Nel giudizio volto alla liquidazione della quota sociale di una società

Corte di Cassazione, sezione prima civile, Ordinanza 27 aprile 2020, n. 8222.

La massima estrapolata:

Nel giudizio volto alla liquidazione della quota sociale di una società in nome collettivo, quest’ultima è legittimata passiva, ma l’unico socio superstite può essere convenuto in lite sia in nome della società che in proprio, al fine di fare valere la sua responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali.

Ordinanza 27 aprile 2020, n. 8222

Data udienza 18 febbraio 2020

Tag – parola chiave: Società – Coniugi in comunione dei beni – Società di persone – Recesso di un socio – Obbligo della liquidazione della quota – Giudizio – Legittimazione passiva – Società – Unico socio superstite – Può essere convenuto sia in nome di questa

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Cristina – Presidente

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere

Dott. SCALIA Laura – Consigliere

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 20155/2018 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in Roma (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 761/2018 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, pubblicata il 30/04/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 18/02/2020 dal Cons. Dott. NAZZICONE LOREDANA;
lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS Luisa, che ha chiesto che la Corte di Cassazione respinga il ricorso con le conseguenze previste dalla legge.

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Brescia con sentenza del 30 aprile 2018 ha respinto l’impugnazione avverso la decisione di primo grado, la quale, in accoglimento della domanda proposta da (OMISSIS) nei confronti del coniuge separato (OMISSIS), ha dichiarato che oggetto della comunione legale dei coniugi alla data del (OMISSIS) erano tutti i beni in proprieta’ della societa’ (OMISSIS) s.n.c., dalla quale la prima era receduta con lettera del 3 agosto 2009.
La corte territoriale ha affermato, per quanto ancora rileva, che: a) in punto di fatto, fra i coniugi vigeva il regime patrimoniale della comunione legale dei beni; b) pertanto, la societa’ costituita fra i coniugi e’ oggetto dell’azienda coniugale di cui all’articolo 177, lettera “d”, ed i beni acquistati dalla societa’ sono entrati a far parte della comunione legale, ai sensi della lettera “a” di tale disposizione; c) per reputare i beni in titolarita’ della societa’, sarebbe stato necessario che l’atto costitutivo di questa fosse stato redatto per atto pubblico, necessario ai fini del mutamento convenzionale del regime patrimoniale, ai sensi degli articoli 162 e 191 c.c., in quanto cio’ avrebbe coinciso con lo scioglimento della comunione di coniugi sull’azienda coniugale; d) il 14 aprile 2011 il (OMISSIS) con scrittura privata autenticata da notaio ha dato atto del recesso della (OMISSIS) dalla societa’, partecipata dai due coniugi, ed il (OMISSIS) egli, revocato lo stato di liquidazione della societa’ di cui era rimasto l’unico socio, ha trasformato la societa’ in nome collettivo in impresa individuale; e) tuttavia, tali operazioni ed, in particolare, il recesso della socia hanno solo comportato la cessazione della cogestione dell’azienda, lasciando sussistere la comproprieta’ di tutti i beni aziendali in capo ad entrambi i coniugi ed il regime di comunione legale fra i medesimi.
Avverso questa sentenza viene proposto ricorso per cassazione dal soccombente, fondato su quattro motivi.
Si difende l’intimata con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi proposti dal ricorso possono essere come di seguito riassunti:
1) violazione e falsa applicazione degli articoli 162, 177, 179, 191 e 2697 c.c., articoli 112, 115, 116 c.p.c., per essere la corte territoriale incorsa in ultra ed extra-petizione, in quanto essa – a fronte di una domanda di accertamento del diritto di comproprieta’ sui beni immobili e mobili registrati, in titolarita’ della societa’, formulata dall’attrice nel suo atto di citazione – ha ritenuto, d’ufficio” esistente una cogestione di azienda coniugale ed il difetto di un’idonea forma della convenzione matrimoniale per la costituzione di una societa’ di persone tra le parti, pur in assenza di domande dell’attrice al riguardo e di qualsiasi cenno in tal senso nella stessa sentenza del Tribunale di Brescia, nonche’, comunque, della contestazione dell’istante su tali profili;
