Consiglio di Stato, Sezione seconda, Sentenza 6 agosto 2020, n. 4961.
La massima estrapolata:
Nel processo amministrativo, in presenza di una espressa volontà della parte circa il carattere congiunto del mandato alle liti conferito a più difensori, deve escludersi che ciascuno di essi abbia pieni poteri di rappresentanza processuale, con la conseguenza che il ricorso non è validamente proposto se sottoscritto da uno solo di essi.
Sentenza 6 agosto 2020, n. 4961
Data udienza 23 giugno 2020
Tag – parola chiave: Processo amministrativo – Mandato alle liti – Conferimento a più difensori – Natura congiunta – Volontà espressa – Risvolti applicativi
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9254 del 2007, proposto dal signor Ro. Ga., rappresentato e difeso dagli avvocati Ma. Ca., Se. Dr. e Ca. To., con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via (…),
contro
– la Provincia autonoma di Trento, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Fa. Lo., Ma. Da. Se. e Ni. Pe., con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via (…), nonché dall’avvocato Ma. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
– il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del T.R.G.A. della Provincia di Trento n. 285/2006, resa tra le parti, concernente diniego di sanatoria di opere realizzate sulla sponda di un lago.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Provincia autonoma di Trento;
Viste le memorie e le memorie di replica;
Visto il decreto n. 907 del 5 luglio 2019 con il quale il Presidente della Sezione dichiarava l’appello estinto per perenzione;
Vista l’ordinanza n. 800 del 31 gennaio 2020 con la quale veniva accolta l’opposizione alla perenzione presentata dalla parte appellante;
Viste le note di udienza della Provincia autonoma di Trento versate in atti il 20 giugno 2020;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 23 giugno 2020, il Cons. Antonella Manzione e dati per presenti, ai sensi dell’art. 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, i difensori delle parti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Il signor Ro. Ga. ha impugnato dinanzi al Tribunale Regionale per la Giustizia Amministrativa di Trento il provvedimento di diniego di condono edilizio prot. n. 2836 del 26 maggio 2003 avente ad oggetto un’abitazione in muratura con annesso ripostiglio, darsena, muretti e recinzioni sulla riva del lago di (omissis), ultimati nel mese di ottobre 1972, nonché gli atti ad esso presupposti, tra cui il verbale della Commissione dei Dirigenti generali della Provincia di Trento n. 778 del 24 giugno 2002 e quelli delle Conferenze dei servizi n. 1906 bis e 1906 ter del 12 dicembre 2001. Il diniego era motivato con riferimento ai vincoli di natura paesaggistica ed idraulica, nonché all’insistenza delle opere su demanio lacuale.
2. Il T.R.G.A. – rilevata comunque l’insanabilità degli interventi edilizi – ha respinto l’istanza di sospensione del giudizio presentata dal ricorrente per invocata pregiudizialità del contenzioso instaurato dinanzi al Tribunale Regionale delle Acque Pubbliche di Venezia volto all’accertamento del confine demaniale del lago solo avuto riguardo alla parte dei provvedimenti aventi ad oggetto il ripostiglio, la darsena e le recinzioni; l’ha accolta, invece, con riferimento alla casetta di abitazione, per la quale non è stata rilevata la sussistenza di alcun vincolo paesaggistico-ambientale, rendendosi dunque necessario comprendere l’esatta estensione dei confini lacuali ai fini della decisione. Ha quindi ritenuto il ricorso infondato nel merito in parte qua proprio in ragione della accertata esistenza di ridetto vincolo paesaggistico, di per sé sufficiente a giustificare il provvedimento negativo, nonché la inapplicabilità dell’invocato istituto del silenzio-assenso. Quanto detto, peraltro, non senza avere evidenziato come il ricorrente non abbia mosso alcuna specifica censura in merito, salvo introdurla in una successiva memoria allo scopo di contestare la sopravvivenza del vincolo al regime transitorio di cui all’art. 32 della legge provinciale n. 12 del 1971. Non sussisterebbero, infine, gli invocati usi civici di pesca e di navigazione.
3. Avverso la suddetta sentenza propone appello il ricorrente in primo grado, lamentandone l’erroneità limitatamente alla parte in cui ha inteso confermare i provvedimenti impugnati sull’assunto della sussistenza, di per sé sufficiente a sorreggerne la motivazione, del vincolo paesaggistico-ambientale.
