In tema di reati tributari, l’utilizzo in compensazione di un credito Iva derivante da una dichiarazione omessa integra il reato di indebita compensazione di crediti inesistenti

Corte di Cassazione, sezione terza penale, Sentenza 3 ottobre 2018, n. 43627.

La massima estrapolata:

In tema di reati tributari, l’utilizzo in compensazione di un credito Iva derivante da una dichiarazione omessa integra il reato di indebita compensazione di crediti inesistenti.

Sentenza 3 ottobre 2018, n. 43627

Data udienza 21 giugno 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SARNO Giulio – Presidente

Dott. GALTERIO Donatella – Consigliere

Dott. SEMERARO Luca – rel. Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere

Dott. ZUNICA Fabio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del 01/02/2018 della CORTE APPELLO di MILANO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. LUCA SEMERARO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. MARILIA DI NARDO;
Il P.G. conclude: inammissibilita’ del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Milano, con la sentenza del 1 febbraio 2018, ha confermato la sentenza del Tribunale di Milano del 30 maggio 2017 con la quale (OMISSIS) e’ stato condannato alla pena di un anno e tre mesi di reclusione perche’ ritenuto responsabile dei reati di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articoli 5 e 10-quater.
(OMISSIS) e’ stato condannato perche’ nella sua qualita’ di legale rappresentante della (OMISSIS), al fine di evadere l’i.v.a., ha omesso di presentare entro il 29 dicembre 2010 la relativa dichiarazione, con evasione di imposta pari ad Euro 203.729 (capo a articolo 5) nonche’ per avere utilizzato in compensazione, omettendo il versamento dell’i.v.a., crediti inesistenti per Euro 69.335,56 per l’anno di imposta 2010 (capo b articolo 10-quater).
2. Il difensore di (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Milano del 1 febbraio 2018.
2.1. Con il primo motivo, la difesa ha dedotto la violazione e falsa applicazione del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 5 e la mancanza o l’insufficienza della motivazione sulla responsabilita’ dell’imputato in ordine al reato contestato al capo a).
Per la difesa la Corte di appello di Milano ha erroneamente fondato il giudizio di penale responsabilita’ dell’imputato per il reato di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 5, su una presunzione tributaria quanto all’accertamento del superamento della soglia di punibilita’ di 50,000,00 Euro. Per la difesa, l’accertamento del superamento della soglia e’ avvenuto solo in base alla testimonianza del funzionario dell’agenzia delle entrate, il teste (OMISSIS), che ha dichiarato che la determinazione dell’ammontare dell’IVA evasa e’ avvenuta tramite metodo induttivo, mediante l’analisi del bilancio 2010 della societa’ (OMISSIS) di cui il ricorrente era il legale rappresentante.
Per la difesa il riferimento al metodo induttivo e’ insufficiente per ritenere provata la penale responsabilita’ dell’imputato ed il superamento della soglia di evasione che e’ un elemento costitutivo del reato. Rileva la difesa che il giudice penale puo’ tenere in considerazione le presunzioni presenti nell’accertamento tributario, a condizione, pero’, che non le attribuisca il valore probatorio che esse hanno nel processo tributario e che siano, oggetto di autonoma valutazione.
La difesa ha richiamato alcune sentenze della Corte di Cassazione per le quali le presunzioni regolate dal diritto tributario all’interno del procedimento penale costituiscono un indizio, che deve pero’ poi trovare riscontri in altri elementi di prova o anche in altre presunzioni purche’ gravi, precise e concordanti.
Per la difesa, la Corte di appello di Milano invece ha fondato la condanna solo sull’accertamento induttivo compiuto dagli uffici finanziari, senza rintracciare altri elementi di riscontro.
Rileva altresi’ la difesa che la Corte di appello si e’ limitata a constatare l’esistenza dell’accertamento induttivo, con un apodittico richiamo, senza procedere, come avrebbe dovuto, ad una specifica valutazione dell’accertamento.
La difesa ha richiamato sul punto due sentenze della Corte di Cassazione.
Per la difesa, la motivazione della sentenza e’ di fatto assente, non avendo dato spiegazione al proprio convincimento.
La difesa ha quindi espresso considerazioni in diritto sul vizio della motivazione ed ha affermato che manca nella sentenza l’esplicitazione del percorso logico seguito; manca per la difesa anche la motivazione sull’elemento soggettivo del reato non avendo la sentenza della Corte di appello di Milano richiamato quella di primo grado.
