Corte di Cassazione, penale, Sentenza|18 novembre 2020| n. 32422.
In tema di circostanze attenuanti generiche, se la confessione dell’imputato, tanto più se spontanea e indicativa di uno stato di resipiscenza, può essere valutata come elemento favorevole ai fini della concessione del beneficio, di contro la protesta d’innocenza o la scelta di rimanere in silenzio o non collaborare con l’autorità giudiziaria, pur di fronte all’evidenza delle prove di colpevolezza, non può essere assunta, da sola, come elemento decisivo sfavorevole, non esistendo nel vigente ordinamento un principio giuridico per cui le attenuanti generiche debbano essere negate all’imputato che non confessi di aver commesso il fatto, quale che sia l’efficacia delle prove di reità.
Sentenza|18 novembre 2020| n. 32422
Data udienza 24 settembre 2020
Integrale
Tag – parola chiave: Bancarotta semplice – Ritardo nella richiesta di fallimento – Colpa – Integrazione – Esclusione – Responsabilità – Non sussiste
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE GREGORIO Eduardo – Presidente
Dott. PEZZULLO Rosa – Consigliere
Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere
Dott. SESSA Renata – rel. Consigliere
Dott. BRANCACCIO Matilde – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 31/10/2019 della CORTE APPELLO di MILANO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere SESSA RENATA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore GIORDANO LUIGI;
Il Proc. Gen. conclude per il rigetto;
udito il difensore:
Il difensore presente, dopo aver brevemente illustrato i motivi di ricorso ne chiede l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 31.10.2019 la Corte di Appello di Milano confermava la sentenza emessa dal Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Monza in data 14.11.2018, all’esito di giudizio abbreviato, nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS), ritenuti colpevoli del reato di cui alla L.Fall., articolo 217, comma 1, n. 4 e L.Fall., articolo 224, cosi’ come derubricato, per avere aggravato il dissesto della societa’, astenendosi dal richiedere la dichiarazione di fallimento della “(OMISSIS) S.a.s.” della quale erano soci accomandatarie condannati alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione.
2. Avverso la predetta sentenza ricorrono per cassazione entrambi gli imputati, tramite il proprio difensore, per i seguenti motivi.
2.1. Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale sostanziale e processuale con particolare riferimento alla L.Fall., articolo 217, n. 4, difettando nel caso di specie l’evento dell’aggravamento del dissesto; e conseguente contraddittorieta’ e manifesta illogicita’ della motivazione in parte qua.
Per pacifica giurisprudenza, “in tema di bancarotta semplice, l’aggravamento del dissesto punito dalla L.Fall., articolo 217, comma 1 n. 4 e L.Fall., articolo 224, deve consistere nel deterioramento, provocato per colpa grave o per la mancata richiesta di fallimento, della complessiva situazione economico-finanziaria dell’impresa fallita, non essendo sufficiente ad integrarlo l’aumento di alcune poste passive” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 27634 del 30 maggio 2019, RV n. 276920).
Si eccepisce sul punto il difetto della motivazione della Corte di Appello, posto che ci si e’ soffermati, a ben vedere, unicamente sull’elemento soggettivo della colpa grave, tralasciando le censure gia’ svolte nell’atto di appello circa l’effettiva sussistenza dell’evento di aggravamento del dissesto.
Al contrario, risulta dagli atti che i coimputati, preso atto delle oggettive difficolta’ a proseguire l’attivita’, si sono attivati per apporre rimedi idonei – secondo il loro giudizio – ad impedire il fallimento della societa’, disponendo lo scioglimento anticipato e la messa in liquidazione della stessa, nonche’ provvedendo a licenziare i dipendenti, con successivo deposito nel 2012 della domanda di concordato.
In ogni caso le condotte poste in essere dagli imputati non hanno comportato un aggravamento del dissesto, non potendosi ravvisarlo nella permanente passivita’ del patrimonio netto della fallita, essendo necessario, piuttosto, un sempre maggiore squilibrio economico – finanziario complessivo della societa’, tenuto anche conto del lieve miglioramento registratosi nel 2010, erroneamente definito dalla Corte territoriale un dato accidentale, a cui faceva seguito la riduzione delle perdite a un milione di Euro circa nel 2011, perdite ulteriormente dimezzatesi nel 2012.
2.2. Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale sostanziale e processuale con particolare riferimento alla L.Fall., articolo 217, n. 4, per mancanza dell’elemento soggettivo della colpa grave, e contraddittorieta’ e manifesta illogicita’ della motivazione.
Si eccepisce altresi’ la violazione di legge sotto il profilo della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato.
La Corte territoriale ravvisa la colpa grave degli imputati nell’aver consapevolmente omesso di proporre istanza di fallimento dinanzi ad una situazione di evidente ed irreversibile dissesto.
Ed invero, la colpa grave rappresenta l’elemento psicologico di entrambe le fattispecie incriminatrici di cui alla L.Fall., articolo 217, n. 4. In linea con la giurisprudenza di legittimita’, deve infatti ritenersi che “nel reato di bancarotta semplice, la condotta della mancata tempestiva richiesta di dichiarazione del proprio fallimento e’ punibile se caratterizzata da colpa grave” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 38077 del 15 luglio 2015, RV n. 264743).
Tuttavia, nel caso di specie non possono essere riconosciuti in capo agli imputati, al di la’ di ogni ragionevole dubbio, una grave imperizia o un atteggiamento marcatamente negligente, elementi indispensabili affinche’ sia integrata la particolare intensita’ dell’elemento psicologico richiesto dalla L.Fall., articolo 217.
Sul punto, la Corte territoriale non motiva in maniera adeguata, limitandosi alla mera affermazione tautologica per cui il ritardo nel proporre istanza di fallimento integrerebbe la colpa grave: tutt’al piu’, la condotta degli imputati parrebbe configurare profili di leggerezza e/o superficialita’ nella gestione aziendale, da cui sembrerebbero emergere al piu’ profili di colpa lieve. A prescindere dalla effettiva sussistenza o meno dell’elemento di aggravamento del dissesto, di cui si e’ detto nel motivo precedente, il ritardo nella richiesta di fallimento fu infatti dettato dalla volonta’ di garantire la continuita’ aziendale, e non certamente dal voler determinare il fallimento della societa’.
2.3. Violazione di legge e manifesta contraddittorieta’ ed illogicita’ della motivazione con riferimento al trattamento sanzionatorio ed alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
La pena e’ stata invero determinata in misura pari al doppio del minimo edittale, circostanza che, unita alla mancata concessione delle attenuanti generiche, ha comportato la sua quantificazione in anni uno e mesi quattro di reclusione.
A fronte delle censure mosse in appello, la Corte ha ritenuto congrua la pena inflitta “avuto riguardo all’ingente pregiudizio cagionato con il fallimento al ceto creditorio nonche’ ai diversi precedenti penali, anche specifici, risultanti dai certificati penali in atti”.
Tuttavia, a mente dei criteri indicati dall’articolo 133 c.p., una pena di siffatta entita’ appare senz’altro sproporzionata e non rispondente al reale disvalore del fatto che, lo si rammenta, rispetto all’originaria contestazione di bancarotta fraudolenta, e’ stato poi inquadrato nella meno grave fattispecie di bancarotta semplice.
La Corte viola la disposizione sostanziale e i criteri motivazionali laddove omette di considerare, ai fini della determinazione della pena, il grado della colpa e i motivi a delinquere, posto che la commissione del reato e’ stata generata dal vano tentativo di tenere in piedi l’impresa e non certo da un atteggiamento spiccatamente colposo volto a determinare il fallimento della societa’.
In punto di attenuanti generiche, si rileva come la Corte abbia confermato la mancata concessione delle stesse alla luce della “valutazione del fatto di bancarotta attribuito agli imputati nel presente procedimento, unitamente al comportamento tenuto dagli stessi in sede processuale”; si eccepisce pertanto la violazione di legge sostanziale, ed in particolare dell’articolo 62-bis c.p., avendo la Corte ritenuto di negare la concessione delle attenuanti generiche in base alla valutazione del fatto di reato imputato ai ricorrenti, utilizzando in tal modo un argomento tautologico rispetto alla gia’ ritenuta penale responsabilita’, e per l’assenza di contributi collaborativi da parte dei ricorrenti laddove sussiste il diritto al silenzio dell’imputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono inammissibili.
