Consiglio di Stato, Sezione seconda, Sentenza 23 ottobre 2020, n. 6432.
Nel caso della realizzazione di una veranda con chiusura di un balcone, si verte in ipotesi di opera comportante la costituzione di un nuovo volume, che va a modificare la sagoma di ingombro dell’edificio, pertanto è necessario il previo rilascio del permesso di costruire” (in terminis, Cons. St., Sez. II, 22 luglio 2020, n. 4969).
Sentenza 23 ottobre 2020, n. 6432
Data udienza 13 ottobre 2020
Tag – parola chiave: Abusi edilizi – Ordine di demolizione – Sospensione dei lavori – Impugnativa – Pronuncia di inammissibilità
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5877 del 2011, proposto da
Te. Al. e Te. Ma., rappresentati e difesi dall’avvocato Al. Co. Pi., presso il quale sono elettivamente domiciliati in Roma, alla (…)
contro
Comune di Roma (ora: Roma Capitale), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Um. Ga., elettivamente domiciliato in Roma, alla Via (…), presso la sede dell’Avvocatura capitolina
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Prima Quater n. 36059 del 10 dicembre 2010
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Roma Capitale;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 13 ottobre 2020 il Cons. Roberto Politi; nessuno comparso per le parti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Espone l’appellante sig.ra Al. Te. di essere proprietaria nel Comune di Roma di un appartamento sito in Via (omissis).
Soggiunge di aver effettuato, anni orsono, una manutenzione ordinaria di tale unità immobiliare, con messa a norma degli impianti elettrici, riverniciatura delle pareti perimetrali e sostituzione dei sanitari, del piano cottura, del lavello e delle finiture di cucina.
Esternamente alla unità, al fine di rendere maggiormente fruibile tale pertinenza, veniva realizzata una copertura in elementi di legno di produzione commerciale con finestrature amovibili leggere e prive di scuri.
Nel corso del 2010, veniva effettuato un sopralluogo da parte dei Vigili Urbani, che accertavano l’esecuzione di tali lavori esterni.
Di seguito a tale accertamento, è stata emessa una prima determinazione dirigenziale (n. 124/10), di sospensione dei lavori, e una seconda determinazione dirigenziale (n. 1635/10) di rimozione o demolizione degli stessi.
2. Con ricorso N.R.G. 9584 del 2010, proposto innanzi al T.A.R. del Lazio, i sigg.ri Al. e Ma. Te. chiedevano l’annullamento dei suindicati atti.
3. Costituitasi l’Amministrazione comunale, il Tribunale ha in parte dichiarato inammissibile, ed in parte ha rigettato, l’anzidetto gravame, con condanna dei ricorrenti alle spese di lite, per Euro 1.000,00.
4. Avverso tale pronuncia, i signori Te. hanno interposto appello, notificato il 10 giugno 2011 e depositato il successivo 8 luglio, lamentando quanto di seguito sintetizzato:
4.1) Violazione di legge. Violazione e falsa applicazione del D.P.R. 380 del 2001 e successive modifiche e integrazioni, nonché della legge regionale del Lazio n. 15 del 2008. Violazione e falsa applicazione della legge 241 del 1990, nonché eccesso di potere per carenza e/o insufficienza di motivazione.
Evidenziano gli appellanti che la demolizione e/o rimozione di opere è stata ordinata, senza procedere a valutazione alcuna in ordine alla possibilità di adottare sanzioni alternative diverse, pur previste dalla legge, con conseguente illegittimità degli atti impugnati.
Avrebbe, quindi, errato il Tribunale nel ritenere che l’attività posta in essere dal Comune abbia natura vincolata, non necessitando, quindi, di motivazione in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico alla demolizione.
Nel soggiungere come lo stesso T.A.R. abbia omesso di esaminare l’ulteriore motivo di ricorso, riguardante la violazione e falsa applicazione della legge 241 del 1990, evidenzia ulteriormente parte appellante l’errore in cui sarebbe incorso il giudice di prime cure, nell’assumere che vada posta a carico del privato l’onere di fornire la prova del pregiudizio derivante dalla demolizione delle verande (tale onere spettando, secondo la prospettazione di parte, al Comune, e non al privato, in quanto rientrante nelle funzioni di sorveglianza dell’utilizzo del territorio).
4.2) Violazione dei principi generali delle norme sul controllo dell’attività edilizia. Ulteriore violazione e falsa applicazione della legge 241 del 1990, nonché eccesso di potere per intempestività, carenza e/o insufficienza di motivazione, carenza e/o mancata indicazione della prevalenza del pubblico interesse.
