Palazzo-Spada

CONSIGLIO DI STATO

SEZIONE IV

SENTENZA 5 maggio 2016, n.1808

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5113 del 2015, proposto da:
Expo 2015 S.p.A., rappresentato e difeso dagli avv. Guido Greco, Manuela Muscardini, Angelo Clarizia, con domicilio eletto presso Angelo Clarizia in Roma, Via Principessa Clotilde n.2;

contro

Costruzioni Perregrini Srl in proprio e quale Mandataria in Costituenda Ati, Ati-Panzeri Spa in proprio e quale Mandante, Ati-Milani Giovanni & C Srl in proprio e quale Mandante, rappresentati e difesi dagli avv. Sergio Colombo, Elvira Poscio, Massimo Letizia, con domicilio eletto presso Massimo Letizia in Roma, Via Monte Santo 68;

nei confronti di

Impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro Spa in proprio e in Qualità di Capogruppo Mandataria Ati, Ati-Cefla Soc.Coop., Amministrazione per la Straordinaria e Temporanea Gestione dell’Impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro Spa;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LOMBARDIA – MILANO: SEZIONE I n. 00974/2015, resa tra le parti, concernente risarcimento danni relativo all’aggiudicazione appalto di progettazione ed esecuzione dei lavori di realizzazione delle architetture di servizio del sito expo 2015

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Costruzioni Perregrini Srl in proprio e quale Mandataria in Costituenda Ati e di Ati-Panzeri Spa in proprio e quale Mandante e di Ati-Milani Giovanni & C Srl in proprio e quale Mandante;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 15 dicembre 2015 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati Clarizia e Letizia;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Con l’appello in esame, la Expo 2015 s.p.a. impugna la sentenza 20 aprile 2015 n.974, con la quale il TAR per la Lombardia, sez. I , ha accolto la domanda di risarcimento del danno proposta dalle società Costrizioni Perregrini s.r.l., Panzeri s.p.a. e Milani Giovanni e c. s.r.l..

Tale sentenza si inquadra in una più ampia vicenda processuale, originatasi dall’impugnazione – da parte delle imprese suddette – dell’aggiudicazione definitiva dell’appalto integrato di progettazione ed esecuzione dei lavori di realizzazione delle architetture di servizio del sito Expo 2015, e nell’ambito della quale veniva richiesto sia l’annullamento dell’aggiudicazione, sia la dichiarazione di inefficacia e caducazione del contratto, sia, infine, il risarcimento del danno.

Il TAR per la Lombardia ha dapprima pronunciato la sentenza non definitiva 9 luglio 2014 n. 1802, con la quale ha annullato l’impugnata aggiudicazione definitiva, rinviando per la trattazione della domanda risarcitoria e la complessiva regolazione delle spese.

Tuttavia, nelle more del prosieguo del giudizio di I grado, questo Consiglio di Stato, sez. IV (che con ordinanza 16 settembre 2014 n. 4089 aveva già sospeso l’esecutività della sentenza appellata), con sentenza 20 gennaio 2015 n. 143, in riforma della predetta sentenza di I grado, ha dichiarato irricevibile il ricorso instaurativo del relativo giudizio.

La sentenza impugnata nella presente sede ha, innanzi tutto, rigettato l’eccezione di irricevibilità della domanda risarcitoria, affermando che non è possibile ritenere che il termine di decadenza di 120 giorni per la proposizione della domanda risarcitoria, di cui all’art. 30 Cpa, sarebbe da individuare nella comunicazione dell’aggiudicazione definitiva di cui all’art. 79 d. lgs. n. 163/2006, poiché non si può prescindere “dall’esatta percezione delle conseguenze dannose scaturite dall’illiceità della procedura di gara oggetto del contendere”. Nel caso di specie “è provato che le ripercussioni degli illeciti siano divenute conoscibili alle ricorrenti soltanto dopo l’eclatante scoperta del patto delittuoso volto a turbare la selezione pubblica, la cui rilevanza nelle vicende in questione è stata pienamente confermata dalle richieste di patteggiamento accolte dal GIP del Tribunale di Milano”.

Tanto premesso, la sentenza afferma, in particolare:

– “nei confronti della società Expo sussisteva l’obbligo giuridico di impedire con azioni di contrasto concrete . . . la permeabilità del malaffare nelle procedure di affidamento di “opere essenziali”, come sono state qualificate dal DPCM 22 ottobre 2008 (Art. 1, co. 3) quelle oggetto dell’evento universale”. E ciò in quanto i protocolli di legalità, sottoscritti da Expo 2015, non possono più qualificarsi “come meri atti di indirizzo politico dopo l’entrata in vigore della legge 190/2012”;

