Consiglio di Stato, sezione terza, Sentenza 3 luglio 2019, n. 4570.

La massima estrapolata:

Pur essendo necessario che nell’interdittiva antimafia siano individuati (ed indicati) idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose, che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la Pubblica amministrazione, non è invece necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo.

Sentenza 3 luglio 2019, n. 4570

Data udienza 20 giugno 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Terza
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1051 del 2019, proposto dalla -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati An. Cl. e Ma. Ca. e con questi elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avvocato An. Cl. in Roma, via (…),
contro
il Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore, e Ufficio territoriale del Governo – Prefettura di Caserta, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via (…),
per la riforma
della sentenza del Tar Campania, sede di Napoli – sez. I, n. -OMISSIS-, che ha respinto il ricorso proposto avverso l’interdittiva antimafia emessa dalla Prefettura di Caserta il 29 marzo 2018.
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno e dell’Ufficio territoriale del Governo – Prefettura di Caserta;
Vista la memoria depositata dall’appellante il 20 maggio 2019;
Vista la memoria depositata dal Ministero dell’Interno e dell’Ufficio territoriale del Governo – Prefettura di Caserta il 3 giugno 2019;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 20 giugno 2019 il Cons. Giulia Ferrari e uditi per le parti gli avvocati, come da verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1. Con ricorso proposto dinanzi al Tar Napoli la -OMISSIS-, azienda costituita nel 2009 operante nel settore dei lavori pubblici e privati, ha impugnato l’interdittiva antimafia emessa dalla Prefettura di Caserta il 29 marzo 2018 deducendone l’illegittimità sul rilievo che si sarebbe limitata a richiamare l’esistenza di due sentenze da cui emergerebbero “contatti” professionali, senza valutare se, anche attualmente, tali contatti incidano sull’affidabilità della società ricorrente e del suo socio di maggioranza. L’amministratore e socio unico della società, signor -OMISSIS- -OMISSIS-, incensurato, avrebbe solo avuto la sfortuna di prestare i propri servigi professionali ben 14 anni prima per -OMISSIS–OMISSIS-, esponente mafioso, ignorando che fosse tale, e per il suo uomo di fiducia, -OMISSIS–OMISSIS-. Né il contesto familiare sarebbe largamente compromesso o di plurimi rapporti parentali visto che non ha rapporti di parentela con soggetti coinvolti in indagini penali per reati mafiosi.
Avverso la sentenza del Tar Campania, sede di Napoli – sez. I, n. -OMISSIS- la -OMISSIS- ha proposto appello, notificato il 6 febbraio 2019 e depositato il successivo 7 febbraio, deducendo
Error in judicando ed omessa pronuncia sui motivi decisivi.
Dagli atti istruttori non risulta alcun elemento a supporto dell’impianto accusatorio; sono citate intercettazioni telefoniche utilizzate nell’ambito di procedimenti penali, conclusesi con le sentenza del Tribunale di Napoli del 29 giugno 2012 e del 12 gennaio 2015 ma mai conosciute dal signor -OMISSIS- né dal Tar Napoli.
2. Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell’Interno e l’Ufficio territoriale del Governo – Prefettura di Caserta, che hanno sostenuto l’infondatezza, nel merito, dell’appello.
3. Alla pubblica udienza del 20 giugno 2019 la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

