Consiglio di Stato, sezione quarta, Sentenza 21 marzo 2019, n. 1874.
La massima estrapolata:
In tema di sanatoria con prescrizioni la valutazione di compatibilità paesaggistica non può riferirsi al manufatto ottenuto grazie alle modifiche eventualmente proposte dal privato, in quanto, ai sensi dell’art. 167, comma 4, D.Lgs. n. 42 /2004, è consentita la sanatoria delle opere così come esistenti al momento dell’istanza e non delle opere progettate in maniera da alterarne la consistenza originaria.
Sentenza 21 marzo 2019, n. 1874
Data udienza 31 gennaio 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1246 del 2011, proposto dal signor Lu. Ca., rappresentato e difeso dagli avvocati Br. Sa. e Di. Va., elettivamente domiciliato presso lo studio del secondo in Roma, alla via (…),
contro
il Comune di (omissis), in persona del Sindaco in carica pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Gr. Dal Mo., elettivamente domiciliato presso lo studio del Dott. Al. Pl. in Roma, via (…),
per la riforma
della sentenza del T.a.r. per la Lombardia, sede di Milano, Sezione II, n. 7311 del 22 novembre 2010, resa inter partes, concernente diniego di compatibilità paesaggistica e sanatoria edilizia con conseguente ordine di demolizione.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 31 gennaio 2019 il Consigliere Giovanni Sabbato e uditi, per le parti rispettivamente rappresentate, gli avvocati Ma. Po., su delega dichiarata dell’avv. Di. Va., e Gi. Co. su delega dell’avv. Gr. Dal Mo.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Con ricorso, integrato da motivi aggiunti, proposto innanzi al T.a.r. per la Lombardia, sede di Milano, il signor Lu. Ca., proprietario di alcune aree in Comune di (omissis), sulle quali insiste un fabbricato residenziale, sottoposto a vincolo paesaggistico, avendo presentato all’Amministrazione comunale istanze rispettivamente di compatibilità paesaggistica e di sanatoria edilizia di una tettoia e di una piccola autorimessa interrata, ha chiesto l’annullamento dei seguenti atti:
a) provvedimento prot. n. 7530 dell’8 aprile 2009 recante diniego di compatibilità paesaggistica;
b) provvedimento prot. n. 206/2009 del 18 maggio 2009 recante diniego di permesso di costruire in sanatoria avente ad oggetto la realizzazione di autorimessa e tettoia in difformità della prescritta autorizzazione;
c) nota prot. n. 5781 del 16 marzo 2009 recante comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di compatibilità paesaggistica;
d) nota prot. n. 7743 del 9 aprile 2009, recante comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di permesso di costruire in sanatoria;
e) ingiunzione di demolizione n. 124 del 9 settembre 2009 (impugnata con motivi aggiunti).
2. A sostegno della proposta impugnativa, parte ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990, la conformità delle opere a seguito di ripristino parziale e la insussistenza dei presupposti per ordinare la riduzione in pristino trattandosi di parziale difformità .
3. Costituitasi l’Amministrazione comunale, il Tribunale adì to, Sezione II, ha così deciso il gravame al suo esame:
– ha respinto il ricorso reputando infondate tutte le censure articolate;
– ha condannato parte ricorrente al rimborso delle spese di lite (Euro 1.000,00).
4. In particolare, il Tribunale ha ritenuto che:
– non sussiste alcuna violazione dell’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990 avendo il Comune, con la nota prot. n. 5781 del 16 marzo 2009, “chiaramente indicato la ragione per cui l’istanza di accertamento della compatibilità paesaggistica dell’intervento realizzato non poteva essere accolta”;
– “Con il provvedimento conclusivo il Comune ha, inoltre, adeguatamente dato conto delle ragioni per le quali ha ritenuto di non condividere le osservazioni presentate ai sensi dell’art. 10 bis…”;
– non può ritenersi consentito il rilascio di un titolo in sanatoria subordinatamente alla realizzazione di ulteriori lavori, la cui necessità peraltro palesa l’insussistenza del requisito della conformità al momento della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria;
– le opere realizzate in difformità sono perseguibili con la sanzione ripristinatoria in quanto insistenti su area sottoposta a vincolo paesaggistico e perché integrano variazioni essenziali al progetto.