Con un primo articolato motivo di gravame ha dunque contestato la permanenza, quand’anche in precedenza esistente, di ridetto vincolo, non senza aver chiarito l’allegazione implicita di tale prospettazione nei motivi originari di ricorso, ove comunque si è fatto riferimento al regime del silenzio-assenso, che presuppone l’assenza di qualsivoglia tipo di vincolo. Diversamente da quanto affermato dal giudice di prime cure, infatti, l’art. 32 della legge provinciale n. 12 del 6 settembre 1971 avrebbe inciso sul vincolo imposto con decreto ministeriale, secondo il previgente assetto delle competenze, reintrodotto solo con il Piano urbanistico provinciale del 1987.
Con un secondo motivo di gravame ha lamentato invece il contrasto con il giudicato riveniente dalla sentenza del T.S.A.P. n. 17/1983 che ha annullato la delibera della Giunta provinciale n. 9274 del 19 ottobre 1979 con la quale sarebbe stato indebitamente rideterminato unilateralmente il confine lacuale correttamente collocato con la precedente delibera n. 77-466/8II del 9 gennaio 1976 a metri 448,92 sul livello del mare. Da qui la ribadita necessità, onde escludere l’insistenza delle opere sul demanio provinciale ovvero a distanza inferiore ai metri 4 statuiti dalla medesima Giunta provinciale ai fini della inedificabilità assoluta, di attendere l’esito dell’apposito giudizio di accertamento ex art. 295 c.p.c.
4. Si è costituita nel presente giudizio la Provincia autonoma di Trento con atto di stile per chiedere il rigetto dell’appello, salvo eccepire già con memoria in data 7 giugno 2012 la nullità del ricorso in quanto, pur essendo stata la procura ad litem rilasciata a più difensori congiuntamente, esso reca la sottoscrizione di uno solo di essi. Ha eccepito altresì la carenza di legittimazione attiva del ricorrente sul rilievo che egli non avrebbe documentato la proprietà delle particelle su cui insistono gli abusi da sanare, due delle quali (la n. 1299 e la n. 1300, corrispondenti a parte del fabbricato e alla darsena) neppure esisterebbero, in quanto semplicemente “prenotate”, ma mai scorporate in catasto dalla p.f. 5525/30, regolarmente intavolata a nome della Provincia autonoma di Trento, “Ramo acque”.
A seguito dell’accoglimento dell’opposizione al decreto di perenzione n. 907/2019, le parti hanno presentato ulteriori memorie e memorie di replica.
In particolare, l’appellante ha inteso minimizzare l’eccepito vizio di nullità dell’appello, peraltro corretto negli atti successivi al ricorso, dequotandolo a mero errore materiale di stesura. Da ultimo con due memorie, di cui una in controdeduzione, versate in atti rispettivamente in data 22 maggio 2020 e 29 maggio 2020, ha infine insistito sul secondo motivo di gravame, facendone oggetto anche di richiesta di rinvio pregiudiziale nelle more della definizione della controversia instaurata innanzi al giudice delle acque per la esatta delimitazione dei confini lacuali. Essendo stata l’udienza di trattazione innanzi alla Corte di Cassazione differita al 22 settembre 2020 in applicazione della normativa emergenziale, auspica una postergazione a tale data, siccome già avvenuto con riferimento a vicenda di ana tenore (v. ordinanza n. 3399 del 29 maggio 2020). Fa altresì presente di avere avviato fin dal 2012 un tentativo di conciliazione amministrativa con interlocuzioni con le autorità politiche locali (Sindaco e Presidente della Giunta provinciale).
La Provincia Autonoma di Trento dal canto suo, opponendosi al rinvio (v. memoria in data 2 giugno 2020), ha ribadito l’insussistenza di nesso di pregiudizialità, essendo i due giudizi del tutto autonomi, siccome del resto affermato dal giudice di prime cure. Alla ipotetica sussistenza dello stesso è altresì estranea la decisione di cui alla richiamata ordinanza n. 3399/2020, riferita esclusivamente all’applicazione delle norme sull’emergenza sanitaria, essendo in quel procedimento i termini per il deposito delle memorie difensive scaduti nel periodo di sospensione disposto con l’art. 84 del d.l. n. 18/2020. Ha infine precisato che nonostante i tentativi di parte non sussisterebbero i presupposti per poter addivenire a soluzioni conciliative della vertenza in atto.
