L’errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione

Consiglio di Stato, Sezione quarta, Sentenza 23 giugno 2020, n. 4011.

La massima estrapolata:

L’errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 106 c.p.. e 395, n. 4 C.P.C., deve rispondere a tre requisiti: a) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale escluso, ovvero inesistente un fatto documentale provato; b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa.

Sentenza 23 giugno 2020, n. 4011

Data udienza 18 giugno 2020

Tag – parola chiave: Strumenti urbanistici – PRG – Variante – Processo amministrativo – Impugnazioni straordinarie – Revocazione – Errore di fatto revocatorio – Requisiti – Artt. 106 c.p.. e 395, n. 4 C.P.C

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7112 del 2016, proposto da
Srl Ma., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Fe. Sc., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (…);
contro
Comune di Napoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. An., An. Cu., Fa. Ma. Fe., con domicilio eletto presso lo studio Ni. La. in Roma, via (…);
Regione Campania non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del CONSIGLIO DI STATO – SEZ. IV n. 00511/2016, resa tra le parti, concernente approvazione variante generale al prg di napoli – classificazione di aree ed immobili
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di Napoli;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 18 giugno 2020 il Cons. Antonino Anastasi e uditi per le parti gli avvocati;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

La società ricorrente è proprietaria dagli anni ottanta di un complesso di immobili (costituito da un antico stabilimento industriale aviatorio e annessi) ubicato nel quartiere di (omissis).
La variante al PRG di Napoli del 2004 ha classificato uno degli immobili (edificio A) come unità di spazio scoperto concluso, in sostanza rappresentandolo quale pertinenza o tettoia aperta sui lati.
La Ditta ha impugnato tale previsione, sostenendo trattarsi di un edificio direzionale di epoca risalente (primi del 900) alla pari degli altri del complesso.
Con sentenza n. 10719/2015 l’adito Tribunale partenopeo ha respinto il gravame.
L’appello proposto dalla soccombente è stato respinto dalla sentenza revocanda la quale ha in sostanza accolto la prospettazione comunale, secondo cui l’esistenza dell’edificio è comprovata solo a partire dal 1983 quando fu classificato come pertinenza, mentre deve escludersi per il periodo tra il 1960 e il 1975.
La sentenza è stata impugnata con il ricorso in esame dalla Ditta soccombente la quale ne ha chiesto la revocazione per errore di fatto ai sensi dell’art. 395 n. 4 C.P.C.
Si è costituito il comune di Napoli che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Le parti hanno depositato memorie e la ricorrente anche note di replica, insistendo nelle già rappresentate conclusioni.
All’udienza del 18 giugno 2020, svoltasi ai sensi dell’art. 4 del D.L. n. 28 del 2020, il ricorso é stato trattenuto in decisone.
Il ricorso è inammissibile.
Con il primo motivo la ricorrente in revocazione deduce che il giudicante è incorso in un errore di fatto, non percependo che – in base agli atti di causa – l’esistenza dell’edificio A in epoca assolutamente risalente era comprovata da un rogito notarile del 1922 (richiamato nel ricorso introduttivo) nel contesto del quale si dava atto dell’esistenza dell’edificio e della sua destinazione direzionale.
Prima di procedere nell’esame, appare necessario evidenziare che – per costante giurisprudenza – l’errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 106 c.p.. e 395, n. 4 C.P.C., deve rispondere a tre requisiti: a) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale escluso, ovvero inesistente un fatto documentale provato; b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa. (ad es. V Sez. 8245 del 2019).
Nel caso all’esame, in primo luogo l’errore dedotto attiene al punto centrale e sostanzialmente unico della controversia e cioè all’esistenza o meno dell’edificio in epoche pregresse, cosicché le conclusioni cui è pervenuta la sentenza revocanda costituiscono il frutto di una valutazione e di una scelta motivata del giudice tra le due contrapposte tesi delle Parti.
Ne consegue che tali valutazioni non sono aggredibili col rimedio revocatorio in quanto esse non sono il frutto diretto di una attività percettiva ma costituiscono il precipitato di una attività valutativa delle risultanze probatorie.
Sotto un secondo profilo, l’errore dedotto non è in alcun modo decisivo.
La sentenza impugnata, infatti, ha in estrema sintesi rilevato che la Ditta non era riuscita a dimostrare (come avrebbe dovuto secondo l’ordinaria ripartizione dell’onere probatorio) che l’edificio A esistesse prima del 1917 e soprattutto non era riuscita a dimostrare la presenza costante o ininterrotta dell’edificio stesso nel tempo.
Rispetto a tale ratio decidendi, l’errore percettivo del giudice (anche ad ammetterne per ipotesi l’esistenza) è completamente irrilevante: il fatto che il rogito del 1922 ne menzioni l’esistenza non prova a ben vedere in maniera convincente che l’edificio A esistesse prima del 1917 e soprattutto non prova che nel prosieguo del secolo esso non sia stato demolito, trasformato e simili.
In termini piani, le risultanze di quel rogito non minano in alcun modo sul piano logico le conclusioni cui pervenne quel giudicante e comunque investono le modalità di valutazione del materiale probatorio e dunque una attività che non ha natura percettiva.
Con ulteriore motivo la ricorrente deduce l’errore di fatto in cui è incorso il collegio giudicante, il quale, adagiandosi sulla opposta tesi propugnata dal comune non si sarebbe avveduto della circostanza che le foto 19 e 20 (facenti parte di riprese al volo effettuate nel 1929) comprovavano l’esistenza dell’edificio all’epoca.
Infine, sotto diverso profilo, la ricorrente deduce poi l’ennesimo errore revocatorio in cui sarebbe incorso il Giudicante, non avvedendosi del fatto che la documentazione militare allegata alla perizia di parte comprovava in modo granitico l’esistenza dell’edificio all’epoca della seconda guerra mondiale.
Anche questi motivi sono palesemente inammissibili in quanto gli errori dedotti – oltre che comunque non decisivi visto il problema della persistenza ininterrotta nel tempo dell’edificio e comunque ricadenti sul punto controverso – non hanno alcuna valenza percettiva ma valutativa.
Infatti, andando al cuore del problema, la ricorrente addebita al Giudicante non già un errore di percezione quanto piuttosto di aver interpretato gli atti di causa in guisa a lei sfavorevole o – altrimenti detto – di aver condiviso la ricostruzione dei fatti patrocinata dal comune.
Ne consegue, in buona sostanza, che la ricorrente non addebita errori percettivi alla sentenza impugnata ma contesta le conclusioni cui la stessa perviene e le motivazioni che tali conclusioni supportano in ordine al mancato assolvimento da parte della società dell’onere probatorio che su di essa incombeva.
E’ perciò evidente in conclusione che la ricorrente – attraverso un utilizzo del tutto improprio del mezzo revocatorio – mira ad innescare sulla questione controversa un terzo grado di giudizio però non consentito dall’ordinamento.
Il ricorso è quindi inammissibile.
Le spese del grado seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile.
Condanna Ma. s.r.l. e il suo legale rappresentante al pagamento in favore del comune di Napoli di complessivi euro 5.000,00 (cinquemila/0) oltre spese generali IVA e CPA se dovuti per le spese del grado.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 giugno 2020 con l’intervento dei magistrati:
Antonino Anastasi – Presidente, Estensore
Leonardo Spagnoletti – Consigliere
Daniela Di Carlo – Consigliere
Francesco Gambato Spisani – Consigliere
Roberto Caponigro – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

Per aprire la pagina facebook @avvrenatodisa
Cliccare qui

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *