Consiglio di Stato, Sezione sesta, Ordinanza 10 gennaio 2020, n. 247
La massima estrapolata:
Una disposizione nazionale che si limitasse ad autorizzare, in modo del tutto generico ed astratto, il ricorso ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, non soddisfarebbe i requisiti oggettivi. Anzi, una disposizione di tal genere, di natura puramente formale, non solo non consentirebbe di stabilire criteri oggettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali rapporti: a) risponda veramente ad un’esigenza reale; b) sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito; c) sia necessario a tal fine. Una disposizione siffatta sarebbe pure, essa stessa, elusiva d’ogni obbligo e di per sé fonte di ogni abuso sul punto, oltreché fortemente discriminatoria.
Ordinanza 10 gennaio 2020, n. 247
Data udienza 12 dicembre 2019
REPUBBLICA ITALIANA
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
ORDINANZA
sui ricorsi riuniti
A) – NRG 8543/2019, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Gr. e Fe. Di., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia,
contro
la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero dell’istruzione dell’Università e della ricerca e l’Università degli studi di Perugia, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, tutti rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
B) – NRG 8545/2019, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avv.ti Gi. Gr. e Fe. Di., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero dell’istruzione dell’Università e della ricerca e l’Università degli Studi Perugia, come sopra rappresentati e difesi e domiciliati per legge;
C) – NRG 8549/2019, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Gr. e Fe. Di., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia,
contro
la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero dell’istruzione dell’Università e della ricerca e l’Università degli Studi Perugia, come sopra rappresentati e difesi e domiciliati per legge;
per la riforma
della sentenza del TAR Umbria n. -OMISSIS-/2019, resa tra le parti e concernente a) – l’impugnazione avverso le note prot. n. 27685 (-OMISSIS-) e n. 27685 dell’11 aprile 2018 (-OMISSIS-) e della nota prot. n. 30114 del 19 aprile 2018 (-OMISSIS-), con le quali l’Ateneo intimato ha respinto le istanze degli odierni appellanti, quali ricercatori universitari a tempo determinato, per l’attivazione di procedure di chiamata volte all’assunzione a tempo indeterminato ai sensi dell’art. 20, co. 1 del D.lgs. 75/2017; b) – l’impugnazione della circolare n. 3/2017 adottata dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione a tal riguardo; c) – l’accertamento del diritto degli appellanti medesimi di esser assunti a tempo indeterminato come ricercatori, nonché del diritto di essere sottoposti alla procedura di valutazione per l’inquadramento nel ruolo dei professori associati ai sensi dell’art. 24, co. 5 della l. 240/2010;
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle Amministrazioni intimate;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore all’udienza pubblica del 12 dicembre 2019 il Cons. Silvestro Maria Russo e uditi altresì, per le parti, l’avv. Dinelli e l’Avvocato dello Stato Alessandro Jacoangeli;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
I dottori -OMISSIS-, -OMISSIS- ed -OMISSIS-, già assegnisti di ricerca da vari anni, dichiarano d’essere ricercatori a tempo determinato in base a quanto stabilito dall’art. 24, co. 3, lett. a) della l. 30 dicembre 2010 n. 240 presso l’Università degli studi di Perugia, in vari settori scientifico-disciplinari.
Essi rendono d’aver chiesto a detta Università di attivare i procedimenti di chiamata, volti alla loro assunzione a tempo indeterminato, ai sensi dell’art. 20, co. 1 del D.lgs. 25 maggio 2017 n. 75. Con le note dell’11 e del 19 aprile 2018 (meglio indicate in premessa), l’Università di Perugia ha tuttavia respinto la richiesta del dott. -OMISSIS- e consorti, in quanto, anche in base alla circolare della PCM n. 3 del 23 novembre 2017, il procedimento di cui al citato art. 20 in nulla ha innovato nel rapporto d’impiego di professori e ricercatori universitari. Pertanto, il dott. -OMISSIS- e consorti, ciascuno per proprio conto, hanno proposto separati ricorsi al TAR Umbria contro i testé citati provvedimenti, contestandone l’illegittimità delle risposte, anche per violazione della direttiva n. 1999/70/CE.
L’adito TAR, con sentenza n. -OMISSIS- del 20 marzo 2019 e previa riunione dei tre citati ricorsi, li ha respinti, sicché il dott. -OMISSIS- e consorti hanno proposto separati, ma in realtà simili appelli avanti a questo Consiglio di Stato, riproducendo le loro posizioni di partenza e ribadendo, tra le altre cose, i profili d’illegittimità dell’interpretazione resa dal Giudice di primo grado.
Sulla presente controversia il Collegio ritiene di sollevare avanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 267 del TFUE, la questione pregiudiziale d’interpretazione dell’art. 29, co. 2, lett. d) e co. 4 del decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81 e dell’art. 36, commi 2 e 5 del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, nonché dell’art. 24, commi 1 e 3 della legge 30 dicembre 2010 n. 240, nei termini che di seguito saranno illustrati nella forma suggerita dalla “Nota informativa riguardante le domande di pronuncia pregiudiziale da parte dei giudici nazionali” n. 2011/C 160/01 della Corte di Giustizia stessa.
I. – Oggetto della controversia.
I.1. – I dottori -OMISSIS-, -OMISSIS- ed -OMISSIS-, già da tempo assegnisti di ricerca, dichiarano: a): d’essere da vari anni ricercatori a tempo determinato ex art. 24, co. 3, lett. a) della l. 240/2010; b) di prestar servizio nell’Università degli studi di Perugia; c) d’aver fruito della proroga biennale dell’incarico, sancita da quest’ultima norma; d) d’esser in servizio già alla data d’entrata in vigore della legge 7 agosto 2015 n. 124.
Il dott. -OMISSIS- e consorti, in tale loro veste e ciascuno per proprio conto, hanno domandato al Rettore, al Direttore generale ed al Direttore dei loro rispettivi Dipartimento di detta Università l’attivazione del procedimento per la chiamata, volto alla loro assunzione a tempo indeterminato, ai sensi dell’art. 20, co. 1 del decreto legislativo 25 maggio 2017 n. 75. Con le note emanate tra l’11 ed il 19 aprile 2018, l’Università di Perugia ha respinto le richieste del dott. -OMISSIS- e consorti, in quanto, in base alla circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri n. 3 del 23 novembre 2017 (sulla stabilizzazione del precariato presso le Amministrazioni pubbliche), la disciplina dell’art. 20 del D.lgs. 75/2017 nulla ha innovato nel rapporto d’impiego di professori e ricercatori universitari, il cui rapporto di diritto pubblico non soggiace alle procedure di stabilizzazione del precariato.
I.2. – Contro tal statuizione e la circolare n. 3/2017, il dott. -OMISSIS- e consorti si son gravati, con tre distinti ma simili ricorsi, innanzi al TAR Umbria, deducendo in punto di diritto come il citato art. 20 non avesse affatto escluso i ricercatori universitari a tempo determinato da detta procedura di stabilizzazione del precariato, in caso contrario tal norma dovendo esser considerata inficiata da vizi d’illegittimità costituzionale ed eurounitaria (in particolare, per violazione dell’Accordo quadro di cui alla direttiva n. 1999/70/CE).
