Corte di Cassazione, sezione prima penale, Sentenza 30 aprile 2020, n. 13399.
Massima estrapolata:
In caso di contrasto tra dispositivo e motivazione, non sussiste l’interesse a ricorrere per cassazione qualora il dispositivo sia conforme alla richiesta della parte. (Fattispecie relativa a sentenza d’appello, resa su impugnazione del solo imputato, la quale, pur confutando in motivazione tutti i motivi di gravame, compresi quelli volti a censurare l’eccessiva severità del trattamento sanzionatorio, in dispositivo aveva ridotto la pena a questi inflitta dal giudice di primo grado).
Sentenza 30 aprile 2020, n. 13399
Data udienza 5 febbraio 2020
Tag – parola chiave: Omicidio aggravato – Delitto tentato – Lesioni – Condanna – Circostanze attenuanti equivalenti alle aggravanti – Presupposti – Elementi probatori – Dichiarazioni della persona offesa – Valutazione del giudice di merito – Sentenza della corte di cassazione a sezioni unite 38343 del 2014 – Criteri – Articolo 227 cpp – Determinazione della pena – Parametri – Articoli 62 bis e 133 cp
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MAZZEI Antonella P. – Presidente
Dott. CASA Filippo – rel. Consigliere
Dott. BONI Monica – Consigliere
Dott. MINCHELLA Antonio – Consigliere
Dott. CENTONZE Alessandro – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 29/06/2018 della CORTE APPELLO di PERUGIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. FILIPPO CASA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. TOCCI STEFANO, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
E’ presente l’avvocato (OMISSIS) del foro di PERUGIA in difesa di:
(OMISSIS), che conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. (OMISSIS) veniva rinviato a giudizio per rispondere della contestazione, formulata in via alternativa, dei reati di tentato omicidio aggravato (capo A) e di lesioni personali aggravate (capo B), commessi nei confronti di (OMISSIS) in (OMISSIS), frazione (OMISSIS), in data (OMISSIS).
Accolta la richiesta di rito abbreviato condizionato all’espletamento di perizia medico-legale e alla produzione di documenti, veniva conferito l’incarico alla Dott.ssa (OMISSIS), che veniva sottoposta ad esame nel contraddittorio delle parti con acquisizione dell’elaborato depositato.
All’esito, con sentenza del 7.2.2017, il Tribunale di Perugia in composizione collegiale dichiarava l’imputato colpevole del reato di tentato omicidio di cui al capo A), in esso assorbiti i fatti di cui al capo B), e, con l’esclusione delle aggravanti della premeditazione e dei futili motivi, concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla residua aggravante di cui all’articolo 61 c.p., n. 5), lo condannava, con la riduzione per il rito, alla pena di otto anni di reclusione, con le pene accessorie di legge.
2. Con sentenza del 29.6.2018, la Corte di Appello di Perugia – a fronte di una motivazione chiaramente orientata per la conferma della decisione del primo Giudice, tenuto conto del rigetto di tutti i motivi di gravame -, emetteva un dispositivo (letto in udienza) con il quale riduceva a sei anni di reclusione la pena inflitta all’imputato.
2.1. Ribadiva, in primo luogo, sulla base delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, del referto medico in atti, del contenuto della perizia e dell’esame del perito, nonche’ delle parziali ammissioni rese dal (OMISSIS), la sussistenza – nel caso di specie – dell’animus necandi, in considerazione delle modalita’ della condotta posta in essere dall’aggressore, della pluralita’ e intensita’ dei colpi inferti con la spranga di metallo utilizzata, dell’entita’ delle lesioni provocate e dei distretti corporei attinti (testa e collo).
2.1.1. Osservava la Corte di merito che il perito, pur avendo escluso un “pericolo di vita concreto e attuale”, aveva ritenuto l’azione delittuosa posta in essere dal (OMISSIS), per una serie di indicatori che la contraddistinguevano, nel complesso idonea in astratto a compromettere le funzioni vitali – circolatoria e respiratoria – della vittima.
Il distretto encefalico risultava pesantemente colpito, avendo la (OMISSIS) subito la frattura frontale destra della teca cranica, a dimostrazione della intensita’ con la quale i colpi ripetuti erano stati, in rapida successione, vibrati.