5. Avverso tale pronuncia il signor Ca. ha interposto appello, notificato il 28 gennaio 2011 e depositato il 27 febbraio 2011, lamentando, attraverso un unico complesso motivo di gravame (pagine 8-25), quanto di seguito sintetizzato:
I) il Tribunale non avrebbe considerato che le difformità realizzate, oggetto di sanatoria, sono state determinate da esigenze statiche legate alla necessità di creare un muro di contenimento;
II) l’Amministrazione, contrariamente a quanto opinato dal Tribunale, non avrebbe adeguatamente motivato l’interposto diniego limitandosi ad affermazioni tautologiche e generiche;
III) in sede paesaggistica, l’Amministrazione avrebbe omesso di valutare la possibilità di impartire prescrizioni mitigative accedendo così ad un diniego incurante delle caratteristiche del progetto allegato alla domanda di ripristino parziale del manufatto e del parere ministeriale del 13 settembre 2010 che accede ad una interpretazione finalistica dell’art. 167 del Codice Urbani;
IV) la doppia conformità richiesta dall’art. 36 del testo unico edilizia va rapportata al progetto presentato invece che al manufatto esistente cosicché le proposte modifiche atte al ripristino parziale, contrariamente a quanto opinato dal Tribunale, non sarebbero in contrasto con la citata disciplina;
V) le difformità realizzate non sarebbero in grado di mutare la natura dell’intervento, che rimane comunque riconducibile a quelli di cui alla legge n. 122 del 1989 così come sarebbe da considerare sanabile la tettoia aperta annessa all’autorimessa;
VI) per la consistenza delle opere, contrariamente a quanto opinato dal Tribunale, il Comune avrebbe dovuto applicare la sanzione pecuniaria invece che quella demolitoria.
6. Il Comune si è costituito con memoria, al fine di resistere.
7. In vista della trattazione nel merito del ricorso, entrambe le parti hanno svolto difese scritte insistendo per le rispettive conclusioni; in particolare, parte appellata, con la memoria di replica del 10 gennaio 2019, eccepisce la deduzione di motivi non articolati nel giudizio di primo grado.
8. Il ricorso, discusso alla pubblica udienza del 31 gennaio 2019, non merita accoglimento.
8.1. Va premesso che, ai sensi dell’art. 104 c.p.a., non possono essere utilizzati documenti non prodotti nel giudizio di prime cure. Infatti il divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello riguarda anche le prove c.d. precostituite, quali i documenti, la cui produzione è subordinata al pari delle prove c.d. costituende, alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile, che abbia impedito alla parte di esibirli in primo grado ovvero alla valutazione della loro indispensabilità (Cons. Stato, sez. IV, 20 agosto 2018, n. 4969). Ebbene, nel caso di specie non si rinviene alcuno degli speciali motivi previsto dall’art. 345 c.p.c. in grado di giustificare il superamento del citato divieto (Cons. Stato, sez. IV, 11 ottobre 2017, n. 4703).
8.2. Transitando al merito delle critiche sollevate dall’appellante, non può essere innanzitutto condiviso quanto lamentato in ordine alla consistenza delle opere oggetto di sanatoria, non potendosi ritenere che le stesse abbiano una mera finalità di adeguamento statico dell’immobile; esse infatti, così come descritte in atti, hanno comportato rilevanti difformità sia plano-volumetriche che di destinazione, atteso che l’autorimessa è risultata non accessibile da mezzi di locomozione e si presenta suddivisa in due distinti locali. La costruzione quindi non può essere ricondotta all’alveo normativo della legge n. 122 del 1989 siccome relativo ad opere aventi finalità di parcheggio. Di ciò lo stesso appellante ha mostrato di avere avuto contezza in tempi non sospetti essendosi peritato di avanzare istanza di sanatoria all’evidente scopo di ricondurre le opere nel perimetro della legalità formale.
8.3. Nemmeno è dato ravvisare l’obliterazione del diaframma partecipativo di cui all’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990 ed il difetto di motivazione per la mancata confutazione delle ragioni evidenziate in sede endoprocedimentale. Per il primo aspetto vale osservare che il Comune ha regolarmente comunicato il preavviso di diniego mercé la nota del 16 marzo 2009, con la quale ha esattamente rassegnato i motivi ostativi all’accoglimento della domanda. Per il secondo versante critico, va rilevato che il contestato diniego contiene le ragioni per le quali l’Amministrazione ha ritenuto di non accogliere le contrarie argomentazioni rese a seguito del preavviso e segnatamente ricondotte alla natura del sospirato provvedimento di sanatoria, non riferibile se non ad opere già eseguite.
8.4. Non resta quindi che esaminare la critica, avente rilievo centrale nell’economia dell’appello de quo, afferente alla individuazione dei confini applicativi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che, secondo la linea interpretativa auspicata dall’appellante, sarebbe in grado di abbracciare anche le opere in progetto e pertanto non ancora eseguite.
La tesi sostenuta dall’appellante non può essere condivisa, avendo questo Consiglio più volte optato per una interpretazione restrittiva della norma che, nel consentire la sanatoria degli abusi formali, ha natura senz’altro eccezionale rispetto al principio del necessario previo ottenimento dell’assentimento edilizio ovverosia da conseguire prima e non dopo l’esecuzione delle opere. Si è, quindi, di recente osservato che “l’istituto della c.d. ‘sanatoria giurisprudenzialè deve considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell’abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ossia a condizione che l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, mentre con la invocata ‘sanatoria giurisprudenzialè verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d’ogni previsione normativa. Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 11 settembre 2018, n. 5319). Invero, la sanatoria di cui all’art. 36, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, si fonda sul rilascio di un provvedimento abilitativo sanante da parte della competente Amministrazione, sempre possibile previo accertamento di conformità o di non contrasto delle opere abusive non assentite agli strumenti urbanistici vigenti nel momento della realizzazione e in quello della richiesta, previo accertamento di compatibilità paesaggistica nelle ipotesi in cui l’area sia assoggettata a vincolo paesaggistico e che è tassativamente limitato alle sole fattispecie contemplate dall’art. 167 comma 4, d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, come da ultimo sostituito per effetto dell’art. 27, d.lg. 24 marzo 2006, n. 157. Orbene, è la stessa qualificazione in termini di sanatoria del provvedimento scolpito dall’art. 36 che importa l’esclusione dal suo ambito di quelle opere progettate al fine di ricondurre l’opus nel perimento di ciò che risulti conforme alla disciplina urbanistica e quindi assentibile. Questo Consiglio (Cons. Stato, sez. VI, 4 luglio 2014, n. 3410) ha quindi rilevato che il rilascio di un permesso in sanatoria con prescrizioni, con le quali si subordina l’efficacia dell’accertamento alla realizzazione di lavori che consentano di rendere il manufatto conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento della domanda o al momento della decisione, contraddice, innanzitutto sul piano logico, la rigida statuizione normativa poiché si farebbe a meno della doppia conformità dell’opera richiesta dalla norma se si ammettesse l’esecuzione di modifiche postume rispetto alla presentazione della domanda di sanatoria. Anche per quanto attiene alla valutazione di compatibilità paesaggistica, occorre stabilire se essa debba riferirsi al manufatto esistente o a quello che verrebbe modificato secondo la proposta dell’appellante con la demolizione di porzioni di muratura.
In realtà, la valutazione di compatibilità paesaggistica non può riferirsi al manufatto ottenuto grazie alle modifiche proposte, in quanto, ai sensi dell’art. 167, co. 4, d.lgs. n. 42 /2004, è consentita la sanatoria delle opere così come esistenti al momento dell’istanza e non delle opere progettate in maniera da alterarne la consistenza originaria. Secondo parte appellante i progettati interventi di demolizione parziale sarebbero agevoli e fattibili, traducendosi in parziali demolizioni, volte a rimuovere i soli “volumi fuori terra” e pertanto mirate a rispettare i parametri del progetto autorizzato nel 1999, ovvero i requisiti dell’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004, relativamente ai quali l’Autorità amministrativa competente avrebbe potuto accertare la compatibilità paesaggistica.
A sostegno di tale assunto, l’appellante valorizza la delibera della Giunta Regionale della Lombardia n. 8/2121, secondo cui “è possibile un accertamento di compatibilità paesaggistica condizionato all’esecuzione di opere di ripristino ambientale” e che “in tal caso il permesso in sanatoria può essere rilasciato dopo che siano state eseguite le suddette opere” (cfr. art. 5.2).
Ai fini della disamina del rilievo, occorre verificare se tale atto deliberativo assume portata innovativa dell’assetto ordinamentale, nella parte in cui prevede la possibilità di un accertamento di compatibilità paesaggistica condizionato all’esecuzione di opere di ripristino ambientale. In realtà, è da escludere che tale atto deliberativo possa assumere portata derogatoria dei principi coniati in sede legislativa. In tal senso si è espressa la condivisibile giurisprudenza di prime cure (sentenza del T.a.r. per la Lombardia, Sede di Milano, Sez. II, n. 355/2018), la quale rileva che la predetta delibera “non ha contenuto normativo né comunque portata precettiva e avrebbe dovuto essere senz’altro disattesa dal Comune, poiché si pone in contrasto con la previsione dell’articolo 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio”, tant’è che nell’iter che connota il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica” dalla data del 1 gennaio 2010, l’unico modulo procedimentale vigente è, infatti quello del richiamato art. 146, non essendo ipotizzabile un’ultrattività del regime dell’autorizzazione paesaggistica (cfr. Cons. Stato n. 4492/2013).”. Depone nel medesimo senso l’insegnamento della Consulta (sentenza C. Cost n. 189 del 2016), la quale ha evidenziato che: “la legislazione regionale non può prevedere una procedura per l’autorizzazione paesaggistica diversa da quella dettata dalla legislazione statale, perché alle Regioni non è consentito introdurre deroghe agli istituti di protezione ambientale che dettano una disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio nazionale, nel cui ambito deve essere annoverata l’autorizzazione paesaggistica” (nello stesso senso anche: C. Cost. n. 238 del 2013, n. 235 del 2011, n. 101 del 2010 e n. 232 del 2008). La Corte delle leggi ha poi ritenuto, nell’ambito della medesima pronuncia testé richiamata, che non spetta “alla normativa regionale qualificare alcuni interventi come paesaggisticamente irrilevanti, ampliando la previsione dell’articolo 149 del Codice dei beni culturali e del paesaggio”. Deve pertanto escludersi che la Regione abbia modo di incidere sull’assetto cristallizzato, in subiecta materia, dal legislatore statale, tanto più attraverso l’adozione di un atto, ancorché generale, dalla indubitabile natura di mero atto amministrativo.
Del resto, pur volendo riconoscere alla su citata delibera il valore di atto normativo, sarebbe suscettibile di disapplicazione giudiziale siccome in contrasto con le richiamate previsioni della legge statale in punto di sanatoria paesaggistica.