Il TAR Umbria, con sentenza n. -OMISSIS- del 20 marzo 2019, ha riunito i predetti tre ricorsi e ha rigettato la pretesa del dott. -OMISSIS- e consorti, perché, anche alla luce del parere di questo Consiglio di Stato dell’11 aprile 2017 (affare n. 00423 del 2017), la procedura di cui all’art. 20, co. 1 del decreto n. 75 costituisce una rilevante eccezione al principio del concorso pubblico, l’inderogabilità del quale è stata sempre sancita dalla Corte costituzionale e dalla giurisprudenza del lavoro ed amministrativa. Pertanto detta procedura si deve intendere come uno strumento eccezionale, tant’è che soggiace, oltre ai principi di ragionevolezza e di proporzionalità, ai limiti programmatori e finanziari valevoli per tutto il pubblico impiego.
Del resto, l’art. 20, pur se non escludendoli in modo espresso dal novero dei propri destinatari, è comunque inapplicabile ai ricercatori universitari a tempo determinato, il cui rapporto è regolato dalle specifiche norme per l’Università e la ricerca scientifica.
Tutto ciò non sconta sospetti d’illegittimità costituzionale o di contrasto con la normativa UE, tant’è che la giurisprudenza della CGUE consente soltanto limitate applicazioni dell’Accordo quadro al settore della funzione pubblica.
II – Il presente giudizio d’appello e posizione delle parti.
II.1. – Il dott. -OMISSIS- e consorti hanno dunque proposto appelli separati contro la sentenza n. -OMISSIS-/2019, deducendone l’erroneità perché :
A) – a differenza di quanto asserisce il primo Giudice, non è vero che l’art. 20, commi 9 e 10 del D.lgs. 75/2015 annoveri i ricercatori universitari a tempo determinato tra i soggetti comunque esclusi dalla stabilizzazione del precariato -prova ne sia l’art. 29, co. 2, lett. d) del D.lgs. 81/2015, il quale, anzi e nel porre le regole generali sui rapporti di lavoro a tempo determinato, non esclude espressamente i predetti ricercatori universitari di cui all’art. 24, co. 3 della l. 240/2010- e tutto ciò non è smentito né dalla modifica apportata dall’art. 22, co. 16 del D.lgs. 75/2015 all’art. 3 del D.lgs. 165/2001 (precisando tal ultima disposizione, ad avviso degli appellanti, il mero mantenimento di tutte le vigenti norme sul rapporto d’impiego dei docenti e dei ricercatori universitari e l’estraneità di essi al sistema del lavoro subordinato pubblico c.d. “contrattualizzato”), né dalla formulazione del predetto art. 20 (la quale, riferendosi alla possibilità per tali Amministrazioni di assumere precari “a tempo indeterminato” e non soltanto “con contratti a tempo indeterminato”, riguarda tutti i precari, pure i pubblici impiegati “non contrattualizzati” e, dunque, i ricercatori universitari a tempo determinato), né dagli atti parlamentari inerenti allo schema di decreto, né, infine, dal divieto di nuove assunzioni di ricercatori a tempo indeterminato (che, in base ai nuovi compiti assegnati loro dall’art. 6 della l. 240/2010, non ne implica affatto la trasformazione del loro ruolo in uno ad esaurimento), risolutivo, quindi, appalesandosi l’incostituzionale eccesso di delega legislativa rinvenibile nel citato art. 22, co. 16 poiché non si rinviene nella legge di delegazione n. 124/2015 alcun’autorizzazione ad ampliare, mercé l’inserzione dei ricercatori a tempo determinato in una di esse, l’ambito delle categorie degli impiegati pubblici a regime di diritto pubblico;
B) – il TAR non ha colto, dichiarando manifestamente infondate le relative censure, come l’art. 20, co. 1 del D.lgs. 75/2015, qualora fosse reputato inapplicabile ai ricercatori a tempo determinato, si porrebbe in contrasto cogli artt. 2 (tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità ), 3 (uguaglianza formale e sostanziale di tutti), 4 (riconoscimento a tutti i cittadini del diritto al lavoro, con obbligo per la Repubblica di promuovere le condizioni che rendano effettivo tal diritto), soprattutto a causa del diverso trattamento, ben più favorevole, verso i ricercatori precari in servizio presso gli Enti di ricerca (per i cui rapporti valgono le regole di stabilizzazione), nonostante non si ravvisi alcuna seria differenza tra la loro e l’attività svolta dai predetti ricercatori universitari;
C) – l’esclusione di tali ricercatori a tempo determinato dalla stabilizzazione manifesta la violazione pure dell’art. 9 (per cui la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica) e dell’art. 33, I co., Cost. (libertà delle arti e delle scienze e del loro insegnamento), non potendo essi esercitare pienamente la loro libertà di ricerca a causa della precarietà del rapporto di lavoro, pur se sottoposti a varie prove selettive.
II.2. – Si son costituiti nel giudizio d’appello la Presidenza del Consiglio dei ministri ed il MIUR, concludendo per l’infondatezza del ricorso in esame. Resiste in giudizio pure l’Università degli studi di Perugia, concludendo per il rigetto dell’appello. All’udienza pubblica del 12 dicembre 2019 e su conforme parere delle parti, i ricorsi in esame sono assunti insieme in decisione dal Collegio.
II.3. – I tre appelli in epigrafe, in quanto rivolti contro la stessa sentenza del TAR e nella misura in cui esprimono censure d’identico tenore, vanno riuniti e contestualmente decisi.
Deve però il Collegio sospendere, allo stato, ogni decisione definitiva sulla controversia.
Per vero, gli appellanti deducono, tra l’altro anche nella memoria conclusiva, l’esistenza di svariati dubbi circa la compatibilità della disciplina dei contratti di ricercatore a tempo determinato previsti dalla l. 240/2010 con il diritto europeo e con la previsione dell’art. 20 del D.lgs. 75/2017, ove detta norma non fosse ritenuta loro applicabile. Sicché, a loro avviso, questo Consiglio dovrebbe operare un rinvio pregiudiziale alla CGUE, sottoponendole il complesso di quesiti enunciati e che formano, come meglio si dirà appresso, oggetto della presente rimessione.
III – Le fonti comunitarie che disciplinano la fattispecie.
III.1. – L’art. 155 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea prevedeva che:
“1. Il dia fra le parti sociali a livello dell’Unione può condurre, se queste lo desiderano, a relazioni contrattuali, ivi compresi accordi.
2. Gli accordi conclusi a livello dell’Unione sono attuati secondo le procedure e le prassi proprie delle parti sociali e degli Stati membri o, nell’ambito dei settori contemplati dall’articolo 153 e, a richiesta congiunta delle parti firmatarie, in base ad una decisione del Consiglio su proposta della Commissione. Il Parlamento europeo è informato. //// Il Consiglio delibera all’unanimità allorché l’accordo in questione contiene una o più disposizioni relative ad uno dei settori per i quali è richiesta l’unanimità a norma dell’articolo 153, paragrafo 2”.
III.2. – Su questa base pattizia fu assunta la citata direttiva n. 1999/70/CE, pubblicata nella G.U.C.E. n. L 175 del 10 luglio 1999 ed entrata in vigore lo stesso giorno.
Nei suoi “considerando”, la direttiva precisò, per quanto qui rileva, che:
– (3) il punto 7 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori stabilisce, tra l’altro, che la realizzazione del mercato interno deve portare ad un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori nella Comunità europea. Tale processo avverrà mediante il ravvicinamento di tali condizioni, che costituisca un progresso, soprattutto per quanto riguarda le forme di lavoro diverse dal lavoro a tempo indeterminato, come il lavoro a tempo determinato, il lavoro a tempo parziale, il lavoro interinale e il lavoro stagionale;
– (14) le parti contraenti hanno voluto concludere un accordo quadro sul lavoro a tempo determinato che stabilisce i principi generali e i requisiti minimi per i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato; hanno espresso l’intenzione di migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo l’applicazione del principio di non discriminazione, nonché di creare un quadro per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato;
– (15) l’atto appropriato per l’attuazione dell’accordo quadro è costituito da una direttiva ai sensi dell’articolo 249 del trattato; tale atto vincola quindi gli Stati membri per quanto riguarda il risultato da raggiungere, ma lascia ad essi la scelta della forma e dei mezzi.
III.3. – Ebbene, scopo della direttiva fu, come chiari il suo art. 1, di “… attuare l’accordo quadro (…), che figura nell’allegato, concluso (…) fra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale (CES, CEEP e UNICE)”. Il successivo art. 2 previde che: “gli Stati membri mettono in atto le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva al più tardi entro il 10 luglio 2001 o si assicurano che, entro tale data, le parti sociali introducano le disposizioni necessarie mediante accordi. Gli Stati membri devono prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti dalla presente direttiva. Essi ne informano immediatamente la Commissione. //// Gli Stati membri possono fruire di un periodo supplementare non superiore ad un anno, ove sia necessario e previa consultazione con le parti sociali, in considerazione di difficoltà particolari o dell’attuazione mediante contratto collettivo. Essi devono informare immediatamente la Commissione di tali circostanze…”.
Il contenuto sostanziale della direttiva è racchiuso, stante la sua genesi pattizia, in detto Accordo quadro, di cui si riportano di seguito le norme rilevanti per la presente controversia.
Ai sensi della clausola 1) dell’Accordo quadro, l’obiettivo di quest’ultimo è :
“a) – migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione; b) – creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”.
La clausola 2), punto 1, dell’Accordo quadro dispone che: “Il presente accordo si applica ai lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato membro”.
La clausola 3) dell’accordo quadro recita: “1. Ai fini del presente accordo, il termine < lavoratore a tempo determinato> indica una persona con un contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro e il lavoratore e il cui termine è determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico.
2. Ai fini del presente accordo, il termine “lavoratore a tempo indeterminato comparabile” indica un lavoratore con un contratto o un rapporto di lavoro di durata indeterminata appartenente allo stesso stabilimento e addetto a lavoro/occupazione identico o simile, tenuto conto delle qualifiche/competenze. //// In assenza di un lavoratore a tempo indeterminato comparabile nello stesso stabilimento, il raffronto si dovrà fare in riferimento al contratto collettivo applicabile o, in mancanza di quest’ultimo, in conformità con la legge, i contratti collettivi o le prassi nazionali”.
La clausola 4) dell’Accordo quadro (“Principio di non discriminazione”), prescrive che: “1. Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive. (…) //// 4. I criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive”.
La clausola 5) dell’Accordo quadro (“Misure di prevenzione degli abusi”) recita: “1. Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti…”.
IV.4. – La Raccomandazione della Commissione dell’11 marzo 2005 n. 2005/251/CE, riguardante la Carta europea dei ricercatori e un codice di condotta per l’assunzione dei costoro, previde, per quanto qui rileva, nel suo preambolo:
“… – (6) Si dovrebbero introdurre ed attuare nuovi strumenti per lo sviluppo della carriera dei ricercatori, contribuendo in questo modo al miglioramento delle prospettive di carriera per i ricercatori in Europa; … – (9) Gli Stati membri dovrebbero sforzarsi di offrire ai ricercatori dei sistemi di sviluppo di carriera sostenibili in tutte le fasi della carriera, indipendentemente dalla loro situazione contrattuale e dal percorso professionale scelto nella R& S, e impegnarsi affinché i ricercatori vengano trattati come professionisti e considerati parte integrante delle istituzioni in cui lavorano…”
E nelle raccomandazioni, la Commissione precisò che “… 2) Gli Stati membri si impegnino a compiere, laddove necessario, i passi fondamentali per garantire che i finanziatori e i datori di lavori dei ricercatori perfezionino i metodi di assunzione e i sistemi di valutazione delle carriere al fine di istituire un sistema di assunzione e uno sviluppo professionale più trasparenti, aperti, equi e accettati a livello internazionale, come presupposto per un vero mercato europeo del lavoro per i ricercatori…”.
IV. – Norme interne d’interesse nella presente controversia.
IV.1. – La legge 30 dicembre 2010 n. 240, recante “Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario” (in Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana del 14 gennaio 2011, supplemento ordinario n. 10), nel testo in vigore dal 1° gennaio 2018, all’art. 24 (“Ricercatori a tempo determinato”), recita: “1. Nell’ambito delle risorse disponibili per la programmazione, al fine di svolgere attività di ricerca, di didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti, le università possono stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo determinato. Il contratto stabilisce… le modalità di svolgimento delle attività di didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti nonché delle attività di ricerca.
2. I destinatari sono scelti mediante procedure pubbliche di selezione disciplinate dalle università con regolamento ai sensi della legge 9 maggio 1989, n. 168, nel rispetto dei principi enunciati dalla Carta europea dei ricercatori,…e specificamente dei seguenti criteri:
a) pubblicità dei bandi sulla Gazzetta Ufficiale, sul sito dell’ateneo e su quelli del Ministero e dell’Unione europea; specificazione del settore concorsuale e di un eventuale profilo esclusivamente tramite indicazione di uno o più settori scientifico-disciplinari; informazioni dettagliate sulle specifiche funzioni, sui diritti e i doveri e sul relativo trattamento economico e previdenziale; previsione di modalità di trasmissione telematica delle candidature nonché, per quanto possibile, dei titoli e delle pubblicazioni;
b) ammissione alle procedure dei possessori del titolo di dottore di ricerca o titolo equivalente, ovvero, per i settori interessati, del diploma di specializzazione medica, nonché di eventuali ulteriori requisiti definiti nel regolamento di ateneo, con esclusione dei soggetti già assunti a tempo indeterminato come professori universitari di prima o di seconda fascia o come ricercatori, ancorché cessati dal servizio;
c) valutazione preliminare dei candidati, con motivato giudizio analitico sui titoli, sul curriculum e sulla produzione scientifica, ivi compresa la tesi di dottorato, secondo criteri e parametri, riconosciuti anche in ambito internazionale, individuati con decreto del Ministro, sentiti l’ANVUR e il CUN… Sono esclusi esami scritti e orali, ad eccezione di una prova orale volta ad accertare l’adeguata conoscenza di una lingua straniera; l’ateneo può specificare nel bando la lingua straniera di cui è richiesta la conoscenza in relazione al profilo plurilingue dell’ateneo stesso ovvero alle esigenze didattiche dei corsi di studio in lingua estera; la prova orale avviene contestualmente alla discussione dei titoli e delle pubblicazioni. Nelle more dell’emanazione del decreto di cui al primo periodo, si applicano i parametri e criteri di cui al decreto del Ministro adottato in attuazione dell’articolo 1, comma 7, del decreto-legge 10 novembre 2008, n. 180, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 gennaio 2009, n. 1;
d) formulazione della proposta di chiamata da parte del dipartimento con voto favorevole della maggioranza assoluta dei professori di prima e di seconda fascia e approvazione della stessa con delibera del consiglio di amministrazione.