Quanto alla manovra compressiva concernente il collo, attuata prima con una sola mano e poi con la spranga, la sua intensita’ lesiva si desumeva dagli effetti provocati sulla cute, sulle strutture piu’ profonde, sulla laringe e sugli apici polmonari, palesati dalle manifestazioni di disfonia, stridore e tumefazione a carico della vallecula glossoepiglottica di sinistra.
La riferita perdita di coscienza, d’altro canto, confermava l’effettuazione della manovra di cui si e’ detto, sebbene, ad avviso del perito, potesse reputarsi compatibile anche con la reazione emotiva, con lo spavento o con le condizioni di stress determinate dall’aggressione.
Anche l’edema del labbro superiore – continuava la Corte perugina – era frutto dell’azione di compressione esercitata dal (OMISSIS) per impedire alla (OMISSIS) di gridare, poi abbinata alla condotta di occlusione delle narici, praticata contemporaneamente, che attribuiva a quel contegno la potenza lesiva di privare la donna della possibilita’ di respirare.
A fronte del complesso di elementi evidenziati, sintomatici nel dimostrare il dolo di omicidio, la mancata verificazione dell’evento letale, nonostante la presenza di tutte le condizioni per realizzarlo, trovava risposta, secondo i Giudici del gravame, nella circostanza dell’essere il (OMISSIS) stato costretto ad arrestare la sua azione aggressiva dall’arrivo dei vicini di casa della vittima.
2.1.2. Era infondata la doglianza difensiva per cui l’appellante avrebbe modulato, in controllo, l’intensita’ dei colpi sferrati alla (OMISSIS).
Se realmente lo avesse fatto – osservava la Corte distrettuale – egli non si sarebbe munito di un mezzo contundente come una spranga di ferro, ne’ avrebbe scelto di colpire proprio il capo, zona corporea vitale, ne’ avrebbe posto in essere quelle azioni dirette a compromettere la respirazione della vittima, fino a farla svenire.
Non si ravvisava, inoltre, alcuna contraddizione nella motivazione del Tribunale che, nel riconoscere le attenuanti generiche, avrebbe tenuto conto della moderata compromissione del bene tutelato. Invero, dette circostanze erano state concesse sulla base di una serie di elementi atti a dimostrare la ritenuta attenuazione del disvalore del comportamento del (OMISSIS) nell’aggredire i beni giuridici tutelati dalla norma, che non includevano il grado della violenza spiegata dall’imputato nel colpire la persona offesa.
2.1.3. Sul tema dell’elemento soggettivo, escludeva la Corte di merito la sussistenza del dolo eventuale, alla luce dei criteri enunciati dalle Sez. U, nella sentenza n. 38343/2014, posto che il (OMISSIS) aveva agito per realizzare un determinato evento omicidiario, che aveva previsto e voluto e non gia’ meramente accettato nella sua eventuale verificazione.
2.1.4. Negava, poi, la Corte di Appello la ravvisabilita’, nella fattispecie, di un’ipotesi di desistenza, atteso che l’imputato aveva interrotto la sua condotta aggressiva non per una scelta volontaria, ma per la presenza di circostanze esterne (l’arrivo dei vicini) che rendevano rischioso continuare a colpire la (OMISSIS).
Negava anche la sussistenza di un’ipotesi di recesso, in assenza di elementi probatori atti a dimostrarne l’integrazione.
2.1.5. Infine, nessun elemento era dato apprezzare per apportare delle modifiche favorevoli all’imputato in ordine al trattamento sanzionatorio.
3. Ha proposto ricorso l’interessato, per il tramite del difensore, sviluppando i seguenti motivi.
3.1. Erronea applicazione dell’articolo 56 c.p., comma 1, e vizio di motivazione in relazione al giudizio di idoneita’ degli atti.
Violazione dell’articolo 111 Cost., commi 4 e 5 e articolo 227 c.p.p..
La sentenza non forniva risposta alla censura formulata in appello sull’inadeguato apprezzamento dell’intensita’ dei colpi e dell’azione ai fini del giudizio di idoneita’ degli atti di cui all’articolo 56 c.p., comma 1.
La Corte di Appello aveva ritenuto sussistente l’animus necandi riportando le conclusioni rassegnate dal perito nell’elaborato scritto, senza tuttavia fare alcun accenno alla rivisitazione di dette conclusioni fatta dal medico legale nel corso del suo esame, nel senso dell’insussistenza di concreto pericolo di vita nel caso di specie.
