Le violazioni relative alla tutela del vincolo paesistico-ambientale

Consiglio di Stato, Sentenza 30 ottobre 2020, n. 6678.

Le violazioni relative alla tutela del vincolo paesistico-ambientale, tanto l’art. 15 della L. 29 giugno 1939, n. 1497, vigente al momento dell’adozione del provvedimento impugnato in primo grado, quanto il successivo art. 164 del 29 ottobre 1999, n. 490 e, attualmente, l’art. 167 del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (che peraltro non consente la cd. sanatoria paesaggistica tramite il pagamento di una somma pecuniaria in caso di opere che comportano aumenti di volumetria) prevedono la sanzione pecuniaria come alternativa alla sanzione di carattere reale della rimozione dell’opera realizzata senza autorizzazione paesaggistica, rimettendo la scelta tra le due all’amministrazione preposta alla tutela del vincolo.

Sentenza 30 ottobre 2020, n. 6678

Data udienza 29 settembre 2020

Tag – parola chiave: Titolo edilizio – Interventi edilizi – Esecuzione di difformità – Violazioni relative alla tutela del vincolo paesistico-ambientale – Irrogazione sanzione pecuniaria o reale – Scelta alternativa – Competenza – Amministrazione preposta alla tutela del vincolo

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4869 del 2011, proposto dalla signora
El. Ca., rappresentata e difesa dall’avvocato Al. Va., con domicilio eletto presso l’avv. Gi. Bo. in Roma, via (…);
contro
Comune di Pesaro, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ma. Br., An. Ga., con domicilio eletto presso l’avv. An. Ga. in Roma, via (…);
Regione Marche, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Ga. De Be., con domicilio eletto presso l’avv. An. De. Ve. in Roma, viale (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche Sezione Prima n. 3396/2010, resa tra le parti, concernente l’impugnazione del provvedimento del Comune di Pesaro del 20 febbraio 1990 di ingiunzione di pagamento della sanzione amministrativa ex art. 15 della legge 1497/39
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Pesaro e della Regione Marche;
Visti tutti gli atti della causa;
Vista l’istanza di passaggio in decisione senza discussione orale presentata congiuntamente dalle difese delle parti;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 29 settembre 2020 il Cons. Cecilia Altavista; nessuno comparso per le parti gli avvocati;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Con il presente atto di appello la signora El. Ca. ha impugnato la sentenza del Tribunale amministrativo regionale delle Marche n. 3396 del 2010, che ha respinto il ricorso proposto avverso il provvedimento del Sindaco del Comune di Pesaro del 20 febbraio 1990 di irrogazione della sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 15 della legge n. 1497 del 1939, pari a lire 81.985.810, per la realizzazione di lavori in difformità dalla concessione edilizia n. 210 del 10 ottobre 1988, rilasciata per ristrutturazione con variazione di destinazione in civile abitazione di due fabbricati (ex ristorante La Siesta) siti in Pesaro (omissis), in zona sottoposta a vincolo paesaggistico.
Il provvedimento di irrogazione della sanzione pecuniaria era stato preceduto da sopralluoghi della Polizia municipale del 6 e 20 marzo 1989, che avevano rilevato l’ampliamento di volumi interrati, seminterrati e sbancamenti di terra in difformità dalla concessione, per cui era stata emessa ordinanza di demolizione il 5 aprile 1989, impugnata con ricorso al Tribunale amministrativo regionale delle Marche R.G. n. 631/1989, successivamente dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse per la intervenuta sanatoria con sentenza n. 824 del 16 maggio 2007.
Infatti, a seguito della ordinanza di demolizione la odierna appellante aveva presentato domanda di sanatoria, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 28 febbraio 1985, n. 47, per cui è stata rilasciata concessione in sanatoria n. 196 il 6 luglio 1990.
Nel frattempo, con ordinanza del 28 febbraio 1990, è stata annullata l’ordinanza di demolizione ed è stata irrogata la sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 15 della legge n. 1497/1939.