Nel sottolineare come il prolungato arco temporale intercorso fra la commissione dell’abuso e l’irrogazione della cointestata sanzione ripristinatoria (con conseguente protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza), abbia ingenerato una posizione di affidamento, viene dalla parte sostenuta l’esigenza che il provvedimento repressivo debba essere congruamente motivato, con riveniente indicazione, avuto riguardo anche all’entità e alla tipologia dell’abuso, del pubblico interesse – evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità – idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
4.3) Violazione dei principi generali in tema di impugnabilità degli atti amministrativi. Eccesso di potere per illogicità
Nel dare atto che il T.A.R. ha ritenuto l’impugnativa proposta avverso l’ordinanza di sospensione dei lavori inammissibile, in quanto superata dall’ordinanza di demolizione, parte appellante rappresenta che le circostanze di fatto contestate siano contenute nella prima ordinanza di sospensione: per l’effetto, assumendo che le relative censure dovevano essere tempestivamente proposte contro tale provvedimento, verificandosi altrimenti acquiescenza nei confronti delle stesse, non più censurabili nei confronti di successivi atti confermativi.
4.4) Violazione del principio della condanna alle spese del soccombente.
Le circostanze di fatto e di diritto sottese alla definizione in sede giudiziale della presente fattispecie, che hanno dato adito ad ampia discussione in dottrina e in giurisprudenza, avrebbero dovuto, quanto meno, condurre alla compensazione delle spese di giudizio.
Conclude, pertanto, l’appellante per l’accoglimento dell’appello; e, in riforma della sentenza impugnata, del ricorso di primo grado, con ogni statuizione conseguenziale anche in ordine alle spese del doppio grado di giudizio.
5. In data 16 agosto 2011, si è costituito in giudizio il Comune di Roma, al quale è subentrato (con costituzione depositata in atti il 7 luglio 2020) Roma Capitale.
6. Quest’ultima, in vista della trattazione del merito della controversia, ha depositato in atti (alla data del 7 settembre 2020) conclusiva memoria, nella quale vengono analiticamente confutate le argomentazioni dedotte con il mezzo di tutela all’esame: del quale viene, conseguentemente, chiesta la reiezione.
7. L’appello viene trattenuto per la decisione alla pubblica udienza del 13 ottobre 2020.
DIRITTO
1. Giova, in primo luogo, ripercorrere gli essenziali tratti motivazionali dell’avversata sentenza del T.A.R. Lazio.
Quanto all’ordinanza di sospensione lavori, il ricorso è stato ritenuto “inammissibile, per difetto di interesse, atteso che, al momento della sua proposizione, detto provvedimento aveva cessato la sua efficacia, pari a 45 giorni dalla sua adozione, secondo quanto stabilito dall’art. 27, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001, e, pertanto, nessun nocumento avrebbe potuto causare nei confronti dei ricorrenti”.
Osservato, poi, che “le due verande tamponate abbiano determinato una ristrutturazione con aumento della superficie residenziale, richiedente, quale titolo abilitativo, il permesso di costruire o, alternativamente, la cd. D.I.A. pesante, entrambi pacificamente mancanti”, il giudice di prime cure ha rilevato che “l’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, nell’individuare gli interventi di nuova costruzione, vi fa rientrare anche i manufatti leggeri, purché non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, per cui nessuna rilevanza può assumere la dedotta circostanza che le verande siano strutture amovibili, non sussistendo nella specie tale limitato impiego”.
Conseguentemente ritenuto che:
– sia stato “correttamente… applicato l’art. 33 del d.P.R. n. 380/2001, che sanziona, tra gli altri, gli interventi di ristrutturazione come quello realizzato nella specie realizzati in assenza del necessario titolo edilizio”;
– “l’attività da porre e posta in essere abbia natura vincolata, per cui nessuna motivazione in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico alla demolizione era richiesta, in ragione del lasso di tempo che sarebbe trascorso dalla realizzazione dell’intervento contestato, e nessuna rilevanza assume l’evidenziata circostanza che tali opere sarebbero preordinate a soddisfare esigenze abitative”;
– e che, “quanto al rilievo secondo cui il Comune non avrebbe valutato la possibilità di comminare la sanzione pecuniaria alternativa,… parte ricorrente non ha dato alcuna prova dell’eventuale pregiudizio che deriverebbe all’appartamento dalla demolizione delle verande ed anzi, evidenziando il loro carattere amovibile delle stesse, ha inteso dimostrare la facilità di rimozione delle stesse, senza alcun nocumento per la parte restante”;
il giudice di prime cure è pervenuto al rigetto del gravame innanzi ad esso proposto.