Il successivo accenno, contenuto nella decisione, alle dichiarazioni del perito doveva considerarsi travisante, laddove mostrava di recepire l’affermazione secondo la quale la transitoria perdita di conoscenza riferita dalla vittima sarebbe stata alternativamente “compatibile con le azioni violente subite o anche con la reazione emotiva, con lo spavento o con le condizioni di stress determinate dall’aggressione”, sebbene la Dott.ssa (OMISSIS) nel corso del controesame avesse precisato che la causa della perdita di conoscenza era da rinvenirsi proprio nella reazione emotiva individuale.
La pronuncia appellata aveva, pertanto, reiterato l’errore di quella di primo grado nel privilegiare le conclusioni scritte del perito rispetto al tenore del suo esame orale nel contraddittorio delle parti, cio’ in violazione dell’articolo 227 c.p.p. e dell’articolo 111 Cost., comma 4.
Quanto, poi, al pericolo di vita “in astratto” su cui si era dilungato il perito, la valutazione medico legale andava apprezzata alla stregua di uno sconfinamento privo di rilievo scientifico nel campo del giurista, tanto che non era stato oggetto, ne’ avrebbe potuto esserlo, del quesito posto dal Tribunale.
La motivazione era, poi, inficiata da intrinseca contraddizione nella parte in cui, al proposito dichiarato di “valutare l’entita’ delle lesioni”, non aveva fatto seguito l’accurata analisi delle stesse, che risultavano meramente elencate.
Avevano omesso di considerare i Giudici perugini: a) da un lato, come le lesioni alle zone vitali fossero risultate di scarsa rilevanza, tanto che non vi fu pericolo di vita; b) dall’altro, come la lesione di maggiore entita’ – una frattura da scoppio – avesse riguardato non una zona vitale, ma un dito della mano destra.
Doveva stimarsi parziale, in primo luogo, la valutazione delle lesioni al distretto encefalico, essendo state trascurate le considerazioni svolte dal C.T. (OMISSIS) circa la diversita’ delle lesioni verificabili in un contesto circostanziale analogo a quello del caso concreto, ove l’aggressore fosse stato effettivamente mosso da animus necandi e non dal solo intento di ledere; (a) fratture craniche multiple a fronte di un’unica frattura; b) “irradiate”, “infossate”, “esposte”, mentre la frattura rilevata era “composta”; “produttive anche di emorragie e lacerazioni cerebrali” (escluse dal perito).
Anche con riferimento alle lesioni riscontrate sul collo la sentenza era censurabile per essere giunta a conclusioni apodittiche e contraddittorie rispetto agli atti del processo.
Nell’affermare che l’imputato avrebbe tentato il soffocamento diretto della (OMISSIS) occludendone gli orifizi del volto, narici e bocca, nonche’ facendo pressione con la barra metallica sul collo, la Corte di merito aveva trascurato di apprezzare: a) l’assenza di segni su naso e narici, per giustificare la quale aveva compiuto un salto logico-probatorio, affermando che la “introduzione delle dita nel naso della vittima…non aveva lasciato tracce esteriori” (pag. 14 sent.), anziche’ limitarsi a riconoscere che, se mai nella colluttazione si era verificata tale circostanza,si era trattato di un episodio fugace e di irrilevante portata lesiva; b) la circostanza, riferita dalla persona offesa, per cui l’aggressore si era interessato a chiuderle gli occhi, al chiaro fine di non essere riconosciuto.
La dinamica aggressiva ricostruita in sentenza, in realta’, oltre a discostarsi dalle evidenze probatorie, cozzava irrimediabilmente contro la logica e la stessa natura umana. Poiche’, per essere posta in atto, l’agente avrebbe avuto bisogno di almeno 3 o 4 mani, mentre piu’ plausibile si rivelava la versione dell’imputato, il quale aveva riferito di essersi preoccupato di impedire alla donna di riconoscerlo o farlo riconoscere, nonche’ compatibile con la lievissima portata del mero “arrossamento” riscontrato sulla regione centrale del collo, segno evidente di una pressione debole e incompatibile sia con lo schiacciamento della barra contro il collo “con tutto il peso del corpo” riferito dalla persona offesa, sia con la “modesta tumefazione alla vallecula epiglottica sinistra”, segno di un afferramento fugace e solo “monolaterale” inidoneo, quindi, a causare uno strangolamento.