3. I contratti hanno le seguenti tipologie:
a) contratti di durata triennale prorogabili per soli due anni, per una sola volta, previa positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte, effettuata sulla base di modalità, criteri e parametri definiti con decreto del Ministro; i predetti contratti possono essere stipulati con il medesimo soggetto anche in sedi diverse;
b) contratti triennali, riservati a candidati che hanno usufruito dei contratti di cui alla lettera a), ovvero che hanno conseguito l’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore di prima o di seconda fascia di cui all’articolo 16 della presente legge, ovvero che sono in possesso del titolo di specializzazione medica, ovvero che, per almeno tre anni anche non consecutivi, hanno usufruito di assegni di ricerca ai sensi dell’articolo 51, comma 6, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, o di assegni di ricerca di cui all’articolo 22 della presente legge, o di borse post-dottorato ai sensi dell’articolo 4 della legge 30 novembre 1989, n. 398…
4. I contratti di cui al comma 3, lettera a), possono prevedere il regime di tempo pieno o di tempo definito. I contratti di cui al comma 3, lettera b), sono stipulati esclusivamente con regime di tempo pieno….
5. Nell’ambito delle risorse disponibili per la programmazione, nel terzo anno di contratto di cui al comma 3, lettera b), l’università valuta il titolare del contratto stesso, che abbia conseguito l’abilitazione scientifica di cui all’articolo 16, ai fini della chiamata nel ruolo di professore associato, ai sensi dell’articolo 18, comma 1, lettera e). In caso di esito positivo della valutazione, il titolare del contratto, alla scadenza dello stesso, è inquadrato nel ruolo dei professori associati…
6. Nell’ambito delle risorse disponibili per la programmazione, fermo restando quanto previsto dall’articolo 18, comma 2, dalla data di entrata in vigore della presente legge e fino al 31 dicembre dell’ottavo anno successivo, la procedura di cui al comma 5 può essere utilizzata per la chiamata nel ruolo di professore di prima e seconda fascia di professori di seconda fascia e ricercatori a tempo indeterminato in servizio nell’università medesima, che abbiano conseguito l’abilitazione scientifica di cui all’articolo 16…”.
IV.2. – Con la legge 7 agosto 2015 n. 124 (“Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana n. 187 del 13 agosto 2015), son state dettate regole di delegazione legislativa pure sul riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni pubbliche.
A ciò hanno provveduto in particolare l’art. 16, commi 1, lett. a) e 2, lettere b), c), d) ed e) e l’art. 7, co. 1, lettere a), c), e), f), g), h), l), m), n), o), q), r), s) e z), Per quanto qui interessa, l’art. 17, co. 1, tra i criteri di delega, stabilisce, rispettivamente alle lettere a) ed o) la “… a) previsione nelle procedure concorsuali pubbliche di meccanismi di valutazione finalizzati a valorizzare l’esperienza professionale acquisita da coloro che hanno avuto rapporti di lavoro flessibile con le amministrazioni pubbliche…; … o) disciplina delle forme di lavoro flessibile, con individuazione di limitate e tassative fattispecie, caratterizzate dalla compatibilità con la peculiarità del rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e con le esigenze organizzative e funzionali di queste ultime, anche al fine di prevenire il precariato…”.
IV.3. – In attuazione di tal delega, è intervenuto il decreto legislativo 25 luglio 2017 n. 75, (in Gazzetta ufficiale della Repubblica Italiana n. 130 del 7 giugno 2017), il quale reca varie modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165 (ossia il Testo unico organico sul lavoro subordinato alle dipendenze delle Pubbliche amministrazioni).
L’art. 20 (“Superamento del precariato nelle pubbliche amministrazioni”) del D.lgs. 175/2017 tra l’altro prevede, nel testo in vigore dal 1° gennaio 2018, che: “1. Le amministrazioni, al fine di superare il precariato, ridurre il ricorso ai contratti a termine e valorizzare la professionalità acquisita dal personale con rapporto di lavoro a tempo determinato, possono, nel triennio 2018-2020, in coerenza con il piano triennale dei fabbisogni di cui all’articolo 6, comma 2, e con l’indicazione della relativa copertura finanziaria, assumere a tempo indeterminato personale non dirigenziale che possegga tutti i seguenti requisiti: a) risulti in servizio successivamente alla data di entrata in vigore della legge n. 124 del 2015 con contratti a tempo determinato presso l’amministrazione che procede all’assunzione…; b) sia stato reclutato a tempo determinato, in relazione alle medesime attività svolte, con procedure concorsuali…; c) abbia maturato, al 31 dicembre 2017, alle dipendenze dell’amministrazione… che procede all’assunzione, almeno tre anni di servizio, anche non continuativi, negli ultimi otto anni….
3. Ferme restando le norme di contenimento della spesa di personale, le pubbliche amministrazioni, nel triennio 2018-2020, ai soli fini di cui ai commi 1 e 2, possono elevare gli ordinari limiti finanziari per le assunzioni a tempo indeterminato previsti dalle norme vigenti, al netto delle risorse destinate alle assunzioni a tempo indeterminato per reclutamento tramite concorso pubblico, utilizzando a tal fine le risorse previste per i contratti di lavoro flessibile, nei limiti di spesa di cui all’articolo 9, comma 28, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla legge 20 luglio 2010, n. 122…
5. Fino al termine delle procedure di cui ai commi 1 e 2, è fatto divieto alle amministrazioni interessate di instaurare ulteriori rapporti di lavoro flessibile di cui all’articolo 9, comma 28, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modificazioni, per le professionalità interessate dalle predette procedure. Il comma 9-bis dell’articolo 4 del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, è abrogato….
8. Le amministrazioni possono prorogare i corrispondenti rapporti di lavoro flessibile con i soggetti che partecipano alle procedure di cui ai commi 1 e 2, fino alla loro conclusione, nei limiti delle risorse disponibili…
9. Il presente articolo non si applica al reclutamento del personale docente, educativo e amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA) presso le istituzioni scolastiche ed educative statali. Fino all’adozione del regolamento di cui all’articolo 2, comma 7, lettera e), della legge 21 dicembre 1999, n. 508, le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano alle Istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica. I commi 5 e 6 del presente articolo non si applicano agli enti pubblici di ricerca di cui al decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 218. Per i predetti enti pubblici di ricerca il comma 2 si applica anche ai titolari di assegni di ricerca in possesso dei requisiti ivi previsti. Il presente articolo non si applica altresì ai contratti di somministrazione di lavoro presso le pubbliche amministrazioni…”.
IV.4. – Il decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, di cui s’è fatto cenno sopra, costituisce la norma organico sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni pubbliche (pubblicato in Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana del 9 maggio 2001, Supplemento ordinario n. 106). L’art. 3 (“Personale in regime di diritto pubblico”), co. 2 prevede, per quanto concerne i docenti universitari, che: “… Il rapporto di impiego dei professori e dei ricercatori universitari, a tempo indeterminato o determinato, resta disciplinato dalle disposizioni rispettivamente vigenti, in attesa della specifica disciplina che la regoli in modo organico ed in conformità ai principi della autonomia universitaria di cui all’articolo 33 della Costituzione ed agli articoli 6 e seguenti della legge 9 maggio 1989, n. 168,… tenuto conto dei principi di cui all’articolo 2, comma 1, della legge 23 ottobre 1992, n. 421”.
Il successivo art. 36, nella testo in vigore dal 22 giugno 2017, prevede che:
“1. Per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato seguendo le procedure di reclutamento previste dall’articolo 35.
2. Le amministrazioni pubbliche possono stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo determinato…, nonché avvalersi delle forme contrattuali flessibili previste dal codice civile e dalle altre leggi sui rapporti di lavoro nell’impresa, esclusivamente nei limiti e con le modalità in cui se ne preveda l’applicazione nelle amministrazioni pubbliche. Le amministrazioni pubbliche possono stipulare i contratti di cui al primo periodo del presente comma soltanto per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale e nel rispetto delle condizioni e modalità di reclutamento stabilite dall’articolo 35. I contratti di lavoro subordinato a tempo determinato possono essere stipulati nel rispetto degli articoli 19 e seguenti del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81…. Per prevenire fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato. È consentita l’applicazione dell’articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, ferma restando la salvaguardia della posizione occupata nella graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le assunzioni a tempo indeterminato.
2-bis. I rinvii operati dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, ai contratti collettivi devono intendersi riferiti, per quanto riguarda le amministrazioni pubbliche, ai contratti collettivi nazionali stipulati dall’ARAN….
5. In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Le amministrazioni hanno l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave….
5-quater. I contratti di lavoro posti in essere in violazione del presente articolo sono nulli e determinano responsabilità erariale….
5-quinquies. Il presente articolo, fatto salvo il comma 5, non si applica al reclutamento del personale docente, educativo e amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA), a tempo determinato presso le istituzioni scolastiche ed educative statali e degli enti locali, le istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica. Per gli enti di ricerca pubblici di cui agli articoli 1, comma 1, e 19, comma 4, del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 218, rimane fermo quanto stabilito dal medesimo decreto…”.
IV.5. – Il decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, recante la disciplina organica dei contratti di lavoro e la revisione della normativa in tema di mansioni (pubblicato nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana del 24 giugno 2015, Supplemento ordinario n. 144), costituisce l’attuazione nel diritto interno della direttiva n. 1999/70/CE.
Il relativo art. 19 (“Apposizione del termine e durata massima”), nel testo anteriore alla modifica di cui decreto legge 12 luglio 2018 n. 87 (“Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”, pubblicato nella Gazzetta ufficiale della Repubblica Italiana n. 161 del 13 luglio 2018) e dunque applicabile alla fattispecie in esame, prevedeva: “1. Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a trentasei mesi.
2. Fatte salve le diverse disposizioni dei contratti collettivi… la durata dei rapporti di lavoro a tempo determinato intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, per effetto di una successione di contratti, conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale e indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l’altro, non può superare i trentasei mesi…”. Il successivo art. 29 (“Esclusioni e discipline specifiche”), in vigore dal 12 agosto 2018, dispone che: “… 2. Sono, altresì, esclusi dal campo di applicazione del presente capo: (…) d) i contratti a tempo determinato stipulati ai sensi della legge 30 dicembre 2010, n. 240….
4. Resta fermo quanto disposto dall’articolo 36 del decreto legislativo n. 165 del 2001…”.
V. – Illustrazione dei motivi del rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del TFUE e dell’art. 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione Europea – Osservazioni del Collegio sull’art. 29, commi 2, lett. d) e 4 del D.lgs. 81/2015 e sull’art. 36 commi 2 e 5 del D.lgs. 165/2001.
V.1. – Una premessa d’inquadramento generale è necessaria agli occhi del Collegio.
Il Collegio non dubita certo del significato della normativa eurounitaria, ove, con il ravvicinamento delle legislazioni nazionali in materia di stabilità del rapporto di lavoro subordinato, indica in quello a tempo indeterminato il tipo ideale, ordinario e prevalente del rapporto di lavoro e in quello a tempo determinato una vicenda eccezionale, di stretta interpretazione e di durata mai superiore a 36 mesi nel complesso (e, dopo la riforma del 2018, a 24 mesi).
Ancora di recente, la Corte di giustizia (cfr. CGUE, 25 ottobre 2018, causa C-331/17) ha ribadito l’illiceità della normativa nazionale sul lavoro a tempo determinato (nella specie, alle dipendenze di enti lirici) per contrasto col diritto comunitario. Invero, la Corte ha sottolineato che la clausola 5) del citato Accordo quadro impone, per giustificare l’uso del lavoro a tempo determinato, di adottare effettivamente almeno una delle tre misure di tutela previste in modo espresso (indicazione delle ragioni del ricorso al lavoro a termine; durata massima improrogabile del rapporto; tetto ai rinnovi). E ciò al fine di prevenire l’utilizzo abusivo del lavoro a termine, sicché non è ammissibile una disposizione nazionale che autorizzi, attraverso una norma legislativa o regolamentare, il ricorso ad una successione indefinita di tal tipo di contratti (e di conseguenti rapporti) di lavoro a tempo.
Ora, lo scopo essenziale dell’Accordo quadro e dei suoi meccanismi di tutela, i quali si sostanziano alternativamente o nella conversione a tempo indeterminato del rapporto o nel riconoscimento di una tutela economica, è appunto d’escludere non il contratto a termine, ma qualsivoglia abuso di tal strumento. Piuttosto il Collegio dubita d’ogni nociva applicazione automatica della regola stessa nei settori propri d’esercizio di pubblici poteri in generale e di quella della ricerca scientifica in modo specifico. Si tratta per vero di materie regolate nell’ordinamento nazionale non solo sulla scorta di principi costituzionali forti in sé (rispettivamente, l’art. 97, da un lato e gli artt. 9, I co. e 33, commi I e VI, Cost.), recanti il riconoscimento di diritti e doveri fondamentali (preesistenti, dunque, a come si conforma nel tempo l’ordinamento positivo) e tali da non consentirne una libera devoluzione al diritto dei trattati se non in forma confermativa e non compressiva.
V.2. – Il Collegio è ben consapevole della giurisprudenza costante della CGUE, laddove predica l’irrilevanza della natura privata o pubblica del datore di lavoro ai fini della corretta ed uniforme applicazione dei citati meccanismi di tutela ed in base al principio di uguaglianza sostanziale.
È noto al riguardo che i termini di una disposizione di diritto dell’UE, quand’anche non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri, devono comunque formare oggetto, nell’intera Unione e per quanto attiene ai suoi significato ed effetti, di un’interpretazione autonoma e uniforme. Essa va effettuata tenendo conto del contesto della disposizione da applicare e del fine perseguito dalla normativa in esame (cfr., di recente, CGUE, grande Sezione, 20 novembre 2018, causa C–OMISSIS-/17, punto 54).
La giurisprudenza della Corte comunitaria chiarisce la nozione di “ragioni obiettive” cui si riferisce la clausola 5), n. 1), lettera a) dell’Accordo quadro. Si deve trattare di circostanze precise e concrete che contraddistinguono una determinata attività e, pertanto, tali da giustificare in sé, in tal peculiare contesto, l’utilizzo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato. Dette circostanze possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi i contratti in questione, dalle caratteristiche ad esse inerenti o, se del caso, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro. L’omessa seria dimostrazione dell’oggettività delle ragioni all’uso reiterato di rapporti a tempo indeterminato è indice dell’abuso nel ricorso a tali forme di lavoro precario.
Ebbene, ciò non esime il Collegio dall’evidenziare l’impossibilità logica di configurare abusi dello strumento del lavoro a tempo determinato in talune vicende, tra le quali è annoverabile la ricerca scientifica nelle Università e nei correlati Istituti d’alta cultura o in Grandi Scuole della Repubblica.