– nella specie, “le vicende che hanno interessato l’appalto controverso hanno evidenziato l’assenza di una sollecita azione amministrativa della società che ha gestito la manifestazione dal “preminente interesse pubblico alla legalità”, e dunque la violazione dell’impegno espressamente assunto all’art. 4, co. 1, lett. ii) del Protocollo di legalità;

– ai fini dell’esame della domanda di risarcimento, “è palese l’insufficienza di una cognizione che sia fondata sull’illustrazione di fatti e di vicende giuridiche ascrivibili a una visione di parte (quella, appunto., della stazione appaltante), espressione di un modello processuale ancorata al giudizio sull’atto”, e ciò in quanto tale concezione “derubrica infondatamente l’accertata illiceità della procedura di gara e, in misura non meno sensibile, le ragioni che hanno determinato il commissariamento dell’appalto”;

– al contrario, posto che “si deve ritenere che nella specie debba trovare riscontro l’evolutiva qualificazione del processo amministrativo come giudizio sul rapporto”, ne consegue che “assumendo tale impostazione, la responsabilità della società Expo, alla luce della sua incapacità di assicurare la legalità della procedura di gara e, una volta emerse le citate condotte di malaffare, di porvi immediato rimedio, trova piena conferma ove si raffrontino le condotte illecite dei soggetti (prima indagati e poi) condannati e gli atti e i provvedimenti assunti dalla stazione appaltante nell’ambito del procedimento di gara”;

– “è, pertanto, nell’illiceità della gara che il Collegio ravvisa la prova dell’incapacità della stazione appaltante di porre in essere una efficace azione di prevenzione e di contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, posto che “l’esame obiettivo dei fatti pone, dunque, in evidenza un profondo solco tra la presunta “legittimità dell’intera procedura”, eccepita dalla società Expo per opporsi alla domanda risarcitoria e la manifesta illiceità della gara, accertata dal Tribunale penale di Milano”;

– ne consegue la sussistenza di “una responsabilità della stazione appaltante per?culpa in vigilando?e?in eligendo, ravvisabile in ciò che si prospetta come un inescusabile fallimento del sistema dei controlli e della scelta dei funzionari da preporre a garanzia della trasparenza di una pubblica gara di tanto rilievo”. Né “la contraddizione – emergente dal quadro difensivo della soc. Expo – tra l’illiceità delle condotte delittuose oggetto di definitiva condanna e la legittimità dell’aggiudicazione, ripristinata a seguito della pronuncia del Consiglio di Stato, non elimina l’ingiusto pregiudizio patito dalle ricorrenti e, soprattutto, le responsabilità che ne costituiscono il presupposto”, poiché non è soltanto “all’atto terminale del procedimento di gara che si deve prestare attenzione ai fini del decidere quanto, piuttosto, a ciò che è accaduto nel corso della procedura di gara, sulla cui illiceità non vi è dubbio alcuno”. In definitiva, la legittimità dell’attività amministrativa non può “prescindere dall’accertata illiceità della procedura di gara e dall’elementare rispetto del principio di legalità, la cui violazione è provata” sia dalle vicende giudiziarie penali, sia “dalle motivate ragioni che hanno condotto al commissariamento dell’aggiudicataria”;

– inoltre, alla luce delle vicende penali, avrebbe dovuto provocare “una reale e non formalistica messa in discussione del sistema di gestione di tutta la procedura di gara” ed avrebbe “dovuto sfociare in una decisione essenziale e coraggiosa, espressione del più autentico nucleo del potere di autotutela”, laddove il non averlo fatto “fidando sull’errato assunto che la fase pubblicistica della procedura si fosse conclusa, ha costituito una giustificazione del tutto inidonea a eludere la responsabilità per il pregiudizio che tutti i concorrenti hanno subito dall’illiceità della procedura”.

Alla luce delle ragioni sin qui riportate, la sentenza impugnata, riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, ha proceduto:

– ad escludere la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del mancato utile, poiché l’”irreversibile inattendibilità delle valutazioni operate dalla Commissione giudicatrice”, non rende possibile affermare che la ricorrente “dal confronto concorrenziale tra le offerte, avrebbe ottenuto l’aggiudicazione”;

– a ritenere sussistente il danno curriculare, fissato in Euro 915.656,79/00, con rivalutazione monetaria a decorrere dal momento di conoscenza delle condotte delittuose;

– ad escludere il riconoscimento delle spese di partecipazione alla gara.