La sentenza risultava carente anche con riguardo al danno laringeo, di cui desumeva l’intensita’ dalla mera esistenza della lesione senza considerare che l’azione non aveva inciso su parametri vitali.
In generale, con riferimento alle lesioni riportate, il difensore del ricorrente si duole che la sentenza in piu’ punti tradisca una sorta di petizione di principio, tratteggiando con formule possibilistiche se non dubitative l’esistenza di circostanze emerse dagli atti.
La Corte distrettuale era, inoltre, incorsa nel travisamento delle dichiarazioni dell’imputato, facendogli dire, diversamente dal vero, che avesse messo le mani al collo della (OMISSIS).
Profili di illogicita’, ancora, presentava la motivazione nel valorizzare una serie di accorgimenti adottati dal (OMISSIS) per non farsi riconoscere dalla vittima, come sintomatici dell’animus necandi, mentre essi sarebbero stati giustificati anche nel caso, egualmente di rilevanza penale, in cui egli fosse stato mosso dal solo intento di ledere.
Anzi, ed al contrario, qualora la volonta’ dell’aggressore fosse stata quella di uccidere, egli non avrebbe avuto alcuna esigenza di non farsi riconoscere dalla vittima, che non avrebbe certo potuto denunciarlo da defunta.
Infine, quanto all’obiezione difensiva incentrata sulla mancata verificazione dell’evento letale pur in presenza di tutte le condizioni atte a realizzarlo, carente e contraddittoria era la motivazione laddove, dapprima, affermava che sarebbe stato l’arrivo dei vicini a interrompere l’azione dell’aggressore, e, in seguito, individuava una causa diversa, ossia il convincimento maturato dall’imputato che la vittima fosse ormai deceduta.
3.2. Erronea applicazione degli articoli 43 e 575 c.p. circa la incompatibilita’ del dolo eventuale con il tentativo. Vizio di motivazione.
La motivazione sul punto doveva considerarsi solo apparente, essendo consistita unicamente nella trasposizione di un passo della sentenza “Espenham” e nell’affermazione, generica ed apodittica, della sussistenza del dolo diretto nel caso concreto.
3.3. Erronea applicazione dell’articolo 56 c.p., comma 3, e vizio di motivazione in ordine alla valutazione della desistenza volontaria.
La contraddittorieta’ processuale dell’arbitraria allegazione operata sulla causa dell’interruzione della condotta – di cui si e’ detto – rivelava l’assoluta mancanza di motivazione circa la valutazione della possibilita’, altamente compatibile con le emergenze probatorie, del verificarsi della perdita di conoscenza in un momento successivo a quello dell’azione, come reazione emotiva al fisiologico crollo di tensione post factum. Dette lacune argomentative rendevano, cosi’, parziale, la motivazione della sentenza in ordine alla valutazione della desistenza dall’azione.
3.4. Mancanza di motivazione in relazione alla regola di giudizio dell'”al di la’ di ogni ragionevole dubbio”, atteso che la sentenza non era riuscita ad escludere in modo convincente le possibili spiegazioni alternative prospettate dalla difesa, tanto con riguardo al giudizio di idoneita’ ex articolo 56 c.p., comma 1, e alla sussistenza del dolo indiretto, quanto con riferimento al giudizio sulla desistenza, del resto compatibili con gli elementi a disposizione per decidere, spesso trascurati nella sentenza impugnata.
3.5. Erronea applicazione dell’articolo 56 c.p., comma 4, e vizio di motivazione in ordine alla valutazione della sussistenza del recesso attivo.
La contraddittorieta’ processuale dell’arbitraria allegazione operata dalla Corte di merito sulla causa interruttiva della condotta delittuosa rivelava la radicale mancanza di motivazione in ordine alla valutazione della possibilita’, altamente compatibile con le emergenze probatorie – e, in particolare, con la circostanza dell’essersi il soggetto passivo del reato difeso ed opposto all’aggressione -, del verificarsi della perdita di conoscenza in un momento successivo a quello dell’azione, come reazione emotiva al crollo di tensione post factum, con consequenziale carenza della motivazione sulla invocata valutazione della volonta’ di impedire l’evento.