In questi casi, per un verso, la limitatezza temporale dell’incarico è del tutto consustanziale al tipo di prestazione da svolgere. Si tratta, infatti, di compiere sia linee di studio e ricerca ben definite e da concludere in un certo tempo dato, sia incarichi d’insegnamento programmati e commisurati in segmenti temporali propri dell’organizzazione dei corsi di laurea. Per altro e correlato verso, è di tutt’evidenza che non ogni rapporto a termine, pur se consecutivo o ravvicinato ad uno precedente tra le stesse parti e pur afferente genericamente alle tematiche della ricerca scientifica ed anche se protratto oltre il termine massimo indicato dal citato art. 19, co. 1 del D.lgs. 81/2015, è per forza la mera, surrettizia ed abusiva prosecuzione del primo.
Si vuol così dire che il reclutamento del personale da adibire alla ricerca scientifica universitaria, com’è descritta nell’articolata tipologia di rapporti a tempo determinato dall’art. 24 della legge n. 240 -peraltro di regola connessa all’attività didattica di supporto svolta da tali ricercatori-, trova le sue ragioni oggettive di giustificazione proprio nella non prevedibilità a priori di quali e quante linee di ricerca potranno esser attivate, così come del tipo, durata e contenuto di tal attività didattica. In entrambi i casi, le esigenze, così manifestate dai singoli Atenei, ben lungi dall’esser ripetitive (e, quindi, tali, da aver bisogno di lavoratori in un rapporto stabile di continuità su un dato posto di lavoro), in realtà sono temporanee perché non permanenti, ma cadenzate in segmenti temporali non necessariamente racchiusi o delimitabili in siffatto termine massimo.
Tale tematica è vicina, ma non s’identifica del tutto con i limiti d’applicabilità dell’Accordo quadro e della direttiva ai lavoratori subordinati pubblici non “contrattualizzati”, sebbene l’art. 29, co. 2, lett. d) del D.lgs. 81/2015 escluda dai meccanismi di stabilizzazione del precariato i rapporti dei ricercatori universitari a tempo determinato.
È vero che, in base e grazie all’art. 4, § 1) del Trattato di Lisbona -laddove precisa che qualunque “… competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri…”-, la CGUE riconosce il potere degli Stati membri di organizzare e razionalizzare le proprie Amministrazioni pubbliche, anche per quanto concerne le modalità di reclutamento del relativo personale. Ed è vero pure che, nella vigenza del citato D.lgs. 368/2001, come s’è detto attuativo della direttiva n. 70, la Corte costituzionale ne ritenne compatibili le misure con l’ordinamento del pubblico impiego, ma a condizione che non vi fosse la conversione del contratto in un rapporto a tempo indeterminato e vi fosse il solo diritto al risarcimento del danno per equivalente (cfr. Corte cost., ordinanza n. 207 del 2013). Anzi, pur a seguito dell’abrogazione del D.lgs. 368/2001 per mezzo dell’art. 21 del D.lgs. 81/2015 -che ha diminuito a 24 mesi la durata iniziale del contratto a termine-, non per ciò solo è venuto meno il sistema di garanzie per il lavoro subordinato pubblico per il principio del pubblico concorso, comprimibile, questo sì, solo per eccezionali ed irripetibili ragioni d’interesse collettivo. E resta fermo altresì l’art. 36 del citato D.lgs. 165/2001, in virtù del quale: a) la violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte di Pubbliche amministrazioni non può comportare alcun’automatica costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze di queste ultime, ferme le responsabilità e le sanzioni correlate; b) il lavoratore così coinvolto ha diritto al risarcimento del danno derivante da detta prestazione di lavoro, ma solo per equivalente.
Tutto ciò è importante, ma non dirimente. Non a caso, per la CGUE, la responsabilità dei dirigenti pubblici, prevista dal citato art. 36 ed applicabile anche a tutti i rapporti di lavoro pubblico (anche a quello non “contrattualizzato”), non costituisce di per sé sola un’effettiva e dissuasiva sanzione, idonea a garantire la piena efficacia dell’Accordo quadro. Ma la Corte rimette al Giudice nazionale di valutarne caso per caso il grado concreto d’effettività (cfr. di recente CGUE l 7 marzo 2018, causa C-494/16 e id., 25 ottobre 2018, cit.) e, correlativamente, l’an, il quando ed il quantum del ricorso abusivo al rapporto a tempo determinato. Pare al Collegio che, per quanto concerne la peculiare natura dei rapporti dei singoli Atenei coi propri ricercatori a tempo determinato, non sia predicabile un’applicazione diretta ed automatica dell’Accordo quadro per il sol fatto dell’iterazione dei rapporti a termine o dell’inutile decorso del termine massimo, poiché una tal soluzione andrebbe a colpire l’autonomia delle Università in temi delicati quali l’organizzazione dei corsi, della ricerca e del personale da destinarvi. In ogni caso, tal applicazione non può avvenire in via automatica o senza passare dal vaglio giudiziale sull’esistenza dell’abuso, soccorrendo al riguardo il principio, affermato dalla Corte (cfr. CGUE, ord.za 1° ottobre 2010, C-3/10, punto 51) proprio sui limiti di conversione del rapporto sanciti dal citato art. 36, non ritenuto in contrasto con la clausola 5) di tale Accordo quadro, purché fossero previste “… nel settore interessato altre misure effettive per evitare, ed eventualmente sanzionare, il ricorso abusivo a contratti a tempo determinato stipulati in successione…”.
È evidente la rilevanza nella presente controversia delle norme di cui si chiede l’interpretazione pregiudiziale, stante il complesso delle citate preclusioni, di cui al combinato disposto dell’art. 29, co. 2 del D.lgs. 81/2015 e dell’art. 36 del D.lgs. 165/2001, alla conversione del rapporto nei riguardi dei ricercatori universitari a tempo indeterminato.
Infatti, ove tali preclusioni non fossero state poste dalla normativa nazionale nei loro specifici confronti, gli appellanti, avendo tutti sottoscritto in varia guisa contratti o instaurato plurimi rapporti a termine, ricadrebbero nel sistema di stabilizzazione di cui all’art. 20 del D.lgs. 75/2017. Tanto perché la durata complessiva dei loro rispettivi rapporti è di molto superiore al limite di legge e non pare che l’Università intimata abbia dato loro un’idonea dimostrazione delle comprovate esigenze di carattere soltanto temporaneo o eccezionale. Appunto per questo gli appellanti dubitano che le suddette disposizioni preclusive siano veramente conformi, anche quando delineano il trattamento dei ricercatori a tempo determinato, alla clausola 5) del citato Accordo quadro.
Non sfugge al Collegio che una disposizione nazionale che si limitasse ad autorizzare, in modo del tutto generico ed astratto, il ricorso ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, non soddisfarebbe i requisiti oggettivi, già dianzi rammentati, per giustificare siffatti rapporti. Anzi, una disposizione di tal genere, di natura puramente formale, non solo non consentirebbe di stabilire criteri oggettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali rapporti: a) risponda veramente ad un’esigenza reale; b) sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito; c) sia necessario a tal fine. Una disposizione siffatta sarebbe pure, essa stessa, elusiva d’ogni obbligo e di per sé fonte di ogni abuso sul punto, oltreché fortemente discriminatoria (arg. ex CGUE, III sez., 26 novembre 2014 EU:C:2012:39 – Kü cü k, punti 27, 28 e 29 e giurisprudenza ivi citata), mostrandosi così del tutto incompatibile con lo scopo e l’effetto utile dell’Accordo quadro (cfr. altresì CGUE, 26 novembre 2014, Mascolo e a., C 22/13, da C 61/13 a C 63/13 e C 418/13; e id., X sez., 25 ottobre 2018, n. C-331/17, cit., Sciotto c. Fondazione Teatro dell’Opera di Roma).