Non va peraltro trascurato che la stessa Giunta regionale della Lombardia, con la delibera n. 9/2727 del 22 dicembre 2011, ha definito i criteri e le procedure per l’esercizio delle funzioni amministrative in materia di beni paesaggistici, in attuazione della legge regionale dell’11 marzo 2005, n. 12, disponendo contestualmente la revoca della D.G.R. n. 8/2121 del 15 marzo 2006, ripetutamente evocata dall’appellante. Tale più recente delibera, infatti non consente più “un accertamento di compatibilità paesaggistica condizionato all’esecuzione di opere di ripristino ambientale”, ma al contrario sancisce, alla luce dell’articolo 146 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (approvato con decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, ed entrato in vigore il 1° maggio 2004)”il divieto di rilasciare l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi di trasformazione degli immobili o delle aree sottoposti a vincolo paesaggistico. Il citato divieto investe anche la certificazione di assenza di danno ambientale in quanto tale atto si configura, sotto il profilo sostanziale, come atto equipollente all’autorizzazione paesaggistica in sanatoria. Pertanto, a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, non possono essere più rilasciate né autorizzazioni paesaggistiche in sanatoria, né certificazioni di assenza di danno ambientale, intese come atti conclusivi del procedimento sanzionatorio, ma, per le opere realizzate in assenza o in difformità dall’autorizzazione paesaggistica, dovranno essere irrogate le sanzioni amministrative previste dall’art. 167 del summenzionato decreto legislativo. In generale (art. 167, comma 1) è stabilito l’obbligo della rimessione in pristino per “opere” eseguite in assenza/difformità da autorizzazione paesaggistica”
8.5. Infondato è anche l’ultimo dei rilievi sollevati dall’appellante, col quale assume che l’Amministrazione avrebbe dovuto irrogare la sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, a norma dell’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, norma che si assume suscettibile di applicazione al caso di specie sia per l’ineludibile esigenza di salvaguardare le parti legittime del fabbricato sia perché si tratterebbe di opere solo parzialmente difformi da quanto autorizzato. A fronte di quanto argomentato in relazione a tale censura dal Tribunale, l’appellante ritiene che sarebbero state indebitamente richiamate le disposizioni del Codice Urbani, in particolare l’art. 167, perché afferente al diverso settore del paesaggio.
Anche tale rilievo non può essere condiviso.
Per vero, la proiezione applicativa della norma invocata non può prescindere dalla valorizzazione del suo stesso tratto testuale, avendo questo Consiglio avuto modo di evidenziare che “In presenza di abuso edilizio l’applicazione delle misure sanzionatorie deve, in principio, assicurare la prevalenza della sanzione ripristinatoria perché satisfattiva della restituzione in integro dell’ordine urbanistico violato: preferenza che è patente nell’art. 34, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), secondo cui gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell’abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 22 ottobre 2015, n. 4843). Peraltro, l’elemento di congiunzione tra la tutela del paesaggio, da un lato, e dell’assetto urbanistico del territorio, dall’altro, si rinviene, nell’ordito ordinamentale, all’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, laddove prevede che, per le opere realizzate in zona vincolata, ancorché qualificabili in termini di “variazioni essenziali”, sia comunque adottata la sanzione ripristinatoria ai sensi dei richiamati artt. 11 e 44 del medesimo decreto, per la presumibile esigenza di salvaguardare i valori ambientali altrimenti pregiudicati dalla presenza delle opere abusive. Questo Consiglio ha quindi affermato, in termini generali, che “le opere edilizie abusive realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, quand’anche per avventura si ritenessero opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera Dia, si considerano comunque eseguite in totale difformità dalla concessione il che comporta che l’applicazione della sanzione demolitoria è comunque doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna previa autorizzazione paesaggistica” (sentenza, Sez. IV, 26 settembre 2018, n. 5524). Per giunta, l’asserita riconduzione delle opere in questione nel paradigma della parziale difformità non può essere condivisa proprio in considerazione delle loro caratteristiche, dianzi descritte, in grado di incidere in modo significativo sull’assetto costruttivo originariamente autorizzato.
9. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto.
10. Le spese di giudizio, regolamentate secondo il criterio della soccombenza, sono liquidate nella misura stabilita in dispositivo secondo i parametri di cui al regolamento n. 55 del 2014.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto (R.G. n. 1246/2011), lo respinge.
Condanna l’appellante alla rifusione, in favore del Comune di (omissis), delle spese del giudizio che liquida in euro 3.000,00 (tremila/00), oltre agli accessori di legge (I.V.A., C.P.A. e rimborso spese generali al 15%).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 31 gennaio 2019 con l’intervento dei magistrati:
Raffaele Greco – Presidente
Luca Lamberti – Consigliere
Alessandro Verrico – Consigliere
Nicola D’Angelo – Consigliere
Giovanni Sabbato – Consigliere, Estensore
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