Avverso tale sentenza, la Expo 2015 s.p.a. ha proposto i seguenti motivi di appello:

a) violazione art. 2909 cod. civ., violazione artt. 30, co. 3, 41 co. 2, e 120 co. 5 Cpa, in relazione all’art. 79 d. lgs. n. 163/2006; violazione per erronea applicazione delle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici e di tutela processuale in relazione agli stessi; ciò in quanto la sentenza “ha dichiarato tempestiva la domanda risarcitoria del R.T.I. Perregrini, pur riconoscendo che essa è stata proposta largamente oltre il termine di 120 giorni dalla ricezione della comunicazione ex art,. 79 d.lgs. 163/2006”; né, a tal fine, “ha alcun rilievo, per ipotizzare una diversa decorrenza del termine, che il TAR anziché fare riferimento al provvedimento lesivo, abbia ricostruito la vicenda in termini di illiceità della procedura”. Inoltre, vi è violazione del giudicato posto che il Consiglio di Stato, con sentenza 143/2015 “ha escluso in radice che nella specie vi siano vizi emersi in epoca successiva, sussistendo al più mere condotte illecite non rilevanti quale vizio dell’aggiudicazione e, a fortiori, qualedies a quo del termine per la proposizione della domanda di risarcimento del danno in sede di giurisdizione amministrativa”;

b) violazione sotto altro profilo dell’art. 2909 cod. civ.; violazione art. 30, co. 3, secondo cpv Cpa; violazione art. 1227, co. 2, cod. civ.; violazione degli artt. 112 e 336 c.p.c.; ciò in quanto la domanda risarcitoria, oltre ad essere tardiva, “avrebbe dovuto comunque essere disattesa nel merito, in primo luogo per carenza di illiceità e/o per carenza o interruzione del nesso di causalità”, stante la “assenza del requisito dell’antigiuridicità della condotta di Expo, a fronte di una aggiudicazione inoppugnabilmente efficace e, così, priva delle illegittimità ex adverso dedotte”. In ogni caso, anche a voler considerare, quale termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione, quello indicato dal TAR (8 maggio 2014), il ricorso sarebbe comunque tardivo (in quanto proposto in data 11 giugno 2014), con la conseguenza che “sotto ogni profilo la domanda risarcitoria avrebbe dovuto essere considerata infondata”, dovendosi escludere il risarcimento per quei danni che avrebbero potuto essere evitati usando l’ordinaria diligenza, come previsto dall’artt. 30, co. 3 Cpa;

c) ulteriore violazione art. 2909 cod. civ.; travisamento della sentenza n. 143/2015 Cons. Stato; violazione del principio del ne bis in idem; difetto di motivazione; violazione art. 2043 cod. civ. e art. 30, co. 3, Cpa; ciò in quanto, avendo la sentenza citata giudicati insussistenti i vizi di legittimità del provvedimento impugnato, “è venuto meno il presupposto fondamentale, richiesto ai fini della configurazione della responsabilità risarcitoria a carico dell’odierno esponente e cioè il previo accertamento dell’illegittimità del provvedimento amministrativo impugnato e ritenuto fonte del lamentato pregiudizio”;

d) illogicità della sentenza; violazione art. 112 cpc e 34 Cpa; poiché “la domanda risarcitoria non è stata accolta per le ragioni dedotte dall’ATI ricorrente, bensì sulla base di fatti apprezzati dal TAR d’ufficio, estranei ai vizi dedotti nel ricorso”;

e) difetto di giurisdizione del G.A.; violazione artt. 7 e 133, co. 1, lett. e) n. 1) Cpa; poichè “avuto riguardo allacausa petendi posta dal TAR”, si rileva come la domanda risarcitoria è stata accolta “anche facendo leva sul comportamento e sulle condotte illecite e penalmente rilevanti di taluni funzionari di Expo 2015 s.p.a.”, e la sentenza impugnata afferma il diritto al risarcimento “che consegue ad un asserito comportamento omissivo di Expo”, quindi “nemmeno trae diretto spunto dal giudizio penale”, ma Expo sarebbe “colpevole di non aver impedito l’illecito del proprio funzionario o quanto meno le conseguenze scaturitene”;

f) violazione art. 2043 cod. civ.; assenza dei presupposti della disposta condanna (antigiuridicità e nesso causale); contraddittorietà della motivazione; violazione art. 5 d. lgs. n. 231/2001, poiché per un verso Expo “è persona offesa dei reati compiuti”, per altro verso (e contraddittoriamente) è chiamata a risponderne sul piano civilistico. Inoltre, quanto alla affermata “culpa in eligendo” o “in vigilando”, “non vi è alcuna dimostrazione dell’esistenza del nesso eziologico tra le condotte poste in essere dai componenti della commissione giudicatrice e l’aggiudicazione a Maltauro” (v. pp. 31-39 app.);

g) illegittimità del computo del quantum debeatur; illogicità, violazione art. 112 cpc e 2043 c.c.; violazione art. 2697, in ordine all’onere della prova, poiché la sentenza, riconoscendo il danno curriculare, “ha illegittimamente riconosciuto una utilità non richiesta né fatta valere dalla stessa ricorrente, la quale aveva formulato la propria domanda risarcitoria con esclusivo riferimento al (lamentato) pregiudizio rinveniente dalla sola mancata aggiudicazione della gara”; inoltre, sussistono “ulteriori erroneità ed incongruità sui criteri utilizzati” per la quantificazione del danno (pp. 41-44 app.);

h) erroneità e censurabilità della condanna alle spese di causa.