1. L’appello è infondato, alla luce dei principi – ampiamente richiamati nel provvedimento prefettizio – ormai consolidati del giudice di appello e di quello di primo grado nella materia dell’interdittiva antimafia.
Ed invero, pur essendo necessario che nell’interdittiva antimafia siano individuati (ed indicati) idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose, che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la Pubblica amministrazione – non è invece necessario un grado di dimostrazione probatoria ana a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo.
Come chiarito da ultimo dalla Sezione (30 gennaio 2019, n. 759) l’art. 84, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 riconosce quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”. Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di questi ad influenzare la gestione dell’impresa sono all’evidenza tutte nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzate, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, potendo essere anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori.
Il pericolo – anche quello di infiltrazione mafiosa – è per definizione la probabilità di un evento.
L’introduzione delle misure di prevenzione, come quella qui in esame, è stata dunque la risposta cardine dell’Ordinamento per attuare un contrasto all’inquinamento dell’economia sana da parte delle imprese che sono strumentalizzate o condizionate dalla criminalità organizzata.
Una risposta forte per salvaguardare i valori fondanti della democrazia.
La sopra richiamata funzione di “frontiera avanzata” dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi (Cons. St., sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758).
In tale direzione la verifica della legittimità dell’informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).
Ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare l’intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).
2. Ciò preliminarmente chiarito, nella fattispecie sottoposta all’esame di questo Collegio il Prefetto di Caserta ha fondato l’impugnata interdittiva sui rapporti di frequentazione economica tra l’amministratore unico-legale rappresentante della società -OMISSIS-, signor -OMISSIS- -OMISSIS-, e il capo clan dei -OMISSIS-, -OMISSIS–OMISSIS- ed il collaboratore di quest’ultimo, signor -OMISSIS–OMISSIS-, in quanto da loro considerato “imprenditore ed artigiano di fiducia”.
Il signor -OMISSIS- (detto -OMISSIS-), insieme ad un suo uomo, dopo aver effettuato lavori per -OMISSIS- in Emilia Romagna, ne ha ristrutturato l’abitazione patronale a-OMISSIS-. A rendere possibile tale attività è stato determinante l’aiuto del -OMISSIS-.
La prestazione di attività lavorativa propria dell’esercizio di impresa di cui -OMISSIS- è titolare assume una colorazione ben diversa se la stessa è effettuata a favore di un uomo di spicco della malavita di-OMISSIS- quale è lo -OMISSIS-, condannato all’ergastolo per i reati di cui agli artt. 353 c.p. (turbata libertà degli incanti), 575 c.p. (omicidio), 577 c.p. (altre circostanze aggravanti – ergastolo), 629 c.p. (estorsione), 648 bis c.p. (riciclaggio), 648 ter c.p. (impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita), aggravati dall’art. 7, l. n. 203 del 1991, 416 bis e 1, 2, 3, 4, 5, 6 c.p. (associazione di tipo mafioso) e 12 quinquies, d.l. n. 306 del 1992(trasferimento fraudolento o possesso ingiustificato di valori); e se a fare da intermediatore per rendere possibile tale prestazione è un “braccio destro” dello -OMISSIS-, il signor -OMISSIS-, nei cui confronti sono state eseguite misure cautelari per reati di stampo mafioso.
Il collegamento tra i tre soggetti risulta dalle intercettazioni telefoniche utilizzate nel corso di due procedimenti penali e riportate nelle relative sentenze del Tribunale di Napoli n. -OMISSIS-Rg. Gen. Sent. del Gip, datata 29 giugno 2012, e n. -OMISSIS-Rg. Gen. Sent. del GUP, datata 12 gennaio 2015. Non si tratta di incontri occasionali e non è pensabile, considerato come opera la malavita locale, che un capo clan faccia entrare nella propria residenza (“la propria roccaforte”) un artigiano di cui non si fidi ciecamente.
E’ poi da escludere che il signor -OMISSIS- non conoscesse l’ambito di operatività dello -OMISSIS- in una realtà locale – quale è quella di-OMISSIS- – nella quale la regia del capo clan – da tutti conosciuto; da alcuni “rispettato”, da molti temuto – governa buona parte delle attività e della vita sociale.
Tali elementi paiono al Collegio sufficienti a supportare l’impugnata interdittiva.
Ai fini dell’adozione dell’interdittiva che, come si è detto, costituisce una tipica misura cautelare di polizia, preventiva e interdittiva, non è infatti necessaria una prova che vada al di là di ogni ragionevole dubbio, essendo sufficiente che gli elementi effettivamente riscontrati, valutati nel loro complesso e non atomisticamente, forniscano un quadro d’insieme in base al quale non sia illogico formulare un giudizio prognostico negativo, latamente discrezionale. L’interdittiva non presuppone la prova di un fatto, ma solo la presenza di una serie di indizi in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un condizionamento da parte di queste; tali elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri.
Contrariamente a quanto assume l’appellante, non rileva neanche che il signor -OMISSIS- non abbia precedenti penali. La misura interdittiva, essendo il potere esercitato espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sull’esistenza della contiguità dell’impresa con organizzazione malavitose, e quindi del condizionamento in atto dell’attività di impresa, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificare il tentativo di ingerenza nell’attività imprenditoriale della criminalità organizzata.
Irrilevante è altresì la circostanza che le due pronunce penali siano una del 2012 e l’altra del 2015 e si riferiscano a fatti del 2004-2005.
E’, infatti, sufficiente richiamare il principio secondo cui i fatti sui quali si fonda tale misura di prevenzione possono anche essere risalenti nel tempo nel caso in cui vadano a comporre un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata. Come chiarito dalla Sezione (21 gennaio 2019, n. 515), il mero decorso del tempo, di per sé solo, non implica, cioè, la perdita del requisito dell’attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende descritte in un atto interdittivo, né l’inutilizzabilità di queste ultime quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento, donde l’irrilevanza della ‘risalenzà dei dati considerati ai fini della rimozione della disposta misura ostativa, occorrendo, piuttosto, che vi siano tanto fatti nuovi positivi quanto il loro consolidamento, così da far virare in modo irreversibile l’impresa dalla situazione negativa alla fuoriuscita definitiva dal cono d’ombra della mafiosità .
In conclusione, correttamente il coacervo di elementi è stato ritenuto dal Prefetto di Caserta sufficiente ad evidenziare il pericolo di contiguità con la mafia, con un giudizio peraltro connotato da ampia discrezionalità di apprezzamento, con conseguente sindacabilità in sede giurisdizionale delle conclusioni alle quali l’autorità perviene solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell’informativa antimafia rimane estraneo l’accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento (Cons. St. n. 4724 del 2001). Tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati (Cons. St. n. 7260 del 2010).
3. Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c.. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.
4. In conclusione, per i suesposti motivi, l’appello va respinto e va, dunque, confermata la sentenza del Tar Campania, sede di Napoli – sez. I, n. -OMISSIS-, che ha respinto il ricorso di primo grado.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Terza,
definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento, in favore del costituito Ministero dell’Interno, delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano in Euro 4.000,00 (euro quattromila/00).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 1, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l’appellante.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 giugno 2019 con l’intervento dei magistrati:
Franco Frattini – Presidente
Massimiliano Noccelli – Consigliere
Paola Alba Aurora Puliatti – Consigliere
Stefania Santoleri – Consigliere
Giulia Ferrari – Consigliere, Estensore

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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