2) violazione delle predette disposizioni e dell’articolo 132 c.p.c., con nullita’ della sentenza, per avere la corte d’appello reso una motivazione meramente apparente, afferente i suddetti elementi di fatto e di diritto, mai introdotti in giudizio;
3) violazione e falsa applicazione di una serie di disposizioni in materia di comunione legale, di azienda coniugale, di trasformazione della societa’ e di recesso del socio, oltre che degli articoli 100, da 112 a 116 c.p.c., avendo la sentenza impugnata del tutto ignorato che l’attrice chiese semplicemente l’accertamento del preteso diritto di comproprieta’ dei beni sociali e che, in presenza di una societa’ personale, al socio receduto spetta unicamente la liquidazione della quota sociale; ne’ il richiamo all’articolo 177 c.c., lettera d), e’ corretto, dal momento che tra i soci, come e’ pacifico anche nella sentenza impugnata, fu costituita una societa’ e che solo questa era proprietaria dei beni afferenti il suo patrimonio; a cio’, si aggiunga che mai la coniuge ha dedotto di avere cogestito alcunche’, onde la circostanza e’ stata arbitrariamente individuata ed affermata dalla corte del merito;
4) violazione delle medesime disposizioni di cui al motivo che precede, nonche’ dell’articolo 132 c.p.c., con nullita’ della sentenza, per avere la decisione impugnata reso una motivazione meramente apparente, afferente i suddetti elementi di fatto e di diritto mai introdotti in giudizio.
2. – Il secondo ed il quarto motivo, da trattare con priorita’ sotto il profilo logico, sono infondati, avendo la corte del merito esposto un’argomentazione completa e diffusa, nel pieno rispetto del principio costituzionale della motivazione delle sentenze.
3. – Il primo ed il terzo motivo, del pari da trattare congiuntamente in quanto pongono le medesime questioni, sono fondati.
Dal contenuto dell’atto di citazione che, in ossequio al principio di specificita’ di cui all’articolo 366 c.p.c., risulta dal ricorso introduttivo, emerge come l’attrice, dopo avere narrato che tra i coniugi fu costituita la (OMISSIS) s.n.c. e che ella era receduta dalla societa’, propose la domanda di accertamento della circostanza “che i beni, gia’ facenti parte del patrimonio della snc, erano di proprieta’ anche dell’attrice e che pertanto andava dichiarata la proprieta’ comune degli stessi…”, riportando espressamente il giudice di primo grado la domanda come volta ad accertare e dichiarare “”la titolarita’ in capo a se’ del diritto di comproprieta’ dei beni immobili e mobili registrati” gia’ di proprieta’ della societa’ (OMISSIS) snc, societa’ costituita in costanza di matrimonio tra le parti, le cui quote appartenevano ad entrambi i coniugi nella misura del 50% ciascuno” (cosi’ la sentenza di primo grado, riportata nel ricorso). Ha aggiunto il tribunale come fra le parti fosse incontestato l’avvenuto recesso della moglie dalla societa’ nel 2009.
A fronte di tale allegazione, costituisce violazione dei principi della domanda e della corrispondenza del chiesto al pronunciato la individuazione – mai dedotta – di una azienda coniugale e della cogestione della medesima in capo ai coniugi.
Della allegazione e della prova di tali circostanze, infatti, la sentenza impugnata non da’ affatto conto, limitandosi ad una riqualificazione ex officio della situazione, dopo avere introdotto tuttavia essa stessa, del pari d’ufficio, nuovi fatti al proprio esame.
In sostanza, dal mero regime della comunione legale dei coniugi, accertato come esistente al momento della costituzione della societa’, nonche’ dall’allegazione attorea dell’esistenza di una societa’ di persone e del proprio recesso dalla medesima, con domanda di attribuzione di beni sociali, la corte d’appello ha fatto d’ufficio derivare l’allegazione di una circostanza diversa: non piu’ il dedotto recesso da una societa’ personale tra i coniugi, ma l’avvenuto esercizio in cogestione di un’azienda coniugale.
Al riguardo, giova appena precisare che i regimi dello svolgimento di attivita’ d’impresa nell’ambito della famiglia possono assumere qualificazioni giuridiche diverse, da cui deriva una differente disciplina regolatrice dei rispettivi rapporti: l’azienda coniugale ex articolo 177, comma 1, lettera d), l’azienda appartenente ad un solo coniugi con mera comunione degli utili e degli incrementi ex articolo 177, comma 2, l’impresa gestita individualmente da uno dei coniugi ex articolo 178, l’impresa familiare ex articolo 230 bis e ter, la societa’ di persone di cui agli articoli 2251 e segg., le societa’ di capitali, sino al cd. patto di famiglia ex articolo 768-bis.