3.6. Abnorme valutazione di circostanze insussistenti ai fini del giudizio di cui all’articolo 56 c.p., comma 2. Falsa applicazione degli articoli 69 e 62-bis c.p. al giudizio di cui all’articolo 56 c.p., comma 2, e vizio di motivazione.
A sostegno della ritenuta congruita’ della pena, la Corte di merito aveva valorizzato in modo abnorme l’esclusione, ad opera del primo Giudice, di due delle tre aggravanti contestate, di fatto, riportandole in vita; d’altro canto, la medesima Corte aveva impropriamente e illogicamente richiamato il giudizio di equivalenza delle circostanze, cosi’ confondendo tanto la natura eventuale delle circostanze, quanto la ratio legis, tipica delle attenuanti generiche, di adeguare la pena alla concreta gravita’ del caso.
La sentenza, inoltre, aveva illogicamente limitato la disamina dell’individuazione della pena alla ritenuta non possibilita’ di appiattimento sul massimo della riduzione prevista dall’articolo 56 c.p., senza considerare che la concreta riduzione operata in primo grado si era addirittura attestata sui 3/7 della pena base.
Oltre alla mancata spiegazione sull’entita’ della riduzione operata, la Corte territoriale non aveva nemmeno dato ragione della individuazione di una pena base corrispondente a quella prevista dall’articolo 56 c.p., comma 2 quando la pena stabilita e’ l’ergastolo.
3.7. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli articoli 133, 62-bis e 69 c.p..
Inadeguata e sommaria era la risposta data dalla Corte umbra alla censura, dedotta in appello, sul diniego della prevalenza delle attenuanti generiche, in quanto, in contrasto con il compendio probatorio, era stato dato un rilievo, limitato soltanto alla fase iniziale delle indagini, del contributo dato dal (OMISSIS) con la sua confessione, atteso che quest’ultima era rimasta sino alla fine del processo l’unico elemento a carico dell’imputato; inoltre, non era stato apprezzato il carattere spontaneo della confessione medesima.
Ancora, era stato omesso il riferimento alle altre circostanze evidenziate nell’atto di appello quali: la formale lettera di scuse, sintomatica di resipiscenza; l’incensuratezza; l’assenza di precedenti “di polizia”.
3.8. Violazione dell’articolo 442 c.p.p., comma 2, e vizio di motivazione, atteso che la considerazione della sentenza sulla congruita’ della sanzione all’esito della riduzione operata per la scelta del rito risultava estranea alla premialita’ dello stesso ed apertamente contra legem.
3.9. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’articolo 111 Cost. e articoli 125 e 546 c.p.p. Contrasto tra motivazione e dispositivo. Manifesta illogicita’.
Con dispositivo letto in esito alla camera di consiglio all’udienza del 29.6.2018, la Corte di Appello di Perugia, in parziale riforma della decisione impugnata, aveva ridotto di due anni la pena applicata in primo grado.
Al contrario, nella motivazione del provvedimento risultavano respinti tutti i motivi di appello.
Si registrava, quindi, un palese contrasto tra motivazione e dispositivo, oltre alla violazione dell’onere motivazionale sancito dall’articolo 111 Cost., comma 6 e articolo 546 c.p.p., comma 1, lettera e).
Anche sotto questo profilo, pertanto, la sentenza andava annullata.
4. E’ stata depositata in data 20.1.2020 memoria intitolata “motivi nuovi”, in cui viene ulteriormente sviluppato l’ultimo motivo di ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso va dichiarato inammissibile per le ragioni che seguono.
2. Occorre, preliminarmente, ricordare che, sui limiti del giudizio di legittimita’, la giurisprudenza di questa Corte e’ univoca, avendo ripetutamente affermato che: “Il sindacato del giudice di legittimita’ sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a verificare che la relativa motivazione sia: a) “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non “manifestamente illogica”, ovvero sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non internamente “contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilita’ logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non logicamente “incompatibile” con altri atti del processo, dotati di una autonoma forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilita’, cosi’ da vanificare o radicalmente inficiare sotto il profilo logico la motivazione” (cosi’ Sez. 6, n. 10951 del 15/3/2006, Casula, Rv. 233708 – 01).