Va tuttavia chiesto alla Corte se, pur in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi nel sistema delineato nell’art. 24 della l. 240/2010 -norma, questa, che trasformò la qualifica di ricercatore universitario a tempo indeterminato in un ruolo a esaurimento-, già l’ordinamento universitario non rechi in se stesso, più per preservare la libertà di ricerca scientifica e l’autonomia funzionale e di scelta delle istituzioni accademiche e d’alta cultura che per la mera natura d’impiego “non contrattualizzato” di tali ricercatori, le ragioni obiettive che giustifichino, al di là della forma, i rinnovi degli incarichi ai ricercatori stessi in relazione sia alla natura peculiare del reclutamento della docenza universitaria, sia alla qualità stessa della ricerca che, quand’anche finita nel tempo, non per forza può esser ingabbiata in un termine massimo insuperabile.
V.3. – A quanto fin qui detto, per ben chiarire l’avviso del Collegio sulla res controversa, si devono aggiungere le seguenti considerazioni, che costituiscono la chiave di lettura dei quesiti da sottoporre all’interpretazione della Corte di giustizia:
1) la contestata omessa menzione dei ricercatori universitari a tempo determinato nell’art. 20 del D.lgs. 75/2017, a differenza di quanto si riscontra nel corpo del D.lgs. 81/2015, discende da quanto dice il successivo art. 22, co. 16, che modifica sul punto l’art. 3, co. 2 del D.lgs. 165/2001 ed attrae anche il rapporto di lavoro di detti ricercatori al regime di diritto pubblico, sicché, per quanto non sia dirimente la loro inserzione nel pubblico impiego non “contrattualizzato”, è comunque del tutto pleonastico escludere espressamente detti ricercatori anche dalla platea dei destinatari del citato art. 20, rivolto essenzialmente a regolare le vicende del solo impiego pubblico “contrattualizzato”;
2) è corretto il richiamo del Giudice di primo grado agli atti parlamentari inerenti al D.lgs. 75/2017, da cui s’evince la conferma dell’applicabilità di esso al solo pubblico impiego “contrattualizzato”, testimoniato anche dalla previa interlocuzione con le Organizzazione sindacali di detta categoria e non anche nei confronti degli organismi rappresentativi delle altre categorie di addetti alla funzione pubblica indicate nell’art. 3, co. 2 del D.lgs. 165/2001;
3) tal richiamo, ben lungi dall’esser privo di valore ermeneutico, è ritenuto pur sempre da dottrina e giurisprudenza aver vera rilevanza, pur se residuale, nell’interpretazione della norma dell’art. 20;
4) neppure è vero l’effetto discriminatorio della mancata ammissione di detti ricercatori universitari alle procedure di cui al citato art. 20, a fronte dell’ammissione a queste ultime dei ricercatori degli Enti di ricerca, poiché, al di là dell’omonimia, le due categorie sono differenti e non sovrapponibili tra loro, sia per la diversità dei compiti che svolgono (i ricercatori di detti Enti, a differenza di quelli universitari, non sono istituzionalmente investiti di compiti didattici), sia per il diverso regime giuridico di riferimento (essendo i ricercatori degli Enti stessi destinatari d’una disciplina ad hoc e compresi tra i dipendenti pubblici “contrattualizzati”);
5) è corretta la definizione di ruolo ad esaurimento riconoscibile, in base alla serena lettura della l. 240/2010, alla categoria dei ricercatori universitari a tempo indeterminato, in quanto, prevedendo pro futuro tal normativa solo il reclutamento di ricercatori a tempo determinato (nei due tipi “A” o “B”) e non contemplando più alcuna immissione in ruolo di nuovi ricercatori d’altro tipo, quelli a tempo indeterminato costituiscono ormai (se non expressis verbis, certo in base ad una chiara ed agevole interpretazione sistematica) un ruolo appunto “ad esaurimento”, che ha così ridefinito la categoria dei ricercatori universitari, indicando in essa il primo gradino (solo a termine, ai sensi dell’art. 24 della legge n. 240) della docenza universitaria;
6) in ogni caso, l’art. 20 del D.lgs. 75/2017, il suo dato testuale essendo chiarissimo in tal senso, attribuisce alle Amministrazioni datrici di lavoro la facoltà e non l’obbligo d’indire le procedure di stabilizzazione del loro precariato, per cui a tutto concedere l’eventuale accoglimento della pretesa dell’appellante implicherebbe l’accertamento solo, a carico dell’Università di Perugia, non del di lui diritto all’assunzione a tempo indeterminato, ma l’attivazione della procedura di stabilizzazione.
V.4. – Pertanto, il Collegio non può sottacere la particolarità propria ed irripetibile della ricerca universitaria, che la l. 240/2010 delinea, in una con la trasformazione della qualifica di ricercatore a tempo indeterminato o in un ruolo ad esaurimento o nel passaggio alla qualifica di professore aggregato e, attraverso l’abilitazione scientifica nazionale, mira all’obiettivo del transito dei vari ricercatori verso la docenza universitaria di I e di II fascia, quasi come una progressione logica del lavoro subordinato di ricerca e docenza negli Atenei e nelle Grandi Scuole.
Restano tuttavia serie perplessità nel modo con cui furono formulate quelle norme, in un sistema che oggidì mira all’attuazione piena ed efficace dell’Accordo quadro, sì da imporre al Collegio di sottoporne le criticità al rinvio pregiudiziale della Corte.
Invero, v’è un serio dubbio che il superamento del precariato anche nell’ambito del lavoro nelle Pubbliche amministrazioni e il mantenimento tout court delle due qualifiche dei ricercatori a tempo determinato confliggano tra loro e, per l’effetto, producano risultati in violazione della clausola 5), punto 1) dell’Accordo quadro. Tanto perché, almeno a prima lettura, i richiesti criteri “oggettivi e trasparenti” non si ritrovano nell’art. 24, co. 1 della l. 240/2010, che si limita a porre la condizione che il contratto a termine sia compatibile con le risorse disponibili per la programmazione. Se ci si sofferma al mero dato testuale, appare una sorta d’inversione logica della previsione che vorrebbe prima l’emersione dell’esigenza oggettiva (purché non strutturale e permanente) dell’Università a stipulare un contratto a tempo determinato per esigenze di ricerca e poi, una volta emersa siffatta esigenza, il (necessario) reperimento delle risorse necessarie alla copertura finanziaria. Su tal punto, è ben noto l’avviso della Corte per cui eventuali esigenze di bilancio, che tendano a negare la tutela conservativa del posto di lavoro, possano costituire sì il fondamento delle scelte di politica sociale di uno Stato membro e possano influenzare la natura ovvero la portata delle misure che esso intende adottare. Ma esse non costituiscono di per sé un obiettivo perseguito da tale politica e, pertanto, non sono in grado di giustificare l’assenza di qualsiasi misura di prevenzione del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato ai sensi della citata clausola 5), punto 1) (cfr., oltre alla giurisprudenza Mascolo e a., pure CGUE, ord.za del 21 settembre 2016, C- 614/15 – Popescu, punto 63).
V.5. – Parimenti, neppure la soggezione del possibile rinnovo biennale ad una semplice “positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte” consente di ritenere soddisfatta la necessità che l’Università stabilisca e segua “criteri oggettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di siffatti contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, se esso sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine”.
Anche in questo caso, inoltre, il rinnovo soffre del contrasto con i suddetti principi comunitari della stipulazione del primo contratto a tempo determinato, che ne costituisce l’indefettibile antecedente logico necessario. Pertanto, anche la previsione dell’art. 24, co. 3 della legge n. 240 comporta un rischio concreto di ricorso abusivo a tale tipo di contratti, non risultando così compatibile con lo scopo e l’effetto utile dell’Accordo quadro.