Si è costituita in giudizio la Costruzioni Perregrini s.r.l., in proprio e quale mandataria della costituenda ATI con le mandanti imprese Panzeri S.p.a. Milani Giovanni e c. s.r.l. , la quale ha concluso per il rigetto dell’appello principale, proposto da Expo 2015 s.p.a., ed ha altresì proposto appello incidentale avverso i capi della sentenza che hanno respinto la richiesta di risarcimento del mancato utile, quantificato in Euro 5.152.692,00 e delle spese di gara. Ciò in quanto:

a1) “risulta dagli atti penali che l’illegittimità delle condotte dei componenti la Commissione giudicatrice ha riguardato esclusivamente la valutazione dell’offerta Maltauro che si è voluto indebitamente favorire e valorizzare, ma non le altre offerte”, di modo che non è esatto quanto affermato in sentenza circa una impossibilità di stabilire (stante la “inattendibilità delle valutazioni operate dalla commissione giudicatrice”), che la ricorrente avrebbe ottenuto l’aggiudicazione;

b1) devono costituire oggetto di risarcimento anche le spese sopportate per la partecipazione alla gara alla quale si è inutilmente partecipato “avendo la commissione predeterminato illegittimamente l’aggiudicatario”.

Dopo il deposito di ulteriori memorie, all’udienza pubblica di trattazione la causa è stata riservata in decisione.

DIRITTO

Il Collegio ritiene, in accoglimento del quinto motivo di appello (sub e) dell’esposizione in fatto), di dover dichiarare il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla domanda di risarcimento del danno, proposta in I grado dalla attuale parte appellata, con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

Al fine di una migliore comprensione della presente controversia e del suo esito, appare innanzi tutto utile ricordare che:

– in un primo momento, il TAR per la Lombardia ha pronunciato la sentenza non definitiva 9 luglio 2014 n. 1802, con la quale ha annullato l’impugnata aggiudicazione definitiva, rinviando ad altra successiva udienza per la trattazione della domanda risarcitoria e la complessiva regolazione delle spese;

– nelle more del prosieguo del giudizio di I grado, questo Consiglio di Stato, sez. IV (che con ordinanza 16 settembre 2014 n. 4089 aveva già sospeso l’esecutività della sentenza appellata), con sentenza 20 gennaio 2015 n. 143, in riforma della predetta sentenza di I grado, ha dichiarato irricevibile il ricorso instaurativo del relativo giudizio;

– successivamente, il TAR per la Lombardia, con la sentenza n. 974/2015 (oggetto della presente impugnazione), ha accolto la domanda di risarcimento del danno, nei sensi precisati nell’esposizione in fatto.

Occorre sottolineare che questo Consiglio di Stato, con la citata sentenza n. 143/2015, ha giudicato irricevibile per tardività il ricorso instaurativo del giudizio di I grado, in quanto proposto oltre il termine decadenziale decorrente dalla comunicazione della intervenuta aggiudicazione.

La sentenza – in considerazione della pendenza in I grado della domanda risarcitoria – ha inoltre affermato:

– in primo luogo, che “nessuna violazione emerse né fu accertata durante la fase selettiva, essendo la notizia delle indagini penali e gli arresti di molto successivi all’aggiudicazione e alla stessa stipulazione del contratto”;

– in secondo luogo, che “risulta incontestabile che l’unico strumento azionabile a fronte dell’emergere di una ipotetica violazione del Protocollo di legalità, sarebbe stata la risoluzione contrattuale”, ma quest’ultima “attiene all’esercizio di un diritto potestativo privatistico e paritetico, con la conseguenza che ogni controversia relativa al suo esercizio (o mancato esercizio) sfugge alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”;

– in terzo luogo, che “ogni ipotetica violazione del Protocollo di legalità, che dovesse ricollegarsi alle indagini della Procura della Repubblica di Milano ed alla conseguente esecuzione di misure cautelari, giammai avrebbe potuto viziare l’aggiudicazione definitiva determinandone l’illegittimità: perché, verificatosi l’evento in un momento successivo all’esaurimento della fase pubblicistica di scelta del contraente, esso non avrebbe potuto mai “retroagire” in modo da viziare?ex post?gli atti della gara”.

In definitiva, la sentenza n. 143/2015 del Consiglio di Stato, per un verso, ha dichiarato irricevibile per tardività il ricorso proposto avverso l’aggiudicazione definitiva; per altro verso ha sviluppato, in vista della completa definizione della controversia in I grado, ulteriori riflessioni in ordine alla domanda risarcitoria, proposta unitamente a quella di annullamento, così come previsto dall’art. 30, co. 1, Cpa.