E’ stato, piu’ volte, ribadito, che non puo’ integrare il vizio di legittimita’ soltanto una diversa ricostruzione delle risultanze processuali, semmai prospettata in maniera piu’ utile per il ricorrente (Sez. U, n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074 – 01; Sez. 4, n. 4842 del 2/12/2003, dep. 6/2/2004, Elia ed altri, Rv. 229369 01; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794 – 01), dal momento che, come noto, e’ preclusa a questa Corte la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata o l’adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito, perche’ ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacita’ esplicativa.
Queste operazioni trasformerebbero, invero, la Cassazione nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalita’ e di capacita’ di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal Giudice per giungere alla decisione.
2.1. Esaminata in quest’ottica, la motivazione della sentenza impugnata si sottrae alle censure che le sono state mosse, in quanto, scevra da evidenti incongruenze o interne contraddizioni, ha illustrato in modo adeguato le ragioni per le quali ha ritenuto di valorizzare gli elementi probatori – siccome riportati nella superiore esposizione in fatto – atti a suffragare, al di la’ di ogni ragionevole dubbio, la sussistenza del reato di tentato omicidio, aggravato dalla circostanza di cui all’articolo 61 c.p., n. 5), ascritto al (OMISSIS) nelle sue componenti oggettiva e soggettiva e ad escludere la derubricazione dell’accusa originaria nella meno grave fattispecie di lesioni personali, nonche’ qualsiasi ipotesi di desistenza o recesso.
2.2. Il ricorrente, d’altra parte, si e’ limitato a sviluppare, per lo piu’, rilievi di mero fatto in ordine alla ricostruzione e valutazione delle emergenze processuali (in particolare: sulla transitoria perdita di conoscenza della vittima; sulle analisi del perito e del consulente di parte; sull’entita’ delle lesioni; sulla dinamica dell’aggressione; sulla condotta del (OMISSIS); sui motivi dell’interruzione dell’aggressione), rilievi che non sono proponibili in questa sede, atteso che il logico argomentare del Giudice del merito non puo’ essere alterato da una integrale “rilettura” delle evidenze probatorie, magari di equivalente logicita’, ma che non vale, tuttavia, a dimostrare la manifesta illogicita’ della motivazione richiesta, per l’annullamento del provvedimento impugnato su tale punto, dall’articolo 606 c.p.p., lettera e), e cio’ anche dopo la riforma introdotta con la L. 20 febbraio 2006, n. 46 (Sez. 2, n. 19584 del 5.6.2006, Capri ed altri, Rv. 233774).
2.3. In ogni caso, e’ opportuno evidenziare che la sentenza impugnata, in conformita’ dei consolidati principi sanciti da questa Corte (ex multis: Sez. 1, sentenza n. 30466 del 7/7/2011, Miletta ed altro, Rv. 251014), ha correttamente ritenuto il dolo diretto del reato di omicidio (il che implica, all’evidenza, la non configurabilita’ del dolo eventuale e la manifesta infondatezza di quanto in ricorso dedotto al riguardo) in base ad un percorso argomentativo aderente alle risultanze processuali, mettendo in risalto, quali indici sintomatici univocamente convergenti nella direzione della previsione e della volonta’ dell’evento-morte: a) la potenzialita’ dell’arma adoperata (un tubo di ferro); b) la distanza ravvicinata tra aggressore e vittima; c) la direzione dei colpi verso organi vitali (collo e cranio); d) le peculiari modalita’ dell’aggressione, costituite da azione combinata e contestuale posta in essere con il corpo contundente e con la forza delle mani, tese a provocare asfissia tramite compressione del collo; e) la pluralita’ e la violenza dei colpi, documentata, quest’ultima, dall’entita’ delle lesioni (frattura dell’osso frontale; edema del labbro superiore, nonche’ lesivita’ riscontrata al collo, alla laringe e agli apici polmonari, giudicati dal perito indicativi di un’azione asfittica; plurimi esiti cicatriziali sul cranio); f) la momentanea perdita di conoscenza della vittima.
2.3.1. Manifestamente infondato, sul tema, e’ il rilievo difensivo – basato (anche) sulle conclusioni del consulente di parte e speso a riprova della pretesa insussistenza del tentativo di omicidio – circa la esclusione di una situazione di “concreto” pericolo di vita per la persona offesa.