1. I motivi sono manifestamente infondati, risultando nella sentenza impugnata sufficientemente spiegate, in perfetta aderenza al disposto normativo che disciplina l’ipotesi di bancarotta contestata e ai principi dettati da questa Corte al riguardo, le ragioni che depongono per la sussistenza del reato sia con riferimento all’aggravamento del dissesto che all’elemento soggettivo richiesto della colpa grave. Anche le censure in punto di determinazione della pena e di diniego delle attenuanti generiche sono aspecifiche.
1.1. Ed invero, la Corte territoriale, a fronte delle deduzioni mosse in appello) che erano sostanzialmente assertive circa la insussistenza di profili di colpa grave addebitabili a (OMISSIS) e (OMISSIS) fondandosi esse esclusivamente sulla circostanza che nonostante le perdite conseguite nel 2009, nel 2010 la situazione economica sarebbe migliorata, forniva adeguata risposta osservando che le perdite, come emergente dalle analisi operate dal curatore, per tutte le annualita’ successive al 2009 erano rilevantissime (fino a toccare Euro 1.160.896,49 nel 2011), senza che venisse contestualmente adottato un piano di risanamento strutturale della societa’ da parte degli imputati e che il minimo miglioramento della situazione per il 2010 e’ un dato del tutto accidentale – e comunque non significativo e rilevante ai fini che occupano in assenza di interventi diretti a ridimensionare il deficit non allegati dalla difesa.
Quanto al dissesto ha precisato che esso fosse conclamato a partire dalla fine dell’esercizio del 2008, ma di fatto in atto dal 2006 – come emergente dalla relazione L.Fall., ex articolo 33, del curatore in cui si da’ atto che gia’ nel 2006 l’Inps aveva proceduto a pignorare i macchinari della societa’ a seguito del mancato pagamento dei tributi -, concludendo che quindi di esso, per la sua evidenza ed irreversibilita’, erano stati ben consapevoli gli imputati in epoca certamente antecedente alla dichiarazione di fallimento (intervenuta solo nel 2012).
Tale impostazione e’ in linea con l’orientamento costante e consolidato di questa Corte, secondo il quale nel reato di bancarotta semplice per mancata tempestiva richiesta di fallimento, di cui alla L.Fall., articolo 217, comma 4, oggetto di punizione e’ l’aggravamento del dissesto dipendente dal semplice ritardo nell’instaurare la concorsualita’, non essendo richiesti ulteriori comportamenti concorrenti (Sez. 5, Sentenza n. 28609 del 21/04/2017, Rv. 270874). Nondimeno, la scelta di ritardare la dichiarazione di fallimento deve essere, in se stessa, determinata da un atteggiamento gravemente colposo (nel reato di bancarotta semplice, la mancata tempestiva richiesta di dichiarazione di fallimento da parte dell’amministratore (anche di fatto) della societa’ e’ punibile se dovuta a colpa grave che puo’ essere desunta, non sulla base del mero ritardo nella richiesta di fallimento, ma. in concreto, da una provata e consapevole omissione, cfr. Sez. 5, n. 18108 del 12/03/2018 – dep. 24/04/2018, Dolcemascolo, Rv. 272823). Nel caso di specie, la Corte territoriale lungi dal far discendere la sussistenza di colpa grave a carico degli imputati dalla mera circostanza del mancato deposito tempestivo della domanda di fallimento, ha piuttosto dato compiuta prova degli elementi da cui desumere, da un lato, la piena conoscenza da parte degli stessi dello stato di decozione in cui versava gia’ da tempo la societa’ di cui erano amministratori, dall’altro, la natura gravemente colposa dell’omissione ascritta.