E’ del tutto evidente che:

– mentre la pronuncia in rito in ordine alla irricevibilità del ricorso è coperta da giudicato (nei limiti in cui sia possibile parlare di formazione del giudicato “in senso proprio”, in ordine a tale tipologia di pronunce), poiché il giudicato medesimo non può che formarsi in ordine alla decisione (o ai punti della medesima) con cui il giudice pronuncia in ordine a domanda della parte che agisce o eccepisce in giudizio; e comunque tale pronuncia non è in ogni caso più controvertibile,

– non altrettanto può dirsi per le considerazioni sviluppate in sentenza in ordine alla domanda di risarcimento del danno (e come peraltro ben chiaramente si evince dalla stessa pronuncia), posto che in ordine a questa il giudice di I grado non si era ancora pronunciato e, dunque, essa non formava oggetto del thema decidendum in appello. Non a caso, la stessa sentenza, affermando che ogni ulteriore considerazione sarebbe comunque preclusa dalla declaratoria di irricevibilità, ritiene di fornire “ulteriori osservazioni . . . anche al fine di orientare le successive determinazioni giudiziali”, e solo in questi precisi limiti.

Ma se le osservazioni sviluppate in ordine ai rapporti tra illegittimità dell’atto, domanda di risarcimento del danno e esiti del giudizio penale, per le ragioni innanzi esposte, non costituendo un punto della decisione (ma un semplice per quanto articolato obiter), non sono coperte da giudicato (in ciò, dunque, dovendosi respingere le affermazioni articolate nell’appello, in particolare in taluni profili dei primi tre motivi di impugnazione: sub lett. a-c dell’esposizione in fatto), nondimeno la pronunciata irricevibilità del ricorso con il quale si è (innanzi tutto) proposta l’azione di annullamento dell’atto:

– per un verso, determina il “consolidamento” dell’aggiudicazione, già divenuta inoppugnabile;

– per altro verso, esclude ogni possibile configurazione che possa costituire accertamento in via principale della illegittimità dell’atto (l’aggiudicazione), quale presupposto dell’esame (e di un eventuale accoglimento) della domanda di risarcimento del danno.

Ed occorre sottolineare che la domanda di risarcimento del danno è stata proposta in connessione alla (previa) domanda di annullamento del provvedimento impugnato, in tal modo chiaramente dimostrandosi:

– sul piano processuale, di avere agito in giudizio per il risarcimento del danno non in via autonoma (nei sensi e limiti di quanto prescritto dall’art. 30, co. 3 Cpa);

– sul piano sostanziale, di avere ritenuto (per come desumibile dalla prospettazione) il danno come derivante non già da “comportamenti” dell’amministrazione, bensì dalla adozione, da parte della medesima, di un provvedimento illegittimo.

Posto, dunque, che la pronuncia di questo Consiglio di Stato ha escluso ogni possibilità di accertamento in via principale dell’illegittimità dell’atto impugnato, la successiva pronuncia del TAR (oggetto del presente appello), di condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno, postula che venga chiarito sia su quale domanda (e come azionata in giudizio) il primogiudice abbia pronunciato; sia in ordine a quale atto e/o fatto causativo di danno abbia accertato la sussistenza del conseguente titolo al risarcimento.

In sostanza, occorre accertare:

– se la sentenza abbia pronunciato procedendo ad un accertamento incidentale della illegittimità dell’atto ex art. 30, co. 3, Cpa, ai fini della pronuncia sulla domanda di risarcimento del danno (e solo in questo caso potrebbero essere esaminati i motivi degli appelli principale ed incidentale afferenti alla correttezza della pronuncia), anche in (eventuale) applicazione “estensiva”, di quanto previsto daòll’art. 34, co. 3, Cpa,;

– ovvero se si sia (non correttamente) pronunciato accertando (positivamente, in questo caso) la sussistenza di un danno risarcibile, al di fuori del perimetro della giurisdizione amministrativa in materia, così come definito dall’art. 7 Cpa..

La sentenza impugnata ha riconosciuto la sussistenza di un danno risarcibile (procedendo anche alla sua quantificazione in relazione a determinate “voci”), attraverso un ragionamento che prende, innanzi tutto, le mosse dalla affermata esigenza di superare un “modello processuale ancorato al giudizio sull’atto”, e dunque ritenendo che “nella specie debba trovare riscontro l’evoluta qualificazione del processo amministrativo come giudizio sul rapporto stabilmente affermatasi nell’esperienza giuridica” (pagg. 21-22).