In materia di tentato omicidio, infatti, cio’ che ha valore determinante per l’accertamento della sussistenza dell’animus necandi, e’ l’idoneita’ dell’azione, la quale, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, va apprezzata ex ante nella sua concreta obiettivita’, tenendo conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalita’ attuative, senza essere condizionata dagli effetti raggiunti, perche’, sotto questo aspetto, essa, per non aver conseguito l’evento, sarebbe sempre inidonea nel reato tentato, per cui la stessa figura del tentativo non sarebbe giuridicamente concepibile: il giudizio di idoneita’ dell’azione non e’, pertanto, una diagnosi, bensi’ una prognosi, anche se formulata ex post, ma con riferimento alla situazione cosi’ come presentatasi al colpevole al momento dell’azione, in base alle condizioni umanamente prevedibili nel caso particolare (fra molte, Sez. 1, n. 2509 del 28/4/1989, dep. 22/2/1990, Rv. 183428; Sez. 1, n. 1365 del 2/10/1997, dep. 5/2/1998, Rv. 209688).
Alla luce del consolidato principio ora richiamato, pertanto, non assume rilievo, nel caso di specie, che il perito e il consulente tecnico abbiano escluso un “concreto” pericolo di vita per la vittima dell’aggressione e che le lesioni riscontrate sul corpo della medesima non siano state valutate di assoluta gravita’, essendo, viceversa, rilevante, come correttamente messo in risalto dai Giudici di merito, l’idoneita’ ex ante dell’azione lesiva.
2.3.1.1. Inoltre, va giudicato aspecifico, in parte qua, il motivo afferente alla qualificazione giuridica, laddove, nell’affrontare il tema del pericolo di vita (in concreto) e dell’entita’ delle lesioni, omette completamente di considerare la condotta attiva di difesa posta in essere dalla (OMISSIS), resa manifesta dalla frattura al pollice della mano destra, subita dalla donna per aver cercato di proteggersi dal primo colpo sferrato dal (OMISSIS) con la barra metallica; e’ evidente, siccome compiutamente emerso dagli atti e dalle sentenze di merito, ma trascurato dal ricorrente, che l’entita’ delle lesioni di non particolare gravita’ sia dovuta anche a causa delle manovre di difesa attuate dalla vittima mentre veniva aggredita.
Le ulteriori censure sul punto, oltre a non incidere sul nucleo essenziale del ragionamento della Corte di Perugia, restano su un piano meramente fattuale, rivalutativo e non di rado congetturale.
3. Manifestamente infondati sono i motivi sulla desistenza e sul recesso.
3.1. Quanto al primo, deve ribadirsi che nei reati di danno a forma libera – qual e’ certamente l’omicidio – la desistenza puo’ aver luogo solo nella fase del tentativo incompiuto, non essendo configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento, come, appunto, accaduto nella vicenda in esame (fra le piu’ recenti, Sez. 5, n. 18322 del 30/1/2017, De Rossi, Rv. 269797 – 01).
3.2. Quanto al recesso attivo, la decisione di porre in essere una diversa condotta finalizzata a scongiurare l’evento deve essere, come noto, il frutto di una scelta volontaria dell’agente, non riconducibile ad una causa indipendente dalla sua volonta’ o necessitata da fattori esterni (Sez. 3, n. 17518 del 28/11/2018, dep. 24/4/2019, T., Rv. 275647 – 01), sicche’ correttamente detto recesso e’ stato escluso nel giudizio di merito, atteso che il (OMISSIS) ha interrotto la sua azione lesiva al momento dell’arrivo dei vicini di casa e non per sua spontanea volonta’.
La prospettata possibilita’ del verificarsi della perdita di conoscenza da parte della vittima in un momento successivo a quello dell’azione costituisce una mera congettura che contribuisce a rendere inammissibile il motivo.
4. Manifestamente infondate sono le censure sul trattamento sanzionatorio.
Del tutto errato e’ il rilievo per cui la Corte perugina sarebbe partita da una pena-base di dodici anni di reclusione, corrispondente a quella prevista dall’articolo 56 c.p., comma 2, quando la pena stabilita e’ quella dell’ergastolo (in realta’, dispone la norma citata che la pena, in questo caso, deve essere “non inferiore” a dodici anni di reclusione, mentre il limite edittale massimo resta quello di ventiquattro anni).
E’ sufficiente esaminare la decisione di primo grado per comprendere che la pena-base e’ stata fissata – una volta elisa l’aggravante ex articolo 61 c.p., n. 5 dalle attenuanti generiche equivalenti – nel minimo edittale (ventuno anni di reclusione) previsto per l’omicidio volontario consumato; sulla pena di ventuno anni e’ stata applicata la riduzione per il tentativo in una misura superiore a un terzo, ma inferiore a due terzi, pervenendosi a una pena di dodici anni; infine, e’ stata applicata la riduzione di un terzo per il rito speciale ad otto anni (ridotta a sei nel dispositivo della pronuncia di secondo grado).
Eccentrica e’ la censura per cui la Corte distrettuale avrebbe “riportato in vita” le due aggravanti escluse nel primo giudizio (premeditazione e futili motivi), atteso che la mancata applicazione nella massima estensione della riduzione operata per il tentativo e’ stata ragionevolmente spiegata in base alla rilevanza oggettiva del fatto e agli effetti scaturitine.
Del tutto priva di fondamento, infine, e’ la censura sulla inadeguatezza della motivazione a proposito del diniego della concessione delle attenuanti generiche con carattere di prevalenza, viceversa correttamente giustificato dai Giudici dell’appello per la particolare violenza che ha caratterizzato le modalita’ attuative del reato di tentato omicidio.
5. Manifestamente infondato e’ anche il motivo con cui ci si duole della violazione dell’articolo 442 c.p.p., comma 2, e si deduce il vizio di motivazione, in quanto, se e’ vero che la riduzione di pena prevista dalla citata disposizione, per il suo carattere premiale ed in quanto assolutamente disancorata da ogni apprezzamento concernente il “reato” oppure il “reo”, non puo’ essere ricondotta ne’ alla categoria delle circostanze attenuanti ne’ a quella delle diminuenti in senso tecnico-giuridico (Sez. 5, n. 55807 del 3/10/2018, Piras, Rv. 274622 – 01), e’ altrettanto vero che, essendo computata all’esito della determinazione del trattamento sanzionatorio, non puo’ non essere valutata nel giudizio complessivo di “congruita’” della pena conclusivamente inflitta.
6. Inammissibile per carenza di interesse e’, infine, l’ultimo motivo di ricorso, ribadito nella memoria illustrativa successivamente depositata.
E’ indubbiamente fondato il rilievo di contraddittorieta’ fra dispositivo e motivazione, in quanto nel primo, in assenza di impugnazione del P.M. sul trattamento sanzionatorio, si riduce a sei anni di reclusione la pena (di otto anni) applicata in primo grado, mentre nella seconda si confutano tutti i motivi di gravame, in senso chiaramente confermativo della decisione appellata.
Dunque, vi sarebbe carenza assoluta di motivazione nella decisione di appello sulla riduzione della pena.
Tuttavia, nel caso in esame non puo’ ravvisarsi un interesse del ricorrente a far valere la contraddizione e la carenza motivazionale rilevate.
Sul punto, va richiamato il condiviso orientamento di questa Corte, secondo il quale, mentre e’ certo che debba essere sempre il criterio della prevalenza del dispositivo letto in udienza sulla motivazione a guidare l’interpretazione della sentenza dibattimentale (in quanto il dispositivo costituisce l’atto con il quale il giudice estrinseca la volonta’ della legge nel caso concreto, mentre la motivazione ha una funzione strumentale: fra molte, Sez. 6, n. 7980 dell’1/02/2017, Esposito, Rv. 269375 – 01; Sez. 6, n. 19851 del 13/4/2016, P.G. in proc. Mucci, Rv. 267177 – 01), e’ da escludere, invece, che un tale contrasto possa sempre essere dedotto come motivo di ricorso per cassazione: in particolare, il contrasto non e’ impugnabile se il dispositivo e’ conforme alla richiesta del soggetto processuale che si duole della motivazione, stante la carenza di un concreto e attuale interesse (Sez. 5, n. 2674 del 09/05/2000 Del Mastro Rv. 216546 – 01; Sez. 5, n. 2042 del 22/01/1997 Buscemi Rv. 208672 – 01).
Interesse, concreto e attuale, che nella vicenda in esame palesemente non sussiste, atteso il beneficio derivato al ricorrente dal dispositivo contrastante con la motivazione in termini di riduzione (sensibile) della pena.
7. Per tutte le esposte considerazioni il ricorso va dichiarato inammissibile, dal che consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in assenza di ipotesi di esonero, di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si stima equo indicare in Euro tremila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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