Ciò sulla base del parere del Servizio urbanistica della Regione, che riteneva di non potere procedere a rilasciare un’autorizzazione paesaggistica postuma ma che si dovesse solo irrogare la sanzione pecuniaria.
Con i motivi di ricorso di primo grado si era lamentata la mancanza di uno specifico contrasto con le norme di tutela ambientale e di danno ambientale, che gli interventi erano stati realizzati per la stabilità del fabbricato; si contestava poi, sotto il profilo del difetto di motivazione e di istruttoria, la quantificazione della sanzione in relazione alla natura degli interventi, essendo privi i locali seminterrati di valore venale; si lamentava, inoltre, la mancata indicazione della facoltà di proporre giudizio arbitrale circa la determinazione dell’entità della sanzione.
A seguito del deposito in giudizio di documentazione da parte delle Amministrazioni, sono stati proposti motivi aggiunti con cui sono stati dedotti ulteriori profili di illegittimità del provvedimento sanzionatorio, relativi alla inapplicabilità della sanzione in caso di sanatoria edilizia in mancanza di un danno ambientale e alla quantificazione della sanzione pecuniaria.
La sentenza di primo grado ha respinto tutte le censure sulla base della natura sanzionatoria della previsione dell’art. 15 della legge n. 1497 del 1939, indipendente quindi dal danno effettivamente provocato, ed irrogabile anche in caso di sanatoria edilizia; ha poi ritenuto congrua la quantificazione della sanzione pecuniaria, commisurata agli ampliamenti dei volumi interrati e seminterrati, in relazione alla dimensione di tali ampliamenti tali da comportare necessariamente, la modifica della pendenza collinare del sito, ovvero del profilo delle scarpate, a causa dei riporti del terreno scavato; ha ritenuto non determinante sulla legittimità del provvedimento la mancata indicazione della facoltà di proporre giudizio arbitrale.
Con l’atto di appello, è stata contestata la sentenza di primo grado riproponendo le censure del ricorso e dei motivi aggiunti, in particolare:
– violazione di legge in relazione all’art. 3 della legge n. 241 del 1990; agli articoli 3 e 88 del d.lgs. n. 104 del 2010 per difetto di motivazione; violazione degli gli artt. 1, 7 e 15 della L. 29/6/1939, n. 1497; degli artt. 31 e seguenti della L. n. 457/1978; degli artt. 1 e seguenti della l. 2/2/1974, n. 64 e degli artt. 7, 8 e 9 della L. 28.2.1985, n. 47, violazione di regolamento, in relazione alla circolare regionale 10/11/1987 n. 9; eccesso di potere per difetto di presupposti, di motivazione e di istruttoria, difetto di presupposti; falsa interpretazione dei presupposti di legge e di diritto, con cui si contesta che si trattasse di opere realizzate in difformità dalla concessione edilizia n. 212 del 1988, essendo state realizzate opere di fondazione per garantire l’idoneità strutturale dell’edificio; che, comunque per le opere interrate non era necessaria l’autorizzazione paesaggistica; inoltre è stata contestata l’esistenza di un danno ambientale ritenuto il presupposto per irrogare la sanzione, essendo comunque stata rilasciata la sanatoria senza previa autorizzazione paesaggistica;
– violazione di legge in relazione all’art. 3 della legge n. 241 del 1990, agli articoli 3 e 88 del d.lgs. n. 104 del 2010 per difetto di motivazione; violazione di legge in relazione agli artt. 10 e13 della L. n. 47/1985 ed agli artt. 1, 7 e 15 della l. n. 1497/1939; eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria, perplessità e contraddittorietà ; illegittimità derivata, con cui sono state riprodotte le censure relative alla quantificazione della sanzione e, genericamente, la questione della mancata indicazione della possibilità di ricorrere al giudizio arbitrale per la quantificazione della sanzione.
Si sono costituite in giudizio, il Comune di Pesaro e la Regione Marche, contestando la fondatezza dell’appello.
Il 6 luglio 2020 la difesa appellante ha depositato in giudizio il certificato di morte della signora El. Ca.; nella memoria ha sostenuto la intrasmissibilità della sanzione pecuniaria agli eredi chiedendo l’annullamento della sentenza.
Hanno presentato memorie anche la Regione Marche e il Comune di Pesaro, il quale ha contestato le argomentazioni contenute nella memoria dell’appellante circa l’intrasmissibilità della sanzione ai sensi dell’art. 7 della legge 1497 del 1939 sostenendo che l’unico effetto del decesso dell’appellante sarebbe costituito dalla interruzione del giudizio.
La difesa appellante ha presentato memoria di replica insistendo nelle proprie tesi difensive relative alla intrasmissibilità della sanzione pecuniaria agli eredi.
Tutte le parti hanno presentato istanza congiunta di passaggio in decisione senza discussione orale.
All’udienza pubblica del 29 settembre 2020 l’appello è stato trattenuto in decisione.
In via preliminare, ritiene il Collegio di rilevare che il difensore della parte della parte appellante, pur avendo depositato il certificato di morte della signora El. Ca., non ha chiesto l’interruzione del giudizio al fine di consentire la partecipazione al giudizio degli eredi; infatti, nella memoria difensiva ha concluso per l’annullamento della pretesa oggetto della sanzione pecuniaria, “previa riforma se del caso della sentenza di primo grado”.
Poiché ai sensi dell’art. 300 c.p.c. in caso di morte della parte costituita, “questi lo dichiara in udienza o lo notifica all’altra parte”, sul punto si deve richiamare l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione per cui, ai fini della applicabilità della disciplina dettata dall’art. 300 c.p.c. in tema di interruzione del processo, la dichiarazione del procuratore relativa al verificarsi in capo al proprio assistito di uno degli eventi interruttivi che giustificano l’applicazione dell’art. 300 c.p.c., deve essere finalizzata al perseguimento di tale effetto, mentre non rileva a tal fine se la dichiarazione viene resa a scopo puramente informativo in difetto del sopra indicato elemento intenzionale (Cass civ sez. 6-3 ord, 21 novembre 2018, n. 30009; Cass. civ. sez. II, 28 settembre 2015, n. 19139). La dichiarazione resa dal procuratore della parte costituita, a termini dell’art. 300 c.p.c., sebbene strutturata come dichiarazione di scienza, ha carattere negoziale e suppone la volontà del dichiarante di provocare l’interruzione, con la conseguenza che quest’ultima non si realizza allorché la causa interruttiva risulti solo esposta, non già allo scopo di conseguire l’effetto interruttivo previsto dal legislatore (Cass. civ. sez. II, 19 maggio 2015, n. 10210).
La dichiarazione resa dal procuratore costituito è, infatti, qualificata come atto negoziale, come manifestazione di volontà preordinata a conseguire il fine e l’effetto della interruzione e della tutela con essa apprestata agli eredi, per essere nella potestà del difensore il diritto-potere di provocare o meno l’interruzione del processo, valutata la situazione processuale e sostanziale facente capo alla parte colpita dall’evento. Va, dunque, escluso che la dichiarazione in questione sia di pura scienza. Se lo fosse, ossia, avesse la semplice funzione di mettere al corrente la controparte del fatto menomativo sopravvenuto, la dichiarazione diventerebbe un atto doveroso e dovuto, in quanto il difensore, una volta a conoscenza dell’accadimento, sarebbe tenuto a darne notizia; inoltre, e per conseguenza, verrebbe sottratto al procuratore della parte il potere di valutare la situazione processuale in corso e di manifestare l’evento con la precisa e predeterminata volontà di perseguire per il proprio cliente la tutela della interruzione. Ma ciò contrasta proprio con le ragioni che hanno spinto il legislatore a diversificare la disciplina del perfezionamento della fattispecie interruttiva nell’ipotesi in cui la parte sia costituita in giudizio a mezzo di procuratore ad litem. Infatti, ove questi ritenga che nessun pregiudizio possa derivare alla parte sostanziale dalla prosecuzione del processo, eventualmente concordata con chi sia legittimato a costituirsi in giudizio invece del soggetto colpito dall’evento, proprio in virtù del potere discrezionale di cui legittimamente si avvale, può anche sottacere l’evento, astenendosi dal provocare l’interruzione del processo (Cassazione, Sezioni unite civili 4 luglio 2014, n. 15295).