Elementi da cui si evince come i predetti abbiano potuto adeguatamente rappresentarsi, preventivamente, che la loro scelta di ritardare ben poteva determinare un aggravamento del dissesto (essendo notorio che una esposizione debitoria, piu’ passa il tempo, piu’ aumenta per effetto della produzione degli interessi che continuano a maturare; in tal senso si e’, ad esempio, affermato che l’obbligo del liquidatore della societa’ di chiedere tempestivamente il fallimento della stessa non viene meno quando egli possa comunque rendersi consapevole dell’irreversibile condizione di dissesto e non eserciti il potere di iniziativa fallimentare, prescegliendo, in presenza dell’inevitabile aggravamento della situazione debitoria – per l’aumento degli interessi passivi e la crescente confusione patrimoniale o anche solo, ad esempio, attraverso l’ulteriore accumulo dei costi ordinari di gestione – improbabili vie di recupero o anche la semplice attesa, cfr. Sez. 5, n. 28609 del 21/04/2017, Rv. 270874 – 01; Sez. 5 del 10 dicembre 1999, Terrana, non massimata), essendo palese, nel caso di specie, e quindi conclamata, la irreversibilita’ della decozione, rispetto alla quale peraltro la richiesta di concordato che non approdava ad un esito positivo non costitui’ evidentemente un rimedio (non risulta neppure che sia stata promossa o avviata l’integrazione del capitale sociale, ne’ la difesa ha indicato altri elementi idonei a condurre ad una diversa valutazione, se non il ritenuto ininfluente lieve miglioramento del 2010 intervenuto in ogni caso a fronte di un dissesto oramai conclamato per perdite che nel 2011 toccavano il picco di piu’ di un milione di Euro; miglioramento che, peraltro, come ben mette in luce la corte territoriale, la stessa difesa non imputa a circostanze concrete specifiche che potessero ricondurlo all’adozione di misure volte quanto meno a limitare il dissesto in atto).
La ratio decidendi non e’ quindi attinta dai primi due motivi, che difettano di pertinenza e specificita’ e si rivelano pertanto inammissibili (anche nella parte in cui prospettano genericamente che la revoca del concordato sia dipesa da erronea valutazione dell’immobile conferito trattandosi peraltro di circostanza rimasta affidata alla mera prospettazione difensiva).
1.2. Allo stesso modo dicasi per la doglianza circa l’eccessivita’ della pena irrogata e la mancata concessione delle attenuanti generiche ex articolo 62 bis c.p..
La Corte territorialeta differenza di quanto si assume in ricorso/ha adeguatamente motivato in ordine alle circostanze che hanno portato a concludere nel senso di una determinazione della pena non prossima al minimo edittale e9I della non concessione delle attenuanti generiche, avuto riguardo in particolare sia all’ingente pregiudizio causato al ceto creditorio (stimato in circa dieci milioni di Euro), sia ai diversi precedenti penali, anche specifici, in capo ai due coimputati.
La valutazione del primo giudice, integralmente confermata dalla Corte di Appello, si fonda infatti correttamente sulla oggettiva gravita’ dei fatti accertati, da una parte, e sulla personalita’ degli imputati, dall’altra.
E’ solo il caso di precisare che l’esercizio di facolta’ processuali e del diritto di difesa dell’imputato non puo’ essere valutato come parametro ai sensi dell’articolo 133 c.p. per negare le circostanze attenuanti generiche (cosi’, tra tante, Sez. 3, n. 3396 del 23/11/2016 Ud. (dep. 24/01/2017) Rv. 268927 – 01. Principio affermato anche con riferimento alla sospensione condizionale della pena, la quale, si e’ detto, non puo’ – parimenti – essere negata sol perche’ l’imputato nega ostinatamente l’addebito e sostenga una versione dei fatti smentita dalle altre risultanze istruttorie, in quanto espressione di un insopprimibile diritto di difesa, riflesso del diritto al silenzio, Sez. 5, n. 17232 del 17/01/2020 – dep. 05/06/2020, BOGLIONE FAUSTO, Rv. 27916901, conf. n. 4459/1989, Rv. 18087201).