Ciò premesso, il giudice di primogrado, prendendo le mosse dall’ordinanza 6 maggio 2014 del GIP presso il Tribunale penale di Milano e dalla sentenza di quest’ultimo Tribunale 27 novembre 2014 n. 14/3725, di applicazione della pena su richiesta delle parti – atti giudiziari che hanno interessato anche il responsabile del procedimento di gara e presidente della commissione giudicatrice, in ordine ai reati di cui agli artt. 81 cpv., 110, 353, co. 1 e 2, 353-bis c.p. (v. pagg. 25-26 sent.) – rinviene:

a) “una responsabilità della stazione appaltante per culpa in vigilando e in eligendo, ravvisabile in ciò che si prospetta come un inescusabile fallimento del sistema dei controlli e della scelta dei funzionari da preporre a garanzia della trasparenza di una pubblica gara” (pag. 28). In tal senso, la sentenza afferma che “se la stazione appaltante avesse davvero vigilato sulla legalità del procedimento di gara, con controlli penetranti e, soprattutto, con nomine appropriate . . . è ragionevole ritenere che l’attività di “avvicinamento del sodalizio criminoso” non avrebbe sortito effetto”, e conclude nel senso che “la contraddizione . . . tra l’illiceità delle condotte delittuose oggetto di definitiva condanna e la legittimità dell’aggiudicazione, ripristinata a seguito della pronuncia del Consiglio di Stato, non elimina l’ingiusto pregiudizio patito dai ricorrenti e, soprattutto, le responsabilità che ne costituiscono il presupposto” (pag. 31), poiché “non è dunque soltanto all’atto terminale del procedimento di gara che si deve prestare attenzione ai fini del decidere, quanto piuttosto a ciò che è accaduto nel corso della procedura di gara, sulla cui illiceità non vi è dubbio alcuno” (pag. 32);

b) una “responsabilità per il pregiudizio che tutti i concorrenti hanno subito dall’illiceità della procedura”, dovuta al mancato esercizio del potere di autotutela una volta conosciuta l’illiceità, da parte di Expo 2015, il quale si sarebbe sottratto alla adozione di una “decisione essenziale e coraggiosa espressione del più autentico nucleo del potere di autotutela” (pag. 37).

Gli aspetti costituenti culpa in eligendo ed in vigilando, per un verso, e l’omesso esercizio del potere di autotutela, una volta risaputosi di possibili profili di illiceità penale, per altro verso, determinerebbero inoltre, secondo la sentenza, la violazione del protocollo di legalità sottoscritto il 13 febbraio 2012 (ed in particolare del suo art. 4), e dell’impegno ivi assunto a “prevedere una disciplina quanto è più possibile volta a garantire la tutela della legalità e la trasparenza”.

L’esame dei presupposti fondanti la responsabilità risarcitoria dell’amministrazione conduce il Collegio ad escludere che la sentenza impugnata abbia accertato, anche solo in via incidentale, l’illegittimità del provvedimento amministrativo di aggiudicazione, ai fini dell’individuazione del presupposto per il successivo esame della fondatezza della domanda risarcitoria.

Ed infatti, in primo luogo, non vi è in sentenza alcuna affermazione esplicita volta a dimostrare le ragioni che sorreggono, a fronte del ricorso instaurativo del giudizio di primo grado, il tipo di pronuncia assunta. A fronte di una domanda di risarcimento del danno proposta in connessione a quella di annullamento dell’atto, la sentenza:

a) non afferma di pronunciare in applicazione dell’art. 34, co. 3, Cpa, facendosi di poi carico di dimostrare l’applicabilità di tale potere anche, in via estensiva, al caso di specie, dove la pronuncia di annullamento, lungi dal risultare non “più utile per il ricorrente”, è stata preclusa dall’insussistenza dell’essenziale presupposto per la pronuncia nel merito costituito dal tempestivo esercizio dell’azione e conseguente proposizione non tardiva della domanda;

b) non afferma di procedere ad una diversa “qualificazione” dell’azione, in base ai suoi elementi sostanziali, in applicazione (se possibile nel caso di specie) dell’art. 32, co. 2, Cpa, rendendo “azione autonoma” l’azione di condanna già connessa a quella di annullamento;

c) pronuncia, senza espressa dimostrazione giustificativa, su una domanda di risarcimento del danno fondata su presupposti diversi da quelli fatti propri dallo stesso ricorrente il quale, proponendo la domanda risarcitoria in connessione con quella di annullamento, ha inteso a tutta evidenza collocare la propria azione nell’ambito di quanto previsto dagli artt. 7, co. 4, e 30, co. 2, Cpa.. Ed a tal proposito, va ricordato quanto statuito da questa stessa Sezione (sent. 7 dicembre 2015 n. 5570), secondo la quale (ex aliis, altresì, Cons. St., sez. V 27 agosto 2014 n. 4383 e 24 luglio 2013 n. 3957) “costituisce violazione del diritto di difesa, rilevabile d’ufficio ex art. 73 comma 3, c.p.a., porre a fondamento della sentenza di primo grado una questione rilevata d’ufficio, senza previa indicazione in udienza o assegnazione di un termine per controdedurre al riguardo, con conseguente obbligo per il giudice di appello di annullamento della sentenza stessa e rimessione della causa al giudice di primo grado ai sensi dell’art. 105 comma 1, c.p.a.”.

Per altro verso, i presupposti individuati dal primogiudice come fondativi della responsabilità risarcitoria della pubblica amministrazione – in disparte ogni giudizio in ordine alla loro eterogeneità – non attengono a vizi di legittimità dell’atto amministrativo, bensì:

– i primi due (culpa in eligendo ed in vigilando), attengono ad una attività di controllo che si afferma carente e/o inesistente della persona giuridica pubblica su soggetti titolari o componenti di organi amministrativi, dunque sulla loro complessiva attività e sulla rispondenza del “comportamento” tenuto dai medesimi al munus publicumconferito;

– l’ultimo (omesso esercizio del potere di autotuela) ad un comportamento omissivo dell’esercizio di un potere del quale l’amministrazione è titolare.

Come è dato osservare, in ambedue le ipotesi non vengono riscontrati vizi di legittimità dell’atto amministrativo che si assume causativo di danno per lesione di interessi legittimi, bensì più generali “comportamenti negligenti” dell’amministrazione, per omessa vigilanza sugli organi ovvero omesso esercizio di un potere amministrativo.

Nella ipotesi della culpa in eligendo o in vigilando, è del tutto evidente che la responsabilità attribuita all’amministrazione non discende dalla illegittimità dell’atto adottato, ma attiene al più generale comportamento del funzionario (legato da rapporto di servizio o di ufficio), il cui comportamento illecito eventualmente causativo di danno a privati, pur svoltosi in cesura di rapporto organico (proprio perché penalmente illecito), avrebbe tuttavia potuto essere evitato attraverso un diligente esercizio del potere di scelta (recte: di preposizione organica), ovvero di vigilanza sull’operato del medesimo funzionario.

La stessa riconduzione operata in sentenza della responsabilità dell’amministrazione agli istituti della culpa in eligendo ed in vigilando pone tale responsabilità fuori dal rapporto che lega il danno (quale conseguenza diretta) all’atto amministrativo, per il tramite del nesso di causalità.

Tali forme di responsabilità si riferiscono entrambe ad un vizio afferente al corretto rapporto tra persona giuridica pubblica e soggetto che per essa agisce, stante il rapporto organico, e dell’agire del quale l’amministrazione è chiamata a rispondere non già perché responsabile delle conseguenze lesive dell’atto adottato, non essendo ad essa imputabili eventuali effetti derivanti dall’attività o comportamento penalmente illecito, stante l’intervenuta cesura del rapporto organico (il che, ove al contrario fosse, comporterebbe una responsabilità risarcitoria in solido con l’autore del fatto-reato), quanto una responsabilità distinta, fondata su elementi diversi: non già sull’azione o omissione illecita causativa di danno, quanto su un (distinto) comportamento cui si sarebbe stati tenuti e che, in difetto, determina una (distinta) responsabilità.

La responsabilità che la sentenza imputa all’amministrazione, dunque, non discende dall’atto amministrativo adottato, ma da un suo più generale comportamento negligente, dal quale si afferma essere derivato un danno al privato.

Ma tale affermazione di responsabilità consegue alla individuazione di un danno che, lungi dal discendere come conseguenza diretta da un provvedimento amministrativo lesivo di interessi legittimi (o dalla mancata o ritardata adozione di tale atto), con ciò radicando la giurisdizione del giudice amministrativo (Cass., sez. un., 22 gennaio 2015 n. 1162), discende invece dall’accertamento di un generale comportamento negligente e/o omissivo della pubblica amministrazione in sede di controllo sugli organi, lesivo del principio del neminem ledere, e del tutto prescindente dall’esercizio di un potere amministrativo ovvero dal mancato esercizio di un potere amministrativo obbligatorio (ex art. 30, co. 2) concretizzantesi (o meno) in una adozione di provvedimento amministrativo illegittimo.

Le conclusioni alle quali si è pervenuti non mutano:

– sia nel caso in cui si voglia considerare la violazione del Protocollo di legalità (elemento valorizzato in sentenza), posto che la eventuale violazione di disposizioni di tale atto non costituisce illegittimità dell’atto amministrativo adottato, bensì un elemento che il giudice attributario di giurisdizione potrà valutare ai fini della sussistenza di una più generale responsabilità per colpa;

– sia nel caso in cui si affermi che si è inteso valorizzare una configurazione del processo amministrativo come “giudizio sul rapporto” e non già sull’atto.

Prescindendo nella presente sede dall’esame degli esatti termini di una ricostruzione dogmatica del giudizio amministrativo come giudizio su rapporto – anche nel quadro delle disposizioni costituzionali e del codice del processo amministrativo – occorre osservare che, quale che sia la configurazione dell’istituto, esso in ogni caso attiene al rapporto che si instaura tra Pubblica Amministrazione e soggetto privato in occasione dell’esercizio di potere provvedimentale da parte della prima, e consente di valorizzare la relazione potere amministrativo (e sua legittimità) – posizione sostanziale di interesse legittimo, al di là del mero esame formale dell’atto e dei suoi eventuali vizi di legittimità.

Se l’atto, dunque, non costituisce (formalisticamente) l’oggetto centrale (se non unico) del giudizio inteso come “giudizio su rapporto”, valorizzandosi appunto il rapporto potere amministrativo – interesse legittimo pretensivo o oppositivo, è da escludere che tale giudizio ricomprenda, al di là dell’atto amministrativo oggetto di giudizio, e che dal “rapporto” discende, il momento genetico del rapporto organico (cui si collega la culpa in eligendo), ovvero quello funzionale del medesimo rapporto organico (cui si collega la culpa in vigilando).

D’altra parte, la circostanza che la sentenza abbia affermato una responsabilità dell’amministrazione prescindente dall’illegittimità dell’atto – e dunque in difetto di giurisdizione del giudice amministrativo – si evince anche dal fatto che la stessa (pag. 41), per un verso non ha riconosciuto la sussistenza di un danno da perdita di chance, poichè vi sarebbe una “irreversibile inattendibilità delle valutazioni operate dalla commissione giudicatrice” e dunque non è detto che la ricorrente “in esito al legittimo espletamento del confronto concorrenziale tra le offerte avrebbe ottenuto l’aggiudicazione”.

In disparte ogni considerazione in merito alla sussistenza dell’interesse ad agire in relazione all’azione di annullamento proposto, la conclusione ora riportata dimostra ancora una volta che il danno della ricorrente riconosciuto come sussistente non discende da un provvedimento illegittimo (che essa avrebbe potuto ottenere, ma che le è stato illegittimamente negato), quanto da una più generale condotta dell’amministrazione non conforme all’ordinamento giuridico.

La conclusioni cui si è pervenuti in ordine al difetto di giurisdizione del giudice amministrativo non mutano, anche laddove si consideri l’ulteriore (e non principale) elemento indicato in sentenza ai fini di supportare una responsabilità risarcitoria della pubblica amministrazione, e precisamente l’omesso esercizio del potere di autotutela.

E’ senza dubbio vero che l’art. 30, co. 2 prevede la possibilità di esercizio innanzi al giudice amministrativo dell’azione di condanna derivante sia dall’ “illegittimo esercizio dell’attività amministrativa”, sia anche dal “mancato esercizio di quella obbligatoria”.

Ma è altrettanto vero, per costante giurisprudenza, che il potere di autotutela (nel caso di specie, decisionale) è potere discrezionale, che presuppone sia l’illegittimità dell’atto amministrativo “annullando”, sia “le ragioni di interesse pubblico” all’annullamento, e ciò “entro un termine ragionevole” (art. 21-novies?l. n. 241/1990).

Nel caso di specie, e come innanzi esposto, non vi è stato alcun accertamento dell’illegittimità del provvedimento amministrativo impugnato, né, in ogni caso, si è in presenza di una attività amministrativa (in autotutela) che avrebbe dovuto essere obbligatoriamente svolta. Il che necessariamente postulerebbe, al fine della responsabilità risarcitoria per danno derivante da mancato esercizio di potere amministrativo obbligatorio, la sussistenza di una posizione di interesse legittimo pretensivo “all’annullamento dell’atto”, non soddisfatta (illegittimamente) dall’amministrazione.

La sentenza, tuttavia, non enuncia tale (pur non condivisibile) ricostruzione, limitandosi ad affermare (pag. 36), che “la stazione appaltante . . . non ha mai avvertito su di se l’obbligo di porre in essere un deciso intervento per il ripristino della legalità violata”.

L’omesso esercizio del potere di autotutela, dunque, non configura alcuna ipotesi in cui, ai fini della verifica della sussistenza di un danno ingiusto e dunque da risarcirsi, sussista la giurisdizione del giudice amministrativo.

Per tutte le ragioni sin qui esposte, occorre dichiarare il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla domanda di risarcimento del danno, per come ricostruita ed esaminata dalla impugnata sentenza, con conseguente annullamento senza rinvio della stessa.

La declaratoria di difetto di giurisdizione ricomprende anche, per le medesime ragioni, l’appello incidentale proposto dalla Costruzioni Perregrini s.r.l., relativo non già alla configurazione della domanda di risarcimento, bensì alle voci di danno concretamente non riconosciute.

Stante la natura e complessità delle questioni trattate, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull’appello proposto da Expo 2015 s.p.a., in accoglimento del medesimo, dichiara il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e, per l’effetto, annulla senza rinvio la sentenza impugnata.

Compensa tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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