2.2. Con il secondo motivo, la difesa ha dedotto i vizi di violazione e falsa applicazione del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-quater e della motivazione sulla responsabilita’ dell’imputato in ordine al reato contestato capo b). La difesa ha ribadito le argomentazioni di cui al primo motivo anche con riferimento al capo b), avendo la Corte di appello di Milano fondato la condanna su una mera presunzione, sprovvista dei requisiti indispensabili per farla assurgere al rango di prova, con riferimento alla inesistenza dei crediti posti in compensazione.
Rileva la difesa che l’unico dato probatorio richiamato dalla Corte di appello di Milano e’ costituito dalla testimonianza del funzionario dell’agenzia entrate, il quale ha dichiarato che i crediti posti in compensazione sono inesistenti per il semplice fatto che la societa’ cooperativa non aveva presentato la dichiarazione modello unico SC/2010. Per la difesa tale ragionamento non puo’ valere per la responsabilita’ penale per il reato contestato perche’ per essere inesistente il credito deve essere il frutto di una vera e propria artificiosa creazione del contribuente e cio’ deve emergere incontrovertibilmente da dati assunti nel processo penale, cosa che a dire della difesa non si e’ verificata nel caso di specie.
Rileva la difesa che la Corte d’appello di Milano si e’ limitata a richiamare apoditticamente le dichiarazioni rese dal funzionario dell’agenzia dell’entrate senza indicare in sentenza gli altri elementi necessari a corroborare la presunzione elaborata dai funzionari dell’agenzia delle entrate, con contestuale analisi critica di essi. Pertanto, la difesa ha dedotto il vizio della motivazione, ritenendola assente o insufficiente, non avendo il giudice di merito adeguatamente enucleato le ragioni di fatto e di diritto sulla colpevolezza dell’imputato. Per la difesa, non essendo stata neanche richiamata per relationem la sentenza di primo grado, manca una valutazione autonoma della presunzione utilizzata dai funzionari dell’agenzia dell’entrate in merito al requisito della fittizieta’ dei crediti posti in compensazione; manca l’analisi critica, degli elementi a sostegno della presunzione e l’indicazione degli elementi di riscontro della presunzione. Per la difesa manca altresi’ l’approfondimento analitico sull’elemento soggettivo del reato.
2.3. Con il terzo motivo, la difesa ha dedotto i vizi di violazione e falsa applicazione dell’articolo 62-bis c.p. e dell’assenza della motivazione sul punto della mancata concessione delle attenuanti generiche. Per la difesa, la Corte di appello di Milano si e’ limitata ad affermare che correttamente il Tribunale ha negato le attenuanti generiche dal momento che non vi sono elementi positivi di valutazione. Per la difesa la Corte di appello di Milano non ha motivato il rigetto della concessione delle circostanze attenuanti generiche in violazione dell’orientamento della giurisprudenza che afferma che nel negare o concedere le attenuanti generiche il giudice di merito deve dare conto delle precise ragioni e dei criteri utilizzati per la concessione o il rifiuto di concessione, con indicazione degli elementi reputati decisivi nella scelta compiuta (Cass. del 21.09.1999, n. 12496).
Secondo la difesa, manca il percorso logico che ha condotto la Corte di appello di Milano a negare le circostanze attenuanti generiche laddove avrebbe dovuto menzionare gli elementi negativi che hanno indotto la Corte di appello al rigetto e, contestualmente, enucleare le ragioni per le quali i predetti elementi sarebbero stati decisivi in tal senso.
3. Con i motivi aggiunti la difesa ha dedotto il vizio di violazione di legge in relazione all’articolo 164 c.p., comma 4 per la mancata concessione della sospensione condizionale della pena. Per la difesa, la Corte di appello non ha motivato sulla mancata concessione della sospensione condizionale della pena. Rileva la difesa che il ricorrente e’ stato gia’ condannato con sentenza irrevocabile il 18 gennaio 2001 alla pena di mesi 8 di reclusione per il reato ex articolo 337 c.p.. Per la difesa la sospensione condizionale della pena e’ concedibile perche’ la somma delle pene inflitte con le due condanne non supera i due anni di reclusione. Invece, per la difesa, la Corte di appello ha affermato che il precedente penale e’ ostativo.

CONSIDERATO IN DIRITTO

 

1. Il primo motivo di ricorso e’ inammissibile perche’ manifestamente infondato. Con l’atto di appello l’unica questione proposta con riferimento al capo a) era relativa al superamento della soglia di evasione; la difesa aveva contestato in punto di fatto che il Tribunale aveva ritenuto valido il metodo induttivo adoperato dall’Agenzia delle entrate e in punto di diritto che le presunzioni tributarie non possono costituire prova della commissione del reato.
La difesa con l’appello ha ritenuto che il superamento della soglia di evasione non fosse stato adeguatamente provato.
Orbene, il motivo di appello, per come articolato, non ha contestato ne’ il fatto storico dell’omessa presentazione della dichiarazione annuale ai fini dell’Iva per il periodo di imposta 2009 ne’ la volontarieta’ di tale omissione; la contestazione ha riguardato solo ed esclusivamente il criterio di calcolo dell’importo dell’Iva non dichiarata.
Soprattutto, dal confronto tra il motivo di appello ed il ricorso per cassazione risultano questioni non proposte, come quelle relative al valore probatorio dell’accertamento induttivo e sulla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato.
Il motivo cade pero’ in errore, perche’ confonde l’accertamento induttivo con le presunzioni tributarie, che sono due istituti diversi.
Soprattutto, il motivo di appello era del tutto privo del requisito della specificita’ estrinseca perche’ non si e’ confrontato con la sentenza di primo grado che ha fondato il giudizio di penale responsabilita’ non solo sulla deposizione del teste ma anche sulla documentazione acquisita.
Il motivo di appello era del tutto generico anche nella contestazione del metodo induttivo adoperato: dalla sentenza di primo grado risulta infatti chiaramente che l’accertamento dell’agenzia delle entrate e’ avvenuto mediante l’analisi documentale del bilancio della societa’ di cui il ricorrente era il legale rappresentante.
Nella sentenza per altro si indica chiaramente il criterio seguito: sono stati analizzati i ricavi ed i costi ed e’ stata effettuata quindi un’operazione matematica di calcolo dell’Iva dovuta. Il bilancio e’ un atto che proviene dallo stesso imputato e la cui validita’ e coerenza non e’ stata neanche contestata dalla difesa.
La Corte di appello di Milano, pertanto, si e’ limitata a rispondere al motivo di appello, tenuto conto che l’accertamento e’ avvenuto non in base a presunzioni ma ad un accertamento induttivo. Rispetto alla sentenza di primo grado ha anche aggiunto che l’accertamento induttivo e’ stato determinato dalla totale mancanza di collaborazione della cooperativa, la quale non ha esibito la documentazione contabile e fiscale ne’ ha risposto al questionario inviato dall’agenzia delle entrate.
2. Il secondo motivo e’ manifestamente infondato in diritto.
Ai sensi del Decreto Legislativo n. 241 del 1997, articolo 17, norma esplicitamente richiamata dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-quater, i crediti Iva che possono essere utilizzati per la compensazione sono solo quello risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche: sicche’ correttamente, in base alla deposizione del teste, i crediti portati in compensazione sono stati ritenuti inesistenti, perche’ non si trattava di crediti iva risultanti dalle dichiarazioni o denunce presentate dal ricorrente. Va altresi’ osservato che il dato oggettivo che i crediti portati in contestazione non risultassero dalle dichiarazioni o denunce presentate dal ricorrente non e’ stato contestato ne’ con l’appello ne’ con il ricorso per cassazione.
3. Anche il terzo motivo e’ inammissibile.
3.1. Secondo il costante orientamento della Corte di Cassazione, la ratio della previsione normativa sulle circostanze attenuanti generiche e’ quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso piu’ favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si e’ reso responsabile.
L’applicazione delle circostanze attenuanti generiche non costituisce oggetto di un diritto (cfr. Cass. Sez. 3, n. 35570 del 30/05/2017, Di Luca, Rv. 270694); come ogni circostanza attenuante, l’attitudine ad attenuare la pena si deve fondare su fatti concreti.
L’obbligo di motivazione del giudice, che intenda applicare le circostanze attenuanti generiche, ha ad oggetto proprio i fatti concreti che consentono l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche; per effetto della modifica dell’articolo 62 bis c.p., disposta con il Decreto Legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche dalla L. 24 luglio 2008, n. 125, l’assenza di precedenti condanne per altri reati non puo’, da sola, fondare la concessione delle circostanze attenuanti generiche, dovendo essere presi in considerazione anche gli altri indici desumibili dall’articolo 133 c.p..
Si e’ affermato (cfr. Cass. Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269), in tema di applicazione delle circostanze attenuanti generiche, che il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione e’ insindacabile in sede di legittimita’, purche’ non sia contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’articolo 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione.
Ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche, il giudice puo’ limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’articolo 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicche’ anche un solo elemento attinente alla capacita’ a delinquere del colpevole o alla gravita’ del reato puo’ essere sufficiente in tal senso (cosi’ Cass. sez. 2, n. 3609 del 18.1.2011, Sermone, rv. 249163; Cass. sez. 6, n. 7707 del 4.12.2003, Anaclerio, rv. 229768).
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, l’esclusione delle circostanze attenuanti generiche e’ adeguatamente motivata quando il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto della richiesta, senza che cio’ comporti tuttavia la stretta necessita’ della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda.
La Corte di Cassazione ha ritenuto sufficiente, ai fini dell’esclusione delle attenuanti generiche, il richiamo in sentenza ai numerosi precedenti penali dell’imputato (cfr. Cass. Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269).
3.2. Orbene, deve rilevarsi che dalle conclusioni riportate nella sentenza di primo grado non risulta che la difesa abbia chiesto l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche.
Il Tribunale ha motivato la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche per non essere emersi elementi su cui fondare la concessione.
Con l’atto di appello la difesa ha dedotto solo la mancanza di motivazione, senza indicare alcun elemento di fatto in base al quale il giudice avrebbe potuto applicare le circostanze attenuanti generiche.
Ne consegue che in primo grado la richiesta di applicazione delle circostanze attenuanti generiche era del tutto assente; con l’appello la richiesta era del tutto generica, non essendo state indicate le circostanze di fatto in base alle quali il giudice avrebbe potuto concedere le circostanze attenuanti generiche.
Analogamente, neanche con il ricorso per cassazione sono stati indicati gli elementi positivi di valutazione sicche’ l’inammissibilita’ del motivo per genericita’ non consente neanche di poter valutare il potere di intervento di ufficio della Corte di appello.
Cfr. sul punto Cass. Sez. 3, sentenza n. 3856 del 04/11/2015, G., Rv. 266138, che ha affermato che il giudice d’appello deve, seppur sinteticamente, rendere ragione del concreto esercizio, positivo o negativo, del potere-dovere di ufficio di applicare gli istituti indicati nell’articolo 597 c.p.p., comma 5, con la conseguenza che sussiste la legittimazione dell’imputato a ricorrere per cassazione, pur in assenza di specifica richiesta nel giudizio d’appello, non solo nel caso in cui il giudice dell’impugnazione, nell’espletare l’intervento officioso, sia incorso in violazione di legge, ma anche nell’ipotesi di mancato esercizio di tale potere-dovere, a condizione, tuttavia, che dal ricorrente siano indicati gli elementi di fatto in base ai quali il giudice avrebbe potuto ragionevolmente esercitarlo.
4. Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Ai sensi dell’articolo 585 c.p.p., comma 4 l’inammissibilita’ dell’impugnazione si estende ai motivi nuovi proposti sulla sospensione condizionale della pena.
Ai sensi dell’articolo 616 c.p.p. si condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi e’ ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’”, si condanna altresi’ il ricorrente al pagamento della somma di Euro 2.000,00, determinata in via equitativa, in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.

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