Se e’ vero infatti che ai sensi dell’articolo 133 c.p., comma 2, nn. 1) e 3), il giudice, in relazione alla concessione o al diniego delle circostanze attenuanti generiche come – in caso affermativo – alla misura della riduzione di pena, deve tenere conto anche della condotta serbata dall’imputato successivamente alla commissione del reato e nel corso del processo, in quanto rivelatrice della sua personalita’ e, quindi, della sua capacita’ a delinquere (Sez. 3 n. 27964 del 19/03/2019, Rv. 276354 – 01, conf. Sez. 6, Sentenza n. 17240 del 1989 Rv. 182794 – 01), e’ altrettanto vero che pero’ cio’ non implica che possano assumere rilievo quei comportamenti strettamente ricollegabili all’esercizio del diritto di difesa e alle facolta’ processuali, che, in quanto tali, non possono essere ritenuti esplicativi della personalita’ e della capacita’ a delinquere.
Fermo restando che, come precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte, il pieno esercizio del diritto di difesa, se faculta l’imputato al silenzio e persino alla menzogna, non lo autorizza, per cio’ solo, a tenere comportamenti processualmente obliqui e fuorvianti, in violazione del fondamentale principio di lealta’ processuale che deve comunque improntare la condotta di tutti i soggetti del procedimento, e la cui violazione e’ indubbiamente valutabile da parte del giudice di merito (nel caso esaminato dalla Corte – Sez. U, Sentenza n. 36258 del 24/05/2012 Rv. 253152 – 01 – ai fini del riconoscimento o meno delle circostanze attenuanti generiche).
Il silenzio serbato dall’imputato non puo’ pertanto in alcun modo essere ritenuto condotta successiva indicativa di capacita’ a delinquere articolo 133 c.p., comma 2, potendosi al piu’, come affermato dalle Sezioni Unite, darsi rilievo ad un atteggiamento del tutto scorretto e sleale, nel quale non potrebbe giammai identificarsi il mero silenzio, costituente una delle modalita’ tipiche di estrinsecazione del diritto di difesa.
Cio’ non toglie che la mancata concessione delle attenuanti generiche possa fondarsi anche sulla constatazione dell’assenza di elementi positivi a tal fine valorizzabili ed in tale ottica si evidenzi il comportamento non collaborativo dell’imputato, potendo una siffatta affermazione essere intesa nel senso che ove posto in essere un atteggiamento diverso esso ben avrebbe potuto essere preso in considerazione; la negazione sul rilievo della mancata collaborazione si risolve piuttosto nella constatazione della mancanza di elementi favorevoli all’imputato.
Ed allora, si puo’ e si deve concludere – pur nella consapevolezza dell’esistenza di precedenti di questa Corte di segno contrario (Sez. 2, n. 28388 del 21/04/2017, Rv. 270339 01; Sez. 4, Sentenza n. 20115 del 04/04/2018, rv. 272747 – 01) – che in tema di circostanze attenuanti generiche, mentre la confessione dell’imputato, tanto piu’ se spontanea e indicativa di uno stato di resipiscenza, puo’ essere valutata come elemento favorevole, ai fini della concessione del predetto beneficio, per contro la protesta d’innocenza – o, si aggiunge, la scelta di non parlare o di non collaborare in qualche modo con l’autorita’ giudiziaria – pur di fronte all’evidenza delle prove di colpevolezza, non possono essere assunte, da sole, come elemento decisivo sfavorevole alla concessione stessa, non esistendo nel vigente ordinamento un principio giuridico per cui le attenuanti generiche debbano essere negate all’imputato che non confessi di aver commesso il fatto o non collabori con l’A.G., quale che sia l’efficacia delle prove di reita’ (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 50565 del 29/10/2015 Ud. (dep. 28/12/2015) Rv. 265592 – 01).
2. Dalle ragioni sin qui esposte deriva la declaratoria di inammissibilita’ del ricorso, cui consegue, per legge, ex articolo 606 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di procedimento, nonche’, trattandosi di causa di inammissibilita’ determinata da profili di colpa emergenti dal ricorso, al versamento, in favore della Cassa delle Ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000,00 in relazione alla entita’ delle questioni trattate.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3000 in favore della Cassa delle ammende.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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