6. All’udienza pubblica del 23 giugno 2020 la causa è stata trattenuta in decisione con le modalità di cui all’art. 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, dando puntuale atto nel verbale di udienza della insussistenza delle invocate ragioni di opportunità del rinvio in attesa degli esiti del giudizio di Cassazione.
DIRITTO
7. Preliminarmente il Collegio ritiene necessario chiarire la ragione della reiezione dell’istanza di rinvio, di cui si è dato atto nel verbale di udienza.
Non appare sussistente alcuna questione di pregiudizialità, tale da suggerire, piuttosto che imporre, di attendere gli esiti del giudizio di accertamento dei confini lacuali, siccome pretenderebbe parte ricorrente, avuto riguardo ai motivi dell’odierno gravame. Come evidenziato dalla difesa erariale, la relativa controversia, al momento pendente presso la Corte di Cassazione giusta l’avvenuta proposizione di ricorso ex art. 200 del r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775, ha già visto i proponenti, tutti proprietari di terreni sul lato nord-est del lago di (omissis), soccombenti nel primo e nel secondo grado di giudizio. La risalenza nel tempo dell’odierno procedimento, per il quale è già intervenuta una cancellazione dal ruolo ad istanza di parte sulla base della medesima motivazione, rende dunque inopportuno procrastinarne ulteriormente la definizione.
8. Sempre in via preliminare, la Sezione ritiene di poter superare l’eccezione di nullità – rectius, inammissibilità – dell’appello avuto riguardo alla obiettiva circostanza che a fronte di mandato conferito congiuntamente a tre avvocati nominativamente indicati, il ricorso risulta sottoscritto da uno solo di essi. Non è revocabile in dubbio, infatti, che da pacifica giurisprudenza in tema di procura (artt. 83 e 365 c.p.c.) e di mandato (art. 1716, comma 2, c.p.c., disciplinante l’ipotesi di pluralità di mandatari), discende che in presenza di una espressa volontà della parte circa il carattere congiunto del mandato alle liti conferito a più difensori, deve escludersi che ciascuno di essi abbia pieni poteri di rappresentanza processuale, con la conseguenza che il ricorso non è validamente proposto se sottoscritto da uno solo di essi (cfr. ex multis Cass. civ., sez. III, 23 gennaio 2009, n. 1702; id., sez. lav., 14 settembre 2000, n. 12149).
Le esigenze di tutela della effettività della volontà delle parti in tema di rappresentanza, tuttavia, sottese alla richiamata disciplina, non paiono sussistere nel caso di specie, nel quale la prima appare chiaramente esplicitata nel preambolo dell’atto di appello, ove si utilizza la formula del mandato disgiunto, rispetto a quanto poi riportato nella procura, ove, al contrario, la nota endiadi “unitamente e congiuntamente” tende a rafforzare l’esercizio collettivo del mandato ricevuto. Se è vero, dunque, che la procura è il negozio di conferimento del mandato e nel caso di specie la sua formulazione letterale ex se indurrebbe ad optare per la evocata inammissibilità dell’appello, appare plausibile che la relativa stesura sia da ascrivere ad un errore materiale di cui è prova non tanto e non solo la successiva regolarizzazione negli atti sopravvenuti, proprio in quanto tali; bensì più specificamente il rilevato contrasto intrinseco alla materialità formale dell’atto stesso, in cui la procura costituisce il presupposto negoziale legittimante la proposizione dell’appello, ma è pur sempre apposta in calce ad esso.
Egualmente inconferente si palesa l’eccezione di inammissibilità per difetto di legittimazione attiva: nel caso di specie, infatti, il diniego di condono si riferisce inequivocabilmente alle opere insistenti su terreni identificati in atti facendo riferimento alle particelle in contestazione, benché solo “prenotate”, e soprattutto ha come destinatario l’odierno appellante. Il tenore letterale dei verbali delle Conferenze dei servizi sottese al successivo diniego, infatti, ove si menziona sia complessivamente la particella fondiaria 5525/30, sia le particelle edilizie nn. 1299 e 1300, attesta la preoccupazione di una corretta individuazione delle aree ove insistono gli abusi, senza entrare nel merito del significato ulteriore da ascrivere alla (eventuale) improprietà di tali richiami catastali. Valorizzare i quali oltre la portata meramente descrittiva dello stato dei luoghi costituirebbe peraltro, rileva ancora la Sezione, un’indebita integrazione postuma della motivazione degli atti avversati. E’ l’insistenza su demanio idrico a costituire una delle motivazioni dell’impugnato diniego, non la circostanza che essa possa essere desunta anche dal richiamo alla mera prenotazione catastale, presumibilmente in contrasto con la perimetrazione del lago del 1979, di cui il ricorrente contesta in toto la legittimità .
