltre, a definitiva conferma di una avvenuta esclusione della contestata recidiva, il computo della pena non mostra alcun aumento da imputare alla circostanza in parola. Quanto alla mancata esplicitazione nel dispositivo del giudizio di insussistenza della recidiva, essa non assume rilievo dirimente, dovendo tale omissione essere apprezzata come mero errore materiale, stante la univocita’ della motivazione, alla luce di quanto sin qui esposto. Va qui ribadito l’orientamento per il quale la discrasia tra motivazione e dispositivo puo’ risolversi a favore della prima a condizione che l’esame della motivazione consenta di ricostruire chiaramente ed inequivocabilmente il procedimento seguito dal giudice per determinare la pena (Sez. 6, n. 1397 del 15/09/2015 – dep. 2016, Loielo, Rv. 266495; tra le molte altre, Sez. 4, n. 26172 del 19/05/2016, Ferlito, Rv. 267153; Sez. 2, n. 13904 del 09/03/2016, Palumbo, Rv. 266660, che indicano nella procedura di rettifica di cui all’articolo 619 c.p.p., lo strumento per la correzione dell’errore).
La Corte di Appello ha offerto una motivazione piu’ esplicativa. Alla richiesta dello (OMISSIS) di rivedere il trattamento sanzionatorio in senso piu’ favorevole ha replicato che egli “e’ gravato di numerosi precedenti penali, che, unitamente al nuovo delitto commesso, valgono a delinearne la negativa personalita’ e non consentono un trattamento piu’ benevolo…”; ha aggiunto che dalla gravita’ del fatto emerge la “evidente professionalita’ dello (OMISSIS) nella commissione di reati in materia di contrabbando e il suo certo inserimento in contesti criminali piu’ ampi dediti a tale tipologia di commerci…”, concludendo per la non meritevolezza delle attenuanti generiche. Piu’ stringata, ma non concettualmente dissimile, la motivazione concernente il (OMISSIS).
Orbene, anche a concedere che quanto si e’ appena rammentato possa valere quale motivazione implicita di una riconosciuta maggiorata colpevolezza per il fatto e di piu’ elevata pericolosita’ sociale degli imputati, non sarebbe possibile ovviare alla negativa statuizione del primo giudizio, perche’ non investita dall’appello del Pubblico Ministero. Sicche’ a ritenere che la Corte di Appello abbia riconosciuto la contestata recidiva si avallerebbe una indebita reformatio in peius.
Da cio’ consegue che il termine di prescrizione avrebbe dovuto essere computato senza alcun riferimento ad una recidiva non riconosciuta; e pertanto in sette anni e sei mesi, decorsi alla data del 19.6.2016.
La sentenza impugnata va quindi annullata senza rinvio perche’ i reati sono estinti per prescrizione.
16. Va invece confermata la statuizione concernente la confisca di quanto caduto in sequestro, siccome obbligatoria, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, articolo 301.
Giova rammentare che tanto per la giurisprudenza convenzionale (Corte Edu, Grande Camera, 28/6/2018, G.I.E.M. S.r.l. c. Italia), quanto per il Giudice delle leggi (sent. n. 49/2015) l’estinzione del reato per prescrizione non e’ incompatibile con la confisca obbligatoria, a condizione che siano stati accertati gli elementi oggettivi e soggettivi del reato (Sez. 3, n. 15888 del 08/04/2015, dep. 2016, Sannella, Rv. 266628; Sez. 3, n. 16803 del 08/04/2015, Boezi, Rv. 2635850; Sez. 4, n. 31239 del 23/06/2015, Giallombardo, Rv. 264337; cfr. Sez. 3, n. 1503 del 22/06/2017 – dep. 2018, Di Rosa, Rv. 273534).
Il diritto vivente ha trovato conferma nella introduzione dell’articolo 578 bis c.p.p. (inserito dal Decreto Legislativo 1 marzo 2018, n. 21, articolo 6, comma 4, sulla riserva di codice), rubricato “Decisione sulla confisca in casi particolari nel caso di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione”, in base al quale se e’ stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dall’articolo 240 bis c.p., il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilita’ dell’imputato.
Nel caso in esame l’accertamento della sussistenza dei reati e’ stato conseguito all’esito di due gradi di giudizio, nei quali gli imputati hanno avuto modo di esercitare il diritto di difesa nel merito delle contestazioni loro rispettivamente elevate.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perche’ i reati sono estinti per prescrizione. Conferma la disposta confisca.
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