2. Quanto agli interventi posti in essere dagli appellanti, il verbale redatto dalla Polizia Locale di Roma Capitale in data 13 maggio 2010 ha dato atto della constatata presenza di due verande in legno, realizzate su una porzione del terrazzo di pertinenza dell’appartamento sito al piano attico dell’immobile sito in Roma, alla Via (omissis), “con copertura dello stesso materiale e tamponature costituite parte in legno e parte in alluminio e vetro… completamente rifinite ed occupate con mobilia ed arredi vari”.
Le anzidette verande sono risultate aventi superficie:
– di mt. 4,50 x 4,00, con altezza pari a cm. 240/260 (per quella adibita a soggiorno);
– di mt. 4,00 x 3,90. con altezza pari a cm. 240/260 (per quella adibita a camera da letto).
3. Incontestata dagli odierni appellanti, in punto di fatto, la dimensione e connotazione dell’abuso, nonché la destinazione funzionale degli ambienti come sopra realizzati, il mezzo di tutela all’esame risulta infondato.
3.1 Viene, in primo luogo, in considerazione la dichiarata inammissibilità del gravame di primo grado, relativamente all’impugnazione dell’ordinanza di sospensione dei lavori n. 124 del 21 giugno 2010.
Tale atto reca identica descrizione delle opere abusivamente realizzate, rispetto a quanto indicato nel successivo ordine ripristinatorio (parimenti impugnato).
E, ulteriormente, dispone l’immediata sospensione dei lavori.
Non corrisponde, quindi, al vero che – come dagli appellanti sostenuto – l’ingiunzione a demolire mutui fondamento motivazionale dalla precedente disposizione soprassessoria.
Nel rammentare come “l’ordinanza di sospensione dei lavori è un provvedimento eccezionale, con efficacia strettamente limitata nel tempo ed avente il solo scopo (cautelare) di impedire il procedere della costruzione, in modo da consentire alla P.A. di potersi determinare con una misura sanzionatoria (ordine di demolizione, ovvero applicazione di una sanzione pecuniaria)” (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 2 ottobre 2019, n. 6604 e Sez. IV, 14 maggio 2015, n. 2415), va rilevato come siffatta determinazione abbia efficacia temporalmente limitata, in quanto l’art. 27, comma 3, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 stabilisce che la sospensione dei lavori ha effetto fino all’adozione ed alla notifica dei provvedimenti definitivi sanzionatori, che deve avvenire “entro quarantacinque giorni dall’ordine di sospensione dei lavori”.
Quindi, una volta trascorsi quarantacinque giorni dall’adozione del provvedimento di sospensione lavori, l’ordinanza non produce più effetti, sia che venga adottato il provvedimento definitivo di demolizione, sia che quest’ultimo non venga adottato.
Giova ricordare che, secondo questo Consiglio, “la costante giurisprudenza amministrativa di merito ha sempre interpretato in termini categorici detta disposizione, pervenendo al convincimento per cui… il potere di sospensione dei lavori edili in corso,… è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all’adozione dei provvedimenti definitivi. Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l’Amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l’ordine in questione perde ogni efficacia, mentre, nell’ipotesi di emanazione del provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest’ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del destinatario con conseguente assorbimento dell’ordine di sospensione dei lavori” (Cons. Stato, Sez. I, n. 2159/2019 del 24 luglio 2019).
Conseguentemente, l’ordine in prime cure avversato, notificato in data 28 giugno 2010, aveva perduto efficacia ed idoneità alla produzione di conseguenze giuridicamente rilevanti (non solo con riferimento alla successiva determinazione ripristinatoria, recante data 2 agosto 2010, ma anche) riguardo alla sollecitazione del sindacato giurisdizionale dinanzi al T.A.R. del Lazio (ricorso N.R.G. 9584 del 2010, depositato in data 10 novembre 2010): con riveniente inammissibilità, in parte qua, di detto gravame (e conferma, quindi, di quanto sul punto stabilito dal giudice di prime cure).
3.2 L’appellata pronunzia merita, peraltro, conferma anche nella parte con la quale il gravame proposto dai sigg.ri Te. è stato respinto.
3.2.1 Va, innanzi tutto, rammentato come, secondo consolidato orientamento di questo Consiglio, “ai fini della realizzazione di una veranda con chiusura di un balcone, trattandosi di opera comportante la costituzione di un nuovo volume, che va a modificare la sagoma di ingombro dell’edificio, è necessario il previo rilascio del permesso di costruire” (cfr. Sez. II, 22 luglio 2020, n. 4969 e 12 febbraio 2020, n. 1092).
3.2.2 La parte appellante contesta la mancata applicazione della disciplina di cui all’art. 34 del D.P.R. 380 del 2001; e, quindi la mancata irrogazione di una sanzione pecuniaria in luogo della demolizione.
Anche tale motivo è infondato.
Ai sensi dell’art. 34 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, nel testo vigente al momento di adozione del provvedimento di sanatoria annullato dalla sentenza di primo grado, “gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell’abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio. Decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell’abuso.
2. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978, n. 392, della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale.
2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all’articolo 22, comma 3, eseguiti in parziale difformità dalla denuncia di inizio attività “.
Il D.P.R. n. 380 del 2001 distingue, quindi, in primo luogo, ai fini sanzionatori, gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, dagli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, la cui disciplina sanzionatoria è recata dall’art. 34.
Per i primi, è senz’altro prevista la demolizione delle opere abusive; mentre solo per i secondi, laddove la demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, viene introdotta l’applicabilità di una sanzione pecuniaria (Cons. Stato, Sez. VI, 8 maggio 2018, n. 2739 e 24 giugno 2019, n. 4331).
Consolidata giurisprudenza considera realizzato in “totale difformità ” l’intervento edilizio che, sulla base di una comparazione unitaria e sintetica fra l’organismo programmato e quello che è stato realizzato con l’attività costruttiva, risulti integralmente diverso da quello assentito per caratteristiche tipologiche, plano-volumetriche, di utilizzazione o di ubicazione; in “parziale difformità ” configurandosi, diversamente, l’intervento che, sebbene contemplato dal titolo abilitativo, risulti realizzato secondo modalità diverse da quelle previste a livello progettuale.
La relativa valutazione deve essere effettuata sulla base di un esame complessivo e non parcellizzato delle singole difformità, non potendosi dunque ammettere una qualificazione di ognuna di esse come difformità solo parziale dell’immobile assentito rispetto a quello realizzato (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13 novembre 2017, n. 5204).
Il concetto di parziale difformità presuppone che un determinato intervento costruttivo, pur se contemplato dal titolo autorizzatorio rilasciato dall’autorità amministrativa, venga realizzato secondo modalità diverse da quelle previste e autorizzate a livello progettuale, quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera; mentre si è in presenza di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, quando i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione (Cons. Stato Sez. VI, 24 giugno 2019, n. 4331).
Nel caso di specie, la consistenza degli interventi realizzati con aumenti volumetrici complessivi di molti metri cubi, ovvero la totale modificazione dell’originario manufatto (rispetto al quale integrano una evidente superfetazione, ex novo posta in essere sul preesistente terrazzo) comportano la qualificazione delle opere come realizzate in totale difformità dal titolo edilizio.
Conseguentemente, si dimostra legittima l’irrogazione della sanzione ripristinatoria; e, sul punto, corretta la motivazione dell’appellata sentenza.
3.2.3 Consolidata giurisprudenza interpreta, poi, le disposizioni dell’art. 34 nel senso che la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria – posta da tale normativa – debba essere valutata dall’Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione: fase esecutiva, nella quale le parti possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato, presupposto per l’applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, con la conseguenza che tale valutazione non rileva ai fini della legittimità del provvedimento di demolizione.
Infatti, costante giurisprudenza ritiene che la norma di che trattasi abbia valore eccezionale e derogatorio, e di conseguenza che non sia l’Amministrazione a dover valutare, prima di emettere l’ordine di demolizione dell’abuso, se essa possa essere applicata, piuttosto incombendo sul privato interessato la dimostrazione, in modo rigoroso e nella fase esecutiva, della obiettiva impossibilità di ottemperare all’ordine stesso senza pregiudizio per la parte conforme (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 23 gennaio 2020, n. 561 e 12 settembre 2019, n. 6147; Sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4939, 21 maggio 2019, n. 3280, 9 luglio 2018, n. 4169, 19 novembre 2018, n. 6497 e 29 novembre 2017, n. 5585).
Ritiene, dunque, il Collegio in conformità a tali consolidati orientamenti che, nel caso di specie, il Comune non potesse che ordinare la demolizione delle opere abusivamente realizzate, salva la facoltà per gli odierni appellanti di dedurre, al momento della concreta esecuzione del provvedimento di demolizione, in ordine all’eventuale situazione di pericolo di stabilità della rimanente parte del fabbricato derivante dall’esecuzione della demolizione delle opere abusive.
3.2.4 Quanto alle censure concernenti il consolidamento di una posizione asseritamente legittimante alla conservazione del manufatto (pur) abusivamente realizzato, il Collegio non può che far proprie le considerazioni espresse dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio n. 9 del 2017, relativa proprio alla ipotesi di edificazione avvenuta nella totale assenza di un titolo legittimante, in cui l’Amministrazione abbia provveduto solo a distanza di un considerevole lasso di tempo all’adozione dell’ingiunzione di demolizione.
La mera inerzia da parte dell’Amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Né è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’Amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta – e inammissibile – forma di sanatoria automatica.
3.2.5 Se, pertanto, il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo (pur se tardivamente adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata.
In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Ciò in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 4 ottobre 2019, n. 6720)
Pertanto, quando risulta realizzato un manufatto abusivo, anche a distanza di tempo l’Amministrazione deve emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 21 marzo 2017, n. 1267; Sez. VI, 6 marzo 2017, n. 1060 e n. 1058; Sez. V, 11 luglio 2014, n. 3568; Sez. IV, 31 agosto 2010, n. 3955): e quando è realizzato un abuso edilizio, non dimostrandosi radicalmente prospettabile la presenza di un legittimo affidamento, il proprietario non si può di certo dolere dell’eventuale ritardo con cui l’Amministrazione – a causa del ritardato accertamento dell’abuso – abbia emanato il provvedimento che la legge impone di emanare immediatamente.
3.2.6 Con il quarto motivo, parte appellante lamenta che il T.A.R. avrebbe potuto, piuttosto che condannarla alle spese del giudizio di prime cure, compensare queste ultime per giusti motivi, in relazione alla novità della materia, ovvero per contrasto giurisprudenziale sull’argomento.
Il motivo è infondato.
Va, in proposito, rammentato il consolidato principio (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 10 settembre 2018, n. 5283) secondo cui, nel processo amministrativo, la mancata compensazione delle spese processuali, attuando il principio generale per cui le stesse seguono la soccombenza e non investendo profili di legittimità, si traduce in una scelta insindacabile in appello e vale in riferimento sia alle statuizioni processuali che a quelle di merito.
Tale scelta discrezionale, del resto, non è sindacabile nemmeno sotto il profilo del difetto di motivazione (Cons. Stato, Sez. III, 21 settembre 2018, n. 5491).
Né vengono dedotti profili di evidente “abnormità ” della decisione contestata – comunque non evincibili allo stato degli atti – tali da consentire l’invocato sindacato correttivo (ad esempio, un ammontare delle singole partite computate sproporzionato rispetto alle spese documentate o in relazione all’impegno professionale profuso, secondo un criterio di proporzionalità e ragionevolezza desumibile dall’art. 2233, comma 2, c.c. (Cons. Stato, Sez. III, 31 marzo 2016, n. 1262).
E poiché il giudice di primo grado non era tenuto a dare ragione, con una espressa motivazione, del mancato uso della sua facoltà di disporre la compensazione delle spese di lite, la pronuncia di condanna al pagamento delle stesse, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non è sindacabile in questa sede (Cons. Stato, Sez. V, 28 gennaio 2019, n. 702 e 10 settembre 2018, n. 5283), tanto meno sotto il profilo del difetto di motivazione (Cons. Stato, Sez. III, 5491/2018 cit.), per completezza, dovendosi soggiungere che, nel caso in esame, non si riscontra alcuna delle circostanze genericamente addotte dalla parte appellante (novità della materia, contrasti giurisprudenziali, spese eccessive o superflue) per sostenere che le spese potessero o dovessero essere compensate.
4. Conclusivamente dato atto dell’infondatezza delle argomentazioni dedotte con il presente appello, va disposta la reazione del predetto mezzo di tutela, con riveniente conferma della sentenza di prime cure.
Le spese di lite seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna gli appellanti sigg.ri Te. Al. e Te. Ma., in solido, al pagamento, in favore di Roma Capitale, delle spese del presente grado di giudizio, complessivamente liquidate nella misura di Euro 3.000,00 (euro tremila/00), oltre accessori come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 ottobre 2020 con l’intervento dei magistrati:
Claudio Contessa – Presidente
Paolo Giovanni Nicolò Lotti – Consigliere
Giovanni Sabbato – Consigliere
Francesco Frigida – Consigliere
Roberto Politi – Consigliere, Estensore
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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