9. Nel merito, la Sezione ritiene l’appello infondato e come tale da respingere.
10. La legge 28 febbraio 1985, n. 47 (art. 33) ha dichiarato non suscettibili di sanatoria le opere in contrasto con i “vincoli imposti da norme statali e regionali a difesa delle coste marine, lacuali e fluviali”.
La Provincia di Trento a sua volta ha recepito tali indicazioni ed ha individuato appositi criteri di valutazione (riferiti alle acque pubbliche ed opere idrauliche di competenza provinciale) per i provvedimenti permissivi ed i pareri ai fini della sanatoria. In particolare, con la legge 18 aprile 1995, n. 5, recante “Definizione agevolata delle violazioni edilizie – condono edilizio” si è demandato, tra l’altro, l’esame della domanda: i) ad una conferenza di servizi alla quale sono chiamati i dirigenti dei servizi provinciali nella cui sfera di competenza rientra il vincolo violato (art. 4); ii) ad una commissione di dirigenti generali competenti per il riesame delle determinazioni non definitive assunte in sede di conferenza di servizi (art. 5).
Con una successiva delibera della Giunta provinciale 13 ottobre 1995, n. 11403, si è espressamente stabilito che non sono condonabili i fabbricati realizzati sul demanio idrico provinciale (d.i.p.), salvo che tale invasione del suolo pubblico risulti di lieve entità .
Afferma il giudice di prime cure che gli atti provinciali intervenuti nel procedimento de quo, dotati peraltro di autonoma lesività, escludono la sanabilità delle opere di cui in controversia (ripostiglio, darsena, recinzioni e muretti) anche per la incompatibilità delle medesime nei confronti di un vincolo paesaggistico-ambientale. Ciascuna delle negative motivazioni di merito inerenti i diversi vincoli citati negli atti impugnati, infatti, è ex se idonea, in ipotesi e se non colpita da profili di illegittimità, a reggere le conseguenti conclusioni negative; sì che il solo vincolo paesaggistico si palesa ostacolo alla sanabilità, pur anche di profilo urbanistico-edilizio. “Ed invero e più nello specifico […], anche il vincolo paesaggistico ambientale ha una sua autonoma esistenza e le risultate legittime considerazioni ad esso inerenti determinano, da sole, esaustivi sostegni logici alle relative risultanze definitorie” (§ 8.1 della sentenza impugnata).
11. D’altro canto, benché non menzionato nominativamente in atti, appare indubbia ed emergente per tabulas la preesistenza del vincolo paesaggistico imposto con decreto ministeriale del 13 febbraio 1959, pubblicato in G.U. 3 marzo 1959, alla zona dei laghi di Levico e di (omissis) sita nell’ambito dei Comuni di (omissis), inclusa nell’elenco delle zone da sottoporre a tutela compilato ai sensi dell’art. 2 della legge n. 1497/1939 sulla protezione delle bellezze naturali. È stato così riconosciuto il notevole interesse pubblico della zona (art. 1, n. 4, l. n. 1497/1939).
Per contro, la sopravvivenza dello stesso all’entrata in vigore della legge provinciale del 1971, è già stata oggetto di valutazione da parte della Sezione, chiamata a pronunciarsi con riferimento a diverse tipologie di condoni, ma afferenti le medesime zone, alle cui conclusioni appare doveroso attenersi.
Contrariamente dunque a quanto sostenuto dall’appellante, il fatto che i vincoli apposti con i decreti ministeriali (nella specie, il richiamato decreto del 13 febbraio 1959) ai sensi della legge n. 1497 del 1939 fossero soggetti a revoca in forza del meccanismo di cui all’articolo 32 della legge provinciale n. 12 del 1971 “non significa affatto che le aree già vincolate in forza di detti decreti restassero sfornite di tutela fino a successivi interventi dell’Amministrazione perché, in virtù dell’articolo 1 della medesima legge provinciale, permaneva il vincolo ex lege per le aree rientranti tra le bellezze naturali. Per queste, fra cui è ricompresa l’area del lago di (omissis), il vincolo in questione sarebbe stato invero automaticamente recepito nel Piano di tutela predisposto in base alla nuova legge provinciale” (cfr. Cons. Stato, sez. II, 20 dicembre 2019, n. 8635).
Tale affermazione, pertanto, cui il Collegio intende aderire, concerne una ben diversa lettura della disciplina transitoria riveniente dal richiamato art. 32 della l.p. n. 12/1971 rispetto a quella propugnata dalla parte. Se è vero, infatti, che nel passaggio delle competenze dallo Stato – e per esso dalle Soprintendenze – alle Province si è inteso salvaguardare le attribuzioni di queste ultime anche nella individuazione dei luoghi da tutelare, individuando nella perimetrazione da effettuare all’interno della specifica pianificazione urbanistica (il P.U.P., appunto) la sedes materiae ove ricollocare i territori già coperti da tutela statale, con il venir meno del vincolo in caso di mancata inclusione; lo è egualmente che ciò non può che valere in prospettiva, mantenendo inalterato lo status quo fino al momento delle esplicite ed eventualmente diverse scelte dei governi locali. La revoca dei vincoli imposti con i precedenti decreti, cioè, sarebbe avvenuta ove al momento dell’adozione del nuovo Piano non vi fossero stati inclusi quelli ancora vigenti sulle località di cui ai numeri 3 e 4 dell’articolo 1 della legge 29 giugno 1939, n. 1497. Il che, peraltro, non è accaduto nel caso di specie, essendo incontestato tra le parti che le sponde del lago in controversia sono state incluse tra gli ambiti vincolati dal P.U.P. del 1987.
12. Vero è che il T.R.G.A. nella sentenza impugnata ritiene di argomentare sulla sopravvivenza del vincolo alla l. n. 12/1971 dalla sua (precedente) inclusione nel P.U.P. di cui alla l. p. 12 settembre 1967, n. 7, ove “sono assegnate alle sponde dei laghi trentini valori paesaggistici più che evidenti” (§ 10.2, lett. f) della motivazione della sentenza impugnata). Ciò è tuttavia da intendere in senso ovviamente sostanzialistico, non formale, stante che la necessità di una (nuova) ricognizione delle aree per le quali mantenere il vincolo è stata prevista dalla normativa del 1971, pur salvaguardando, per quanto sopra chiarito, la preesistenza del pregresso fino a tale adempimento. Priva di rilievo appare pertanto la mancata inclusione dei terreni de quibus negli allegati planimetrici al P.U.P. del 1967, alla luce della prospettata lettura dell’art. 32 della l.p. n. 12/1971: l’eventuale ricognizione della situazione vincolistica di cui alla decretazione statale effettuata dal Piano provinciale del 1967, infatti, antecedente al mutato assetto delle competenze e delle procedure declinato con la legge provinciale del 1971, non poteva costituire attuazione del regime transitorio declinato nella stessa, né in alcun modo condizionarne l’operatività da un punto di vista contenutistico, per l’evidente ragione che era intervenuta prima, e non dopo la sua entrata in vigore.
In sintesi, l’art. 32 della l.p. n. 12/1971 non ha privato di tutela beni di sicura rilevanza paesaggistica, ma ne ha semplicemente modificato il regime di salvaguardia: quelli imposti sulle località di cui ai numeri 3 e 4 dell’art. 1 della legge n. 1497/1939, successivamente non incluse nei territori individuati dal Piano urbanistico provinciale (approvato nel 1987), sarebbero stati revocati a partire da tale data; ferma restando l’applicazione della “nuova” disciplina in materia di tutela del paesaggio che ha spostato la competenza ad esprimersi dalla Soprintendenza alla Provincia.
Posto dunque che dapprima con decreto ministeriale 13 febbraio 1959, antecedente al P.U.P. del 1967, quindi con quello del 1987, confermato in parte qua con la variante del 2000, l’area del lago di (omissis), ricadente in più Comuni, è stata assoggetta al vincolo di tutela paesaggistica, non ne è ipotizzabile alcuna revoca e correttamente gli interventi edilizi ivi realizzati sono stati ritenuti non condonabili.