VI. – Questioni pregiudiziali poste al vaglio della Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267 del TFUE e dell’art. 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione Europea.
Tanto premesso, il Collegio solleva innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, le seguenti questioni pregiudiziali di interpretazione:
1) – se la clausola 5) dell’accordo quadro di cui alla direttiva n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, d’ora in avanti “direttiva”), intitolata “Misure di prevenzione degli abusi”, letta in combinazione coi considerando 6) e 7) e con la clausola 4) di tal Accordo (“Principio di non discriminazione”), nonché alla luce dei principi di equivalenza, d’effettività e dell’effetto utile del diritto eurounitario, osta a una normativa nazionale, nella specie l’art. 24, co. 3, lett. a) e l’art. 22, co. 9 della l. 240/2010, che consenta alle Università l’utilizzo, senza limiti quantitativi, di contratti da ricercatore a tempo determinato con durata triennale e prorogabili per due anni, senza subordinarne la stipulazione e la proroga ad alcuna ragione oggettiva connessa ad esigenze temporanee o eccezionali dell’Ateneo che li dispone e che prevede, qual unico limite al ricorso di molteplici rapporti a tempo determinato con la stessa persona, solo la durata non superiore a dodici anni, anche non continuativi;
2) – se la citata clausola 5) dell’Accordo quadro, letta in combinazione con i considerando 6) e 7) della direttiva e con la citata clausola 4) di detto Accordo, nonché alla luce dell’effetto utile del diritto eurounitario, osta ad una normativa nazionale (nella specie, gli artt. 24 e 29, co. 1 della l. 240/2010), laddove concede alle Università di reclutare esclusivamente ricercatori a tempo determinato, senza subordinare la relativa decisione alla sussistenza di esigenze temporanee o eccezionali senza porvi alcun limite, mercé la successione potenzialmente indefinita di contratti a tempo determinato, le ordinarie esigenze di didattica e di ricerca di tali Atenei;
3) – se la clausola 4) del medesimo Accordo quadro osta ad una normativa nazionale, quale l’art. 20, co. 1 del D.lgs. 75/2017 (come interpretato dalla citata circolare ministeriale n. 3/2017), che, nel mentre riconosce la possibilità di stabilizzare i ricercatori a tempo determinato degli Enti pubblici di ricerca -ma solo se abbiano maturato almeno tre anni di servizio entro il 31 dicembre 2017-, non la consente a favore dei ricercatori universitari a tempo determinato sol perché l’art. 22, co. 16 del D.lgs. 75/2017 ne ha ricondotto il rapporto di lavoro, pur fondato per legge su un contratto di lavoro subordinato, al “regime di diritto pubblico”, nonostante l’art. 22, co. 9 della l. 240/2010 sottoponga i ricercatori degli Enti di ricerca e delle Università alla stessa regola di durata massima che possono avere i rapporti a tempo determinato intrattenuti, sotto forma di contratti di cui al successivo art. 24 o di assegni di ricerca di cui allo stesso art. 22, con le Università e con gli Enti di ricerca;
4) – se i principi di equivalenza e di effettività e quello dell’effetto utile del diritto UE, con riguardo al citato Accordo quadro, nonché il principio di non discriminazione contenuto nella clausola 4) di esso ostano ad una normativa nazionale (l’art. 24, co. 3, lett. a della l. 240/2010 e l’art. 29, commi 2, lett. d e 4 del D.lgs. 81/2015) che, pur in presenza d’una disciplina applicabile a tutti i lavoratori pubblici e privati da ultimo racchiusa nel medesimo decreto n. 81 e che fissa (a partire dal 2018) il limite massimo di durata d’un rapporto a tempo determinato in 24 mesi (comprensivi di proroghe e rinnovi) e subordina l’utilizzo di tal tipo di rapporti alle dipendenze della Pubblica amministrazione all’esistenza di “esigenze temporanee ed eccezionali”, consente alle Università di reclutare ricercatori grazie ad un contratto a tempo determinato triennale, prorogabile per due anni in caso di positiva valutazione delle attività di ricerca e di didattica svolte nel triennio stessa, senza subordinare né la stipulazione del primo contratto né la proroga alla sussistenza di tali esigenze temporanee o eccezionali dell’Ateneo, permettendogli pure, alla fine del quinquennio, di stipulare con la stessa o con altre persone ancora un altro contratto a tempo determinato di pari tipologia, al fine di soddisfare le medesime esigenze didattiche e di ricerca connesse al precedente contratto;
5) – se la clausola 5) del citato Accordo Quadro osta, anche alla luce dei principi di effettività e di equivalenza e della predetta clausola 4), a che una normativa nazionale (l’art. 29, commi 2, lett. d e 4 del D.lgs. 81/2015 e l’art. 36, commi 2 e 5 del D.lgs. 165/2001) precluda ai ricercatori universitari assunti con contratto a tempo determinato di durata triennale e prorogabile per altri due (ai sensi del citato art. 24, co. 3, lett. a della l. 240/2010, la successiva instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato, non sussistendo altre misure all’interno dell’ordinamento italiano idonee a prevenire ed a sanzionare gli abusi nell’uso d’una successione di rapporti a termine da parte delle Università .
VII. – Sospensione del giudizio e disposizioni per la Segreteria.
Ai sensi della Nota informativa riguardante la proposizione di domande di pronuncia pregiudiziale da parte dei giudici nazionali 2011/C160/01 (in G.U.C.E. 28 maggio 2011), vanno trasmessi alla Cancelleria della Corte mediante plico raccomandato al seguente indirizzo Rue du Fort Niedergrunewald, L-2925 Lussemburgo, a cura della Segreteria della Sezione, mediante plico raccomandato, in copia i seguenti atti:
– testo degli articoli 29 del decreto legislativo n. 81 del 2015 e 36 del decreto legislativo n. 165 del 2001, nonché dell’art. 24 della legge n. 240 del 2010;
– gli atti impugnati coi tre ricorsi di primo grado;
– i tre ricorsi in appello con i relativi allegati (fascicolo di parte ricorrente);
– le memorie di costituzione e difensive della Presidenza del Consiglio dei ministri e del Ministero dell’istruzione, dell’Università e della Ricerca, nonché dell’Università degli studi di Perugia, con i relativi allegati (fascicoli delle parti resistenti);
– la presente ordinanza.
Il presente giudizio viene sospeso fino alla pronuncia della Corte di Giustizia, e ogni ulteriore decisione, anche in ordine alle spese, è riservata alla pronuncia definitiva.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sez. VI), non definitivamente pronunciando sui ricorsi riuniti NRG 8543/2019, NRG 8545/2019 e NRG 8549/2019 in epigrafe, provvede come segue:
– rimette alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea le questioni pregiudiziali indicate in parte motiva, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea;
– dispone che la presente ordinanza, unitamente a copia del fascicolo di causa, sia trasmessa, a cura della Segreteria della Sezione, alla Cancelleria della Corte di Giustizia dell’Unione Europea;
– dispone la sospensione del presente giudizio;
– riserva alla decisione definitiva ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e sulle spese.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità .
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 12 dicembre 2019, con l’intervento dei sigg. Magistrati:
Sergio Santoro – Presidente
Diego Sabatino – Consigliere
Silvestro Maria Russo – Consigliere, Estensore
Paolo Carpentieri – Consigliere
Giordano Lamberti – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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