Prima ancora, sono diversi i presupposti integrativi di ciascuna fattispecie: onde non compete al giudice di sostituire i fatti, allegati da una parte come costitutivi di una disposizione normativa, con i fatti che meglio si adattino a rappresentare gli elementi integrativi di una fattispecie (con i relativi effetti) diversa, che egli intenda applicare.
Invero, a tacer d’altro:
– l’azienda coniugale di cui all’articolo 177 c.c., lettera d), ricade nella comunione legale fra i coniugi, che vi assumono posizione paritaria, in quanto l’azienda e’ acquisita in costanza di matrimonio e viene gestita da entrambi (Cass. 23 maggio 2006, n. 12095), che divengono dunque coimprenditori; la mera comproprieta’ dell’azienda non e’, pertanto, idonea a far presumere, di per se’, la necessaria cogestione di entrambi i coniugi e l’esistenza di un”azienda coniugale ex articolo 177 c.c., lettera d); la cogestione, o gestione da parte di entrambi i coniugi, deve essere effettiva e reale, pur senza particolari accordi o formalita’;
– l’esistenza della cogestione quale elemento essenziale della fattispecie differenzia tale istituto dalla mera collaborazione che si attua nell’impresa familiare, di cui all’articolo 230-bis c.c., ove vi e’ una semplice partecipazione del coniuge all’attivita’ aziendale, interamente imputata al titolare dell’impresa (cfr. Cass., sez. un., 6 novembre 2014, n. 23676; Cass. 2 dicembre 2015, n. 24560; Cass. 18 gennaio 2005, n. 874; Cass. 15 aprile 2004, n. 7223; Cass., 18 dicembre 1992, n. 13390);
– fra i coniugi puo’ ben esistere una societa’, come ex lege confermato dall’articolo 230-bis c.c., comma 1 (nonche’, per le convivenze, dall’articolo 230-ter c.c.); l’esistenza di un atto costitutivo vale proprio a segnalare che non di mera gestione di azienda coniugale in comunione si tratta, ma di titolarita’ dell’azienda in capo all’ente collettivo; cio’ avviene nell’esercizio dell’autonomia negoziale dei coniugi nel decidere le regole organizzative per l’esercizio collettivo di un’impresa, avendo il legislatore del 1975 permesso ai soli coniugi in regime di comunione legale dei beni di avvalersi di una particolare modalita’ organizzativa e disciplina dell’impresa collettiva, mediante la cd. impresa coniugale; l’individuazione della scelta societaria e’ agevole in presenza della stipula di un atto costitutivo formale, il quale esonera l’interprete da piu’ complesse interpretazioni della volonta’ dei coniugi, i quali, in tal modo, hanno reso esplicita la fattispecie prescelta, proprio in ragione della piu’ efficiente e completa disciplina societaria per l’esercizio di un’attivita’ produttiva, che soddisfa l’esigenza di regole e modelli certi e la trasparenza dei rapporti con i terzi; in tal caso, non il coniuge socio, ma la societa’ personale e’ il soggetto imprenditore, in quanto titolare di un interesse sovraindividuale, dotato di autonoma soggettivita’ e sottoposto allo statuto dell’imprenditore commerciale (cfr. articoli 2266, 2659, 2839 c.c.) (cfr., fra le altre, Cass., sez. un., 6 novembre 2014, n. 23676 e Cass. 13 ottobre 2015, n. 20552); ne deriva che la disciplina sussidiaria dell’impresa familiare e’ recessiva, in presenza di rapporto tipizzato, dotato di regolamentazione compiuta ed autosufficiente, quale quello societario, mentre “nessun diritto esigibile puo’ essere reclamato, nemmeno dal socio, sui beni acquisiti al patrimonio sociale, e tanto meno sugli incrementi aziendali, durante societate” (Cass., sez. un., 6 novembre 2014, n. 23676, in motiv.), potendo solo parlarsi di liquidazione della quota del socio uscente; ne’ si pongono, al riguardo, problemi di pubblicita’, atteso il regime dell’iscrizione dell’atto costitutivo nel registro delle imprese, il quale, anche quanto alla tutela dei terzi, permette ai medesimi di accertare agevolmente la situazione aziendale, dopo l’iscrizione tutelandosi specificamente l’affidamento dei terzi in ordine all’applicazione del regime giuridico dai coniugi prescelto.
Pertanto, qualsiasi diverso inquadramento dei fatti nelle astratte ipotesi di legge, operato dal giudice pur nell’ambito del suo potere di qualificazione della domanda, e’ ammesso solo sino al limite in cui esso non immuti i fatti prospettati dalle parti, non potendo l’esercizio di qualificazione giuridica comportare la modifica officiosa della domanda proposta.
In tal senso e’ la costante giurisprudenza di legittimita’ (cfr., con riguardo sia al giudizio di cassazione, sia a quello di merito: Cass. 12 agosto 2019, n. 21333; Cass. 28 giugno 2018, n. 17015; Cass. 9 aprile 2018, n. 8645; Cass. 28 luglio 2017, n. 18775).