Ritiene il Collegio che tale orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte debba essere applicato anche al processo amministrativo, in forza dell’integrale rinvio alle disposizioni del codice di procedura civile da parte dell’art. 79 comma 2 c.p.a.
Dalla memoria della parte appellante risulta evidente la volontà del difensore dell’appellante di non effettuare la dichiarazione circa il decesso della propria assistita, al fine di provocare l’interruzione del giudizio, essendo tutte le argomentazioni della memoria rivolte all’annullamento del provvedimento originariamente impugnato tramite l’accertamento della intrasmissibilità agli eredi della sanzione pecuniaria.
Il presente giudizio deve essere, dunque, deciso nel merito, in presenza della permanenza degli effetti della costituzione in giudizio, in caso di mancata espressa dichiarazione ai fini della interruzione, ai sensi dell’art. 300 c.p.c.
Nel merito l’appello è infondato.
In via preliminare, deve essere esaminata la questione della intrasmissibilità della sanzione pecuniaria, che, anche se non contenuta nelle censure di primo grado e nei motivi di appello, sarebbe idonea, secondo la ricostruzione difensiva, a definire il giudizio in senso satisfattivo per la parte appellante.
La questione posta nella memoria difensiva non può trovare accoglimento.
Infatti, la giurisprudenza di questo Consiglio, da cui il Collegio non intende discostarsi nel caso di specie, è costante nel ritenere che nel caso delle violazioni relative alla tutela del vincolo paesistico-ambientale, tanto l’art. 15 della L. 29 giugno 1939, n. 1497, vigente al momento dell’adozione del provvedimento impugnato in primo grado, quanto il successivo art. 164 del 29 ottobre 1999, n. 490 e, attualmente, l’art. 167 del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (che peraltro non consente la cd. sanatoria paesaggistica tramite il pagamento di una somma pecuniaria in caso di opere che comportano aumenti di volumetria) prevedono la sanzione pecuniaria come alternativa alla sanzione di carattere reale della rimozione dell’opera realizzata senza autorizzazione paesaggistica, rimettendo la scelta tra le due all’amministrazione preposta alla tutela del vincolo (Cons. Stato Sez. IV, 31 agosto 2017, n. 4109; Sez. VI, 8 gennaio 2020, n. 130).
Dunque, la sanzione è delineata non come mera sanzione pecuniaria, ma come sanzione riparatoria alternativa al ripristino dello status quo ante; proprio in funzione della sua natura di carattere ripristinatoria alternativa alla demolizione viene ragguagliata “al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione” e, in base all’art. 167 del d.lgs. 42 del 2004, le somme “sono utilizzate per finalità di salvaguardia, interventi di recupero dei valori ambientali e di riqualificazione delle aree degradate”.
Pertanto, come in generale per le sanzioni pecuniarie in materia edilizia, tali sanzioni pecuniarie non hanno carattere punitivo, con la conseguenza che sono sottratte al principio della responsabilità personale dell’autore della violazione, di cui alla legge n. 24 novembre 1981, n. 689, mentre la natura ripristinatoria le rende trasmissibili agli eredi come già affermato per le sanzioni pecuniarie in materia edilizia sostitutive di interventi di carattere ripristinatorio (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 9 aprile 2018, n. 2155; id., sez. V, 15 aprile 2013, n. 2060).
Ne consegue che, nel caso di specie, non può essere accolta la tesi della parte appellante che sostiene la natura punitiva della sanzione e la sua soggezione alla disciplina generale delle sanzioni amministrative della legge n. 689 del 1981, trattandosi di sanzioni pecuniarie sostitutive di una misure ripristinatoria di carattere reale, alle quali per consolidata giurisprudenza non si applica la legge n. 689 del 1981 (cfr. Cons. Stato Sez. VI 20 ottobre 2016, n. 4400) e sono trasmissibili agli eredi (Cons. Stato, VI, 15aprile 2015 n. 1927), in quanto, pur se di carattere pecuniario, partecipano della medesima natura di ricomposizione dell’ordine urbanistico della legalità violata e di soddisfazione del prevalente interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio.
Devono essere dunque esaminati i motivi di appello.
Con il primo motivo si contesta, in primo luogo, di avere realizzato lavori in difformità della concessione edilizia, sostenendo che si trattasse di opere necessarie al consolidamento statico dell’edifico e di locali comunque interrati.
Tale profilo di censura è inammissibile, in quanto la natura delle opere realizzata è stata individuata nel provvedimento di demolizione del 5 aprile 1989, oggetto di ricorso al Tribunale amministrativo delle Marche, successivamente dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, essendo stata rilasciata la sanatoria. Per tali opere è stata presentata domanda di sanatoria, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985, riconoscendo quindi l’abusività delle opere; è stata, poi, rilasciata sanatoria con provvedimento del 6 luglio 1990 che indica espressamente “vani interrati parzialmente al di sotto di un complesso edilizio sito in località (omissis)”. La natura delle opere, se si tratti di opere realizzate in parziale o in totale difformità o se siano realizzate solo strutture di fondazione per il consolidamento statico, non può dunque più essere contestata.
Peraltro, le circostanze dedotte dall’appellante sotto il profilo dell’intervento edilizio realizzato sono anche irrilevanti nel presente giudizio riguardante la sanzione per le violazioni paesaggistiche.
Infatti, l’autorizzazione paesaggistica, ai sensi dell’art. 7 della legge 1497 del 29 giugno 1939, deve essere richiesta prima di ogni intervento che comporti qualsiasi modificazione dell’aspetto esteriore dei luoghi.
Ai sensi dell’art. 7 della legge 29 giugno 1939, n. 1497, vigente all’epoca di adozione del provvedimento impugnato in primo grado, “i proprietari, possessori o detentori, a qualsiasi titolo, dell’immobile, il quale sia stato oggetto nei pubblicati elenchi delle località, non possono distruggerlo né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio a quel suo esteriore aspetto che è protetto dalla presente legge.
Essi, pertanto, debbono presentare i progetti dei lavori che vogliano intraprendere alla competente regia Soprintendenza e astenersi dal mettervi mano sino a tanto che non ne abbiano ottenuta l’autorizzazione.
È fatto obbligo al (regio) Soprintendente, di pronunciarsi sui detti progetti nel termine massimo di tre mesi dalla loro presentazione”.
Da tale disciplina deriva che qualsiasi modifica dello stato dei luoghi è comunque soggetta ad autorizzazione paesaggistica.
La giurisprudenza ha, infatti, anche affermato che hanno una indubbia rilevanza paesaggistica tutte le opere realizzate sull’area sottoposta a vincolo, anche se non vi è un volume da computare sotto il profilo edilizio, poiché le esigenze di tutela dell’area sottoposta a vincolo paesaggistico possono anche esigere l’immodificabilità dello stato dei luoghi (Consiglio di Stato, Sez. VI, 20 giugno 2012, n. 3578).
Inoltre, in base all’art. 82, comma 12, del d.P.R. n. 616 del 1977, aggiunto dal d.l. 27 giugno 1985, n. 312, conv. nella legge 8 agosto 1985, n. 431, “non è richiesta l’autorizzazione di cui all’articolo 7 della legge 29 giugno 1939, n. 1497, per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”.
Inoltre, la rilevanza paesaggistica degli interventi effettuati risulta anche dal procedimento di sanatoria edilizia, nel quale la Regione Marche si è espressa con il parere del 12 gennaio 1990, non nel senso della irrilevanza paesaggistica dell’opera – come sembra sostenere l’appellante- ma sostenendo la impossibilità della sanatoria paesaggistica postuma, dovendosi- secondo gli uffici regionali- procedere solo ad irrogare la sanzione.
Ne deriva l’assoluta inconferenza della argomentazioni difensive relative alla natura delle opere edilizie realizzate.
Sostiene poi l’appellante che le opere realizzate non avrebbero comportato alcun danno ambientale e comunque la illegittimità della irrogazione della sanzione in mancanza di tale danno o di una sua specifica valutazione.
Tale motivo è infondato, in quanto la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 15 della legge n. 1497 del 1939, per costante giurisprudenza di questo Consiglio prescinde dall’accertamento di un danno ambientale. Trattandosi di sanzione amministrativa e non di una forma di risarcimento del danno, la relativa attività amministrativa si conclude tipicamente con un atto dovuto, nell’ambito del quale il rilievo della sussistenza di un effettivo danno ambientale rileva solo come eventuale parametro alternativo al “profitto conseguito” per la commisurazione del “quantum” (Cons. Stato Sez. IV, 17 settembre 2013, n. 4631).
L'”indennità ” prevista dall’art. 15 della L. 29 giugno 1939, n. 1497, in alternativa alla demolizione, in caso di violazione degli obblighi e ordini previsti a tutela delle bellezze naturali, costituisce infatti una sanzione amministrativa pecuniaria, e non una forma di risarcimento del danno, ed è perciò dovuta anche se la violazione delle norme non abbia in concreto prodotto alcun danno paesaggistico-ambientale; nella previsione normativa, il danno arrecato al paesaggio viene in considerazione solo come criterio di commisurazione della sanzione – in alternativa al profitto conseguito – e non come parametro per l’anno della sanzione medesima. L’assenza di un danno ambientale, non ostacola, dunque, il potere sanzionatorio, ma assume rilievo sotto il profilo della commisurazione della sanzione, che sarà ragguagliata al solo profitto conseguito (Cons. Stato, sez.
VI, 8 gennaio 2020, n. 130; sez. IV, 16 aprile 2010, n. 2160).
Inoltre, l’indennità prevista per abusi edilizi ambientali è applicabile, sia nel caso di illeciti sostanziali (cioè nel caso di compromissione dell’integrità paesaggistica) sia nelle ipotesi di illeciti formali, come quello concernente la violazione dell’obbligo di conseguire l’autorizzazione preventiva anche a fronte di un intervento compatibile con il contesto paesistico oggetto della protezione (cfr. Consiglio Stato, Sez. VI, 28 luglio 2006, n. 4690; Sez. IV, 17 settembre 2013, n. 4631; Cons. Stato, Sez. V, 17 ottobre 2013, n. 5042).
La sanzione viene quindi legittimamente irrogata anche in presenza del solo presupposto costituito dalla realizzazione di opere senza la previa richiesta di autorizzazione paesaggistica, essendo il potere sanzionatorio espressamente previsto dalla legge anche per le violazioni formali della disciplina paesaggistica ovvero per la mancata richiesta di autorizzazione preventiva (cfr. Consiglio di Stato, Sezione II, 12 febbraio 2020, n. 1090).
Peraltro, anche a prescindere dalla posizione espressa sul punto dalla Regione Marche, circa l’impossibilità di una autorizzazione paesaggistica postuma, in ogni caso anche una eventuale autorizzazione postuma non avrebbe sottratto l’odierna appellante alla prevista dall’art. 15 della L. n. 1497 del 1939.
Infatti, l’autorizzazione postuma, pur inibendo il ricorso alla misura ripristinatoria, non può considerarsi un equipollente perfetto dell’autorizzazione tempestiva, lasciando fermo, in capo alla competente Amministrazione, il potere-dovere di procedere all’applicazione della sanzione pecuniaria ex art. 15, L. n. 1497 del 1939 (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20 dicembre 2013, n. 6113; Cons. Stato Sez. VI, 8 gennaio 2020, n. 130).
Da tale quadro giurisprudenziale deriva che l’Amministrazione non fosse tenuta ad alcuna specifica motivazione circa il danno ambientale provocato o la incompatibilità paesaggistica dell’opera.
Quanto al completamento del procedimento di sanatoria edilizia con il rilascio della concessione il 6 luglio 1990, anch’esso non ha alcun effetto sanante rispetto all’illecito paesaggistico ormai compiuto e rilevante, ai sensi dell’art. 15 della legge n. 1497 del 1939. Il potere di irrogare la sanzione, ai sensi dell’art. 15 della legge n. 1497 del 1939 è un autonomo potere sanzionatorio che prescinde quindi dall’esito favorevole della sanatoria ed edilizia.
Pertanto l’indennità è dovuta anche in caso in cui sia intervenuto il condono edilizio delle opere abusive ricadenti in zone paesaggisticamente vincolate, per le quali l’autorità preposta alla tutela del vincolo abbia espresso parere favorevole (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 26 novembre 2013, n. 5615).
Né può condividersi la tesi della difesa appellante per cui prima della entrata in vigore della legge n. 662 del 1996 in caso di definizione del procedimento di sanatoria edilizia, sarebbero inapplicabili le sanzioni paesaggistiche.
Il riferimento è all’art. 2, comma 46, della L. n. 662 del 23 dicembre 1996, per cui “per le opere eseguite in aree sottoposte al vincolo di cui alla L. 29 giugno 1939, n. 1497, e al D.L. 27 giugno 1985, n. 312, convertito, con modificazioni, dalla L. 8 agosto 1985, n. 431, il versamento dell’oblazione non esime dall’applicazione dell’indennità risarcitoria prevista dall’articolo 15 della citata legge n. 1497 del 1939”.
La norma sottende la diversa funzione della sanatoria edilizia e della sanzione pecuniaria, che hanno finalità diverse, si inseriscono in procedimenti differenti e colpiscono comportamenti diversi, così che il pagamento dell’una non fa venir meno il dovere di agire per la riscossione dell’altra.
Di tale disposizione, entrata in vigore successivamente al provvedimento impugnato in primo grado, la Sezione, conformemente ad un orientamento consolidato di questo Consiglio, ha già avuto modo di rilevare “la natura chiaramente interpretativa”, in quanto la sanzione paesaggistica va fatta risalire alla disciplina di cui alla legge del 1939 e la sua applicazione retroattiva anche alle domande di condono presentate, ai sensi della legge n. 47 del 1985 in quanto la formula utilizzata (“qualsiasi intervento realizzato abusivamente”) lascia chiaramente intendere che il perimetro applicativo della norma prescinde dall’epoca alla quale risale la presentazione della domanda di condono, venendo invero in considerazione il danno ambientale perpetrato invece che l’assetto procedimentale per il conseguimento della sanatoria urbanistica (Cons. Stato Sez. II, 02 ottobre 2019, n. 6605; Sez. IV, 26 novembre 2013, n. 5615; id., 3 maggio 2005, n. 2111; id., 4 febbraio 2004, n. 395).
La natura interpretativa della norma, quale espressione di un principio di autonomia tra sanatoria edilizia e paesaggistica, comporta l’applicazione anche alla sanatoria presentata, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985, nel 1990, trattandosi del medesimo rapporto di autonomia tra procedimento paesaggistico ed procedimento edilizio.
Con ulteriore motivo di appello, si contesta, poi la quantificazione della sanzione, in quanto non sarebbe stato arrecato alcun danno ambientale -come riconosciuto dallo stesso Comune, che ha fatto riferimento al profitto conseguito- e quindi non sarebbe stata irrogabile la sanzione; inoltre, è stata comunque genericamente contestata la quantificazione della sanzione che sarebbe stata eccessiva, priva di motivazione, in quanto il costo medio non sarebbe stato ancorato a specifici parametri.
Ritiene il Collegio in primo luogo la genericità della censura non idonea a contestare sul punto le affermazioni del giudice di primo grado, che ha ritenuto corretta la quantificazione operata dal Comune sulla base della nota del Settore urbanistica del Comune di Pesaro del 1 febbraio 1990.
In ogni caso, la censura è anche infondata, in quanto dalla detta nota del Comune di Pesaro emerge che la sanzione è stata commisurata al “profitto conseguito, non potendosi individuare il danno, in quanto i movimenti di terra sono stati realizzati principalmente sotto l’edificio”; il profitto dunque è stato ragguagliato alla differenza tra il valore dell’opera e costo di produzione; calcolato il valore dell’opera in relazione al costo medio della zona al metro quadro, considerati 376,43 metri quadri di superficie; tale somma è stata poi dimezzata per la natura accessoria dei locali.
Non si può ravvisare quindi alcun difetto di istruttoria né di motivazione. Infatti, l’amministrazione ha tenuto conto della ampliamento della superficie complessiva, che date le dimensioni complessive, non può non avere arrecato un profitto; ha considerato il valore dimezzato per la natura accessoria dei locali, considerando, quindi, specificamente che si trattava di locali interrati e seminterrati; quanto al valore medio della zona posto a base del calcolo dal Comune e, considerato corretto dal giudice di primo grado, la difesa appellante non ha indicato nell’atto di appello alcun elemento contrario né un diverso valore del mercato di riferimento.
In ogni caso, la giurisprudenza consolidata, da cui il Collegio non ritiene di discostarsi nel caso di specie, ritiene che la commisurazione del quantum della sanzione debba avvenire in via sostanzialmente equitativa ed essere ricollegata ad una stima tecnica di carattere generale, né è suscettibile di una dimostrazione articolata ed analitica, sfuggendo il danno paesistico, per la sua intrinseca natura, ad una indagine dettagliata e minuta (Consiglio Stato, Sez. V, 26 settembre 2013, n. 4783; Sez. IV 2 marzo 2011, n. 1359; Sez. IV, 14 aprile 2010 n. 2083).
Del tutto genericamente è stata poi riproposta la questione della mancata indicazione della possibilità di ricorrere ad un collegio di periti per la quantificazione dell’indennità ; in ogni caso, a prescindere dalla permanenza di tale organo a seguito del trasferimento delle competenze in materia paesaggistica alle regioni con il D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, tale mancanza non ha provocato alcun effetto lesivo per la parte appellante, che nel ricorso non ha contestato solo la misura della indennità ma anche l’an della sanzione, questione che non avrebbe comunque potuto porre ad un eventuale collegio peritale; inoltre, quando è stato proposto il ricorso introduttivo del giudizio nel sessantesimo giorno dalla notifica dell’atto impugnato, con la censura relativa alla violazione della disposizione che prevede il collegio peritale, la parte aveva ancora, in astratto, un mese per richiedere l’intervento dei periti, essendo per questo previsto il termine di tre mesi dalla notificazione della sanzione. Ne deriva la assoluta carenza di interesse a tale censura.
In conclusione, l’appello è infondato e deve essere respinto.
In considerazione della particolare risalenza nel tempo della vicenda sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese del presente grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 29 settembre 2020 con l’intervento dei magistrati:
Giulio Castriota Scanderbeg – Presidente
Francesco Frigida – Consigliere
Cecilia Altavista – Consigliere, Estensore
Francesco Guarracino – Consigliere
Roberto Politi – Consigliere

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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