13. Il vincolo paesaggistico, dunque, è stato istituito prima dell’esecuzione delle opere abusive ed esiste tuttora, sicché in forza delle leggi provinciali n. 16/1985 e n. 5/1995 era necessario per il Comune acquisire il parere favorevole proprio in relazione allo stesso per poter rilasciare, in presenza degli altri requisiti, la concessione edilizia in sanatoria. Parere, al contrario, di segno negativo, sia in ragione della allocazione dei manufatti, sia in ragione della loro concreta configurazione. Emerge infatti chiaramente dal verbale delle Conferenze dei servizi istruttorie il giudizio negativo anche sotto il profilo più propriamente estetico, stante che per il ripostiglio si rimarca il suo porsi “in modo anomalo rispetto all’edificato sia per tipologia che per collocazione”; la darsena realizza un volume “non qualificato sia dal punto di vista tipologico che dei materiali da costruzione”, così da “interrompere in modo particolarmente negativo da un punto di vista paesaggistico il contesto lago-versante determinando grave degrado”; la recinzione infine “si configura come elemento particolarmente negativo”, in quanto a sua volta, con il suo sviluppo su tre lati tramite rete metallica soprastante un muretto in calcestruzzo, “interrompe il contesto ambientale lago-versante”, avuto riguardo peraltro alla fascia più prossima all’acqua, come tale bisognosa di maggior salvaguardia della “sua naturalità “.
Ciò rende irrilevante il motivo di doglianza con il quale si critica l’approccio dubitativo del giudice di prime cure alla individuazione dell’epoca di realizzazione delle opere: non essendo lo stesso in contestazione tra le parti, può considerarsi acquisita la data indicata dal ricorrente, quale che sia stata la metodologia ovvero la valenza attribuita alla stessa in senso probatorio da parte dell’Amministrazione procedente, che al riguardo non ha avanzato rilievi negli atti impugnati. Data per acquisita l’ultimazione delle opere nel mese di ottobre 1972 (v. pag. 8, punto 10 della ricostruzione in fatto dell’atto di appello), essa è sicuramente successiva all’apposizione del vincolo, risalente, per quanto chiarito, al 1959 e di fatto “ribadito”, ancorché in termini generali, con la tutela accordata alle sponde dei laghi con il P.U.P. del 1967.
Quand’anche, a tutto concedere alla tesi di parte ricorrente, volesse darsi invece rilievo alla data di presentazione dell’istanza di condono (5 ottobre 1989), non risulterebbe comunque ovviabile la valutazione dell’autorità preposta alla tutela del vincolo (ratione loci, la Provincia), da collocarsi comunque a valle dell’avvenuta (re)istituzione – rectius, conferma – del vincolo con il sopravvenuto Piano del 1987.
Diversamente da quanto affermato dalle parti appellanti, infatti, l’onere procedimentale di acquisire il prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo in ordine alla assentibilità della domanda di sanatoria permane comunque, a prescindere dall’epoca d’introduzione dello stesso. La giurisprudenza ormai consolidata ritiene infatti che il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo vada acquisito in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui debba essere valutata la domanda di sanatoria e ciò a prescindere dall’epoca d’introduzione del vincolo, corrispondendo alla esigenza di vagliare l’attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente (cfr. Cons. Staqto, A.P. 22 luglio 1999, n. 20; sez. II, 15 luglio 2020, n. 4576; nonché sez. VI, 7 maggio 2015 n. 2297).
Perfino ove si tratti di un vincolo di inedificabilità assoluta, la circostanza invocata dalla parte che esso non può operare in modo retroattivo, neppure lo rende inesistente per il solo fatto che sia sopravvenuto all’edificazione (ciò che paradossalmente porterebbe a ritenere senz’altro sanabili gli interventi, i quali pertanto fruirebbero di un regime più favorevole di quello riservato agli abusi interessati da vincoli sopravvenuti di inedificabilità relativa). “Va dunque applicato lo stesso regime della previsione generale dell’art. 32, comma 1, L. n. 47 del 1985 cit., che subordina il rilascio della concessione in sanatoria per opere su aree sottoposte a vincolo al parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo medesimo” (cfr., Cons. Stato, sez. II, n. 4576/2020, cit. supra; nonché sez. VI, 7 agosto 2015, n. 3909; id., 2 settembre 2019, n. 6035).
14. Né parte appellante può dolersi della circostanza, cui effettivamente il giudice di prime cure ha dedicato ampio spazio nella parte iniziale della motivazione in diritto, che la contestazione del vincolo paesaggistico sarebbe estranea al contenuto del ricorso, in quanto introdotta solo con successiva memoria del 22 maggio 2005. Pur avendo, infatti, il Tribunale stigmatizzato “paternalisticamente” – per mutuare l’espressione del ricorrente – tale lacuna originaria del gravame, ne ha poi vagliato nel merito il contenuto, proprio in adesione agli invocati principi sostanzialistici, ritenendolo comunque infondato.
Infine, e per completezza, il Collegio ritiene inconferente fino al limite della difficile intellegibilità il richiamo alla asserita violazione della disciplina di cui alla conferenza dei servizi contenuta nella l. n. 241/1990, in quanto sede ontologicamente deputata ad esaminare le istanze di tutte le amministrazioni rappresentate: nel caso di specie, infatti, è incontestato tra le parti che ciò sia effettivamente accaduto, non potendosi quindi immaginare che l’autonoma forza portante di ciascun profilo motivazionale, si risolva in un’indebita unitarietà del giudizio tale da impedirne la disamina disgiunta senza lederne la portata “collegiale”. La semplificazione procedurale, infatti, sottesa alla disciplina dell’istituto, finalizzato a far convergere in un unico contesto le varie istanze pubblicistiche rilevanti nei singoli casi, non ne implica certo l’inscindibilità, una volta che il provvedimento finale (id est il verbale della Conferenza) sia stato formalizzato.
15. Quanto sopra detto appare sufficiente a sorreggere il provvedimento impugnato e confermare la sentenza di prime cure.
Da ciò discende la reiezione anche del secondo motivo di appello, con il quale si è ritenuta erronea la valutata non pregiudizialità degli esiti del giudizio di accertamento dei confini lacuali, ad oggi pendente presso la Corte di Cassazione giusta l’avvenuta proposizione di ricorso ex art. 200 del r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775, da parte (tra gli altri) degli odierni appellanti, già soccombenti nel primo e nel secondo grado di giudizio. La doglianza, peraltro, si è tradotta anche nella reiterata richiesta di rinvio, come già chiarito ritenuta non accoglibile (anche) in quanto intersecante lo scrutinio nel merito del procedimento.
La Sezione ricorda come il giudizio presso il giudice specializzato delle acque pubbliche sia stato definito al momento con esito negativo per l’appellante anche con riferimento alla sussistenza del vincolo idraulico e idrico (cfr. sentenza del T.S.A.P. n. 54 del 4 febbraio 2019, confermativa di quella del T.R.A.P. n. 1293 del 5 maggio – 3 giugno 2016), essendosi ritenuta pienamente valida ed efficace la delimitazione dei confini attuata con delibera della Giunta provinciale n. 9274 del 19 ottobre 1979.
Nessuna lesione del giudicato di cui alla sentenza del T.S.A.P. n. 17/1983, dunque, sussisterebbe nel caso di specie, avendo la relativa pronuncia non la generalizzata portata erga omnes che l’appellante vorrebbe attribuirgli; bensì quella circoscritta al territorio del Comune di (omissis), che aveva lamentato in tale specifica sede l’invasione delle proprie competenze.
16. In conclusione, pertanto, il Collegio ritiene che l’appello debba essere respinto e conseguentemente debba essere confermata la sentenza n. 285 del 2006 del Tribunale regionale della giustizia amministrativa del Trentino Alto Adige.
Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c.. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati, avuto riguardo in particolare alla contestata valenza probatoria dei rilievi topografici sottesi alla delibera del 1979, ovvero alla richiesta di accertamento batimetrico, comunque funzionali alla delimitazione del confine demaniale lacuale, sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.
Le spese del grado seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza del T.R.G.A. n. 285/2006.
Condanna l’appellante al pagamento delle spese del presente grado di giudizio in favore della Provincia di Trento, che liquida in complessivi euro 3.000,00 (tremila/00), oltre oneri accessori, se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso dalla Sezione Seconda del Consiglio di Stato con sede in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 giugno 2020, tenutasi con modalità da remoto e con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati:
Raffaele Greco – Presidente
Paolo Giovanni Nicolò Lotti – Consigliere
Giancarlo Luttazi – Consigliere
Francesco Frigida – Consigliere
Antonella Manzione – Consigliere, Estensore
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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