Infatti, nel processo civile, l’applicazione del principio iura novit curia, di cui all’articolo 113 c.p.c., comma 1, importa la possibilita’ per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti ed ai rapporti dedotti in lite, nonche’ all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, potendo porre a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti: ma tale condotta e’ limitata dal divieto di ultra ed extra-petizione, di cui all’articolo 112 c.p.c., in applicazione del quale e’ precluso al giudice pronunziare oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, mutando i fatti costitutivi o quelli estintivi della pretesa, ovvero decidendo su questioni che non hanno formato oggetto del giudizio e non sono rilevabili d’ufficio.
Resta, in particolare, preclusa al giudice la decisione basata non gia’ sulla diversa qualificazione giuridica del rapporto, ma su diversi elementi materiali che inverano il fatto costitutivo della pretesa (Cass. 24 luglio 2012, n. 12943). Infatti, costituisce domanda nuova la deduzione di una nuova causa petendi” la quale comporti, attraverso la prospettazione di nuove circostanze, il mutamento dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio e, introducendo nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione, alteri l’oggetto sostanziale dell’azione ed i termini della controversia;
conseguentemente ricorre la violazione dell’articolo 112 c.p.c., quando il giudice, integrando o sostituendo in tutto o in parte gli elementi della causa petendi, ponga a fondamento della pronunzia un fatto giuridico costitutivo diverso da quello dedotto dall’atto e dibattuto in giudizio (Cass. 16 luglio 2002, n. 10316).
Il principio e’ costante in ogni settore del diritto sostanziale (cfr. es. Cass. 27 settembre 2011, n. 19736, con riguardo a diverse eccezioni nella fideiussione) ed e’ stato applicato specificamente con riguardo al limitrofo istituto dell’impresa familiare, dove, avuto riguardo al fatto costitutivo allegato dalla parte come al bene giuridico preteso, si e’ qualificata nuova, perche’ afferente a diritti eterodeterminati, la domanda diretta a conseguire gli utili ancora dovuti al momento della cessazione del rapporto di collaborazione segnata dalla morte del titolare dell’impresa, rispetto ad un’iniziale domanda rivolta da un coerede nei confronti degli altri coeredi al fine di conseguire una quota dell’azienda e la conseguente ripartizione degli utili (sul presupposto dell’esistenza di quote in base alle quali determinare gli utili da distribuire), con conseguente inammissibile mutatio libelli (Cass. 18 ottobre 2018, n. 26274).
4. – Occorre ancora osservare come, ove tra i soci sussista un regime societario, i beni conferiti in societa’ appartengono al patrimonio di questa, e non dei singoli soci, essendo anche le societa’ personali dotate di soggettivita’ di diritto; ed il recesso di un socio comporta che la partecipazione si concentri in capo al socio superstite, con conseguente scioglimento della societa’ personale di due soci, rimasta con unico socio e successiva liquidazione della societa’, ove la pluralita’ non sia ricostituita entro sei mesi, ai sensi dell’articolo 2272 c.c., comma 1, n. 4.
In ogni caso, dal recesso del socio deriva il diritto di questi alla liquidazione della quota, il cui valore va determinato ai sensi dell’articolo 2289 c.c., tenuto conto del valore patrimoniale al momento dello scioglimento del rapporto sociale: onde occorre richiamare ora i principi, secondo cui in tale liquidazione deve tenersi conto dell’effettiva consistenza della situazione patrimoniale al momento della uscita del socio (fra le altre, Cass. 18 marzo 2015, n. 5449), tenuto conto degli utili e delle perdite inerenti ad “operazioni in corso” alla data del recesso, quali sopravvenienze attive e passive che trovino la loro fonte in situazioni gia’ esistenti a quella data (Cass. 22 aprile 2016, n. 8233).
Va, infine, richiamato il condiviso principio secondo cui il recesso dalla societa’ personale e’ atto unilaterale recettizio, onde il socio perde tale status al momento della comunicazione del recesso alla societa’ (Cass. 11 settembre 2017, n. 21036; Cass. 8 marzo 2013, n. 5836).
Ne deriva, altresi’, che la domanda di accertamento della comproprieta’ dei beni sociali in capo al socio receduto puo’ essere interpretata alla stregua della domanda di liquidazione della quota sociale, ove ne sussistano i requisiti.
In particolare, con la domanda di liquidazione della quota di una societa’ di persone da parte del socio receduto o escluso si fa valere un’obbligazione della societa’, non in via diretta degli altri soci; ma, ove siano stati evocati in giudizio tutti i soci, il contraddittorio puo’ dirsi correttamente instaurato (cfr. Cass. 2 aprile 2012, n. 5248); e, in presenza di societa’ di due soci, ove uno receduto, l’altro socio potra’ risultare evocato, sulla base dell’esame del concreto contenuto dell’atto di citazione, sia per la societa’, sia in proprio, quale socio illimitatamente responsabile per le obbligazioni sociali (articoli 2267, 2291, 2313 c.c.).
5. – Nel caso di specie, i fatti materiali costitutivi del diritto vantato dalla odierna intimata erano stati dalla medesima, nell’originario atto di citazione, riferiti esclusivamente all’esistenza di una societa’ in nome collettivo tra i coniugi ed al recesso dalla societa’ dalla stessa operato, in epoca anteriore allo scioglimento della comunione tra i coniugi.
Su tali fatti essa aveva, quindi, fondato la conseguente pretesa di vedere riconosciuta in capo a se’ la proprieta’ paritaria dei beni sociali, con automatico passaggio dal regime societario al regime comproprietario, in riferimento ai beni pur intestati a soggetto collettivo autonomo, quale e’ la societa’ personale, sebbene priva di personalita’ giuridica.
Tali fatti non sono affatto fungibili con quelli introdotti autonomamente dalla corte del merito, relativi, invece, ad una azienda coniugale gestita da entrambi i coniugi in regime di comunione dei beni, basata su presupposti diversi da quelli fondanti la pretesa azionata; inquadramento che, tra l’altro, ha comportato l’affermazione apodittica, secondo cui “il recesso del socio… ha comportato la cessazione della cogestione dell’azienda ma non della titolarita’ dei beni”.
In sostanza, i fatti costitutivi, posti a base della domanda originaria proposta, volti a pretendere la attribuzione della quota pari alla meta’ dei beni sociali, erano carenti di inerenza rispetto al diverso titolo di credito della pretesa accolta, attesa la notevole diversita’ fra i medesimi, implicante non una mera riqualificazione giuridica, ma la valutazione di una diversa causa petendi.
Si noti, per completezza, che neppure potrebbe farsi applicazione del lato principio espresso da questa Corte a Sezioni unite (Cass., sez. un., 15 giugno 2015, n. 12310, posto che non risulta mai svolta una modifica della domanda ad opera della parte, ma una diretta introduzione di fatti e di causa petendi nuovi da parte del giudice.
6. – Dall’accoglimento dei detti motivi deriva la cassazione della sentenza impugnata, che non ha correttamente applicato i principi della domanda e della corrispondenza del chiesto al pronunciato, con rinvio alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione, affinche’ – valutata la possibilita’ di interpretare la domanda proposta come di liquidazione della quota sociale della allegata societa’ personale fra i coniugi – provveda all’accertamento dell’esistenza e della entita’ del diritto stesso, al tempo dell’efficacia della comunicazione del recesso, a norma dell’articolo 2289 c.c..
La stessa applichera’ i seguenti principi di diritto:
“Tra i coniugi in comunione dei beni puo’ essere costituita una societa’ di persone, al cui patrimonio appartengono i beni conferiti in societa’, essendo anche le societa’ personali dotate di soggettivita’ giuridica.
Il recesso di un socio comporta l’obbligo della liquidazione, a carico della societa’, della quota di questi, il cui valore va determinato ai sensi dell’articolo 2289 c.c., tenuto conto del valore patrimoniale della quota al momento dello scioglimento del rapporto sociale;
La domanda di accertamento della comproprieta’ dei beni sociali in capo al socio receduto puo’ essere interpretata dal giudice del merito, ove ne sussistano i presupposti, come domanda di liquidazione della quota sociale.
Nel giudizio volto alla liquidazione di quota sociale in favore del socio uscente e’ legittimata passiva la societa’, ma l’unico socio superstite puo’ essere convenuto in giudizio sia in nome di questa, sia in proprio, al fine di farne valere la responsabilita’ per le obbligazioni sociali quale socio illimitatamente responsabile”.
Alla corte territoriale si demanda” altresi’, la liquidazione delle spese del giudizio di legittimita’.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo ed il terzo motivo del ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimita’, innanzi alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

Per aprire la pagina facebook @avvrenatodisa
Cliccare qui

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *