Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|11 ottobre 2022| n. 29622.

Il consigliere di amministrazione non esecutivo di società per azioni

Il consigliere di amministrazione non esecutivo di società per azioni, e a maggior ragione il direttore generale, in conformità al disposto dell’articolo 2392, comma 2, del codice civile, che concorre a connotare le funzioni gestorie tanto dei consiglieri non esecutivi, quanto di quelli esecutivi, è solidalmente responsabile della violazione commessa quando non intervenga al fine di impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose.

Ordinanza|11 ottobre 2022| n. 29622. Il consigliere di amministrazione non esecutivo di società per azioni

Data udienza 12 aprile 2022

Integrale

Tag/parola chiave: Sanzioni amministrative – Consob – Componenti del collegio sindacale della banca – Conferma delle sanzioni – Art. 21 comma 1 lett. d) Tuf – Violazione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente
Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere

Dott. VARRONE Luca – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 28335/2018 R.G. proposto da
(OMISSIS), rappresentato e difeso dagli avvocati prof. (OMISSIS), (OMISSIS), del foro di Milano, e (OMISSIS) del foro di Venezia, giusta procura in calce al ricorso, elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
COMMISSIONE NAZIONALE PER LA SOCIETA E LA BORSA – CONSOB, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), con domicilio eletto in (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia n. 15/2018, depositata in data 14 marzo 2018;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 aprile 2022 dal Consigliere Milena Falaschi.

OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO

Ritenuto che:
– con delibera n. 19935/2017, la Consob, in esito alla procedura sanzionatoria disciplinata dal Decreto Legislativo n. 58 del 1998, articolo 195, (t.u.f.), ha applicato a (OMISSIS), nella qualita’ di consigliere di amministrazione di (OMISSIS) dal 06.02.2007 al 26.04.2012, la sanzione pecuniaria di Euro 75.000,00, sulla base delle contestazioni per violazione delle norme di seguito indicate:
1) articolo 21, comma 1, lettera d), TUF, articolo 15 del Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob, articoli 39 e 40 Regolamento Intermediari n. 16190/2007, in relazione in relazione alla valutazione di adeguatezza delle operazioni (periodo 1.4.201122.4.2015): “Sono state ravvisate carenze nelle procedure per la valutazione dell’adeguatezza, con specifico riferimento, da un lato, alle modalita’ di profilatura della clientela e, dall’altro, alla mancanza di misure volte a prevenire condotte elusive della verifica in parola. Per l’effetto, e’ stata riscontrata una profilatura degli investitori sbilanciata verso i profili di rischio piu’ alti ed, in occasione dell’AUC 2014, una diffusa riproposizione in regime di appropriatezza di ordini gia’ sottoposti a valutazione di adeguatezza e risultati inadeguati (c.d. “strumentale imputazione degli ordini all’iniziativa cliente”). Tali condotte si sono realizzate in un contesto operativo caratterizzato da un’azione commerciale strutturata e pervasiva, i cui obiettivi sono stati individuati esclusivamente sulla base di esigenze di patrimonializzazione della Banca ed in potenziale spregio dei bisogni di investimento della clientela pur da servire. Le pressioni si sono sostanziate, fra l’altro, nella raccolta di manifestazioni di interesse prima della pubblicazione del prospetto informativo e nell’impiego dei finanziamenti quale leva per indurre alla sottoscrizione delle azioni soggetti che versavano in una situazione di dipendenza economica dalla Banca.” (v. pag. 3 dell’atto di accertamento);
2) articolo 21, comma 1, lettera a), t.u.f. in relazione all’attivita’ di finanziamento della clientela finalizzata all’acquisto di azioni della Banca (periodo 1.1.2012-22.4.2015): “In assenza delle cautele dei presidi di correttezza e trasparenza, sono state riscontrate irregolarita’ comportamentali nei finanziamenti concessi dalla Banca alla propria clientela esclusivamente finalizzati all’acquisto delle azioni di propria emissione. Le specifiche modalita’ operative emerse in proposito, che hanno condotto ad una grave alterazione del processo decisionale di investimento da parte della clientela, sono risultate funzionali alle mere esigenze di capitalizzazione della Banca.” (v. pag. 3 dell’atto di accertamento);
3) articolo 21, comma 1, lettera d), t.u.f. e articolo 15 Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob, nonche’ articolo 21, comma 1, lettera a), t.u.f. e articolo 49, commi 1 e 3, Regolamento Intermediari in relazione alla gestione degli ordini dei clienti (periodo 1.4.2011-22.4.2015): “Sono state riscontrate carenze nelle procedure relative alla gestione degli ordini aventi ad oggetto le azioni della Banca che, consentendo alle strutture preposte ampi margini di discrezionalita’ nella trattazione delle disposizioni vivono in vendita della clientela retail, non hanno assicurato una trattazione oggettiva e rispettosa del principio di priorita’ temporale (cd. “procedure per il rispetto della priorita’ degli ordini”)” (v. pag. 3-4 dell’atto di accertamento);
4) articolo 21, comma 1, lettera d), t.u.f. e articolo 15, comma 1, Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob, nonche’ degli articoli 19 e 21 del citato Regolamento congiunto, in relazione alle procedure di pricing delle azioni della Banca (periodo 1.4.201122.4.2015): “Sono state riscontrate carenze nelle procedure definite dalla Banca per (i) l’attivita’ di governo e controllo sulla metodologia impiegata dall’esperto indipendente ai fini della valutazione del valore dell’azione (OMISSIS) per gli anni 2013 2014 e (ii) la formulazione della proposta di prezzo delle azioni All’assemblea dei Soci (c.d. “procedure per il pricing dell’azione”)” (v. pag. 4 dell’atto di accertamento)
Al ricorrente e’ stata applicata una sanzione complessiva di Euro 75.000, pari alla sanzione di Euro 40.000 per la violazione n. 2, aumentata, per effetto del cumulo giuridico, di Euro 10.000 per la violazione n. 1, di Euro 10.000 per la violazione n. 3 e di Euro 15.000 per la violazione n. 4.
(OMISSIS) ha proposto opposizione avverso siffatta delibera, con ricorso depositato in data 13.06.2017, cui ha resistito la Consob chiedendone la reiezione.
La Corte d’Appello di Venezia con la sentenza n. 15 del 14 marzo 2018 ha rigettato l’opposizione condannando l’opponente al rimborso delle spese di lite.
Disattese le questioni preliminari relative alla pretesa decadenza dal potere sanzionatorio per il decorso del termine di cui all’articolo 195 comma 1 t.u.f. e per il superamento del termine ragionevole di definizione del procedimento sanzionatorio, la sentenza reputava corretta l’applicazione dell’articolo 190 t.u.f. nella versione anteriore alla modifica disposta dal Decreto Legislativo n. 72 del 2015, articolo 5, comma 4, lettera c), trattandosi di violazioni commesse prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia, in tal senso deponeva il citato Decreto Legislativo n. 72 del 2015, articolo 6, che non presentava i profili di incostituzionalita’ denunciati dal ricorrente, alla luce della sentenza n. 193 del 2016 della Corte costituzionale.
Quindi, riassunte le vicende del gruppo (OMISSIS), con il richiamo ai vari aumenti di capitale deliberati nel 2014, riteneva sussistenti tutte le violazioni oggetto di contestazione, alla luce del complesso materiale istruttorio raccolto dalla Consob nella fase ispettiva.
In particolare, la sentenza ha posto in rilievo che la banca non si era dotata di una procedura di gestione degli ordini di vendita delle azioni (OMISSIS) predefinita, coerente e integrata nei sistemi operativi dell’intermediario. Nel periodo di raccolta delle manifestazioni di interesse ad investire in azioni (OMISSIS) era stato utilizzato lo strumento c.d. time deposit a condizioni di tasso vantaggioso (c.d. inizitiava TDK), con monitoraggio costante delle scadenze dei prestiti obbligazionari (OMISSIS), nonche’ l’utilizzo strumentale alla raccolta di adesioni all’offerta di azioni (OMISSIS) con prodotti bancari âEuroËœcivetta’.
In una prima fase, la rete commerciale era solita registrare gli ordini dei clienti su un supporto cartaceo senza annotare l’orario in cui erano pervenuti e senza rilasciare copia dell’ordinativo alla clientela, rendendo impossibile verificare che le disposizioni fossero evase in modo corretto e in ordine di presentazione.
In una seconda fase, la rete commerciale provvedeva ad inviare gli ordini all’Unita’ Operativa “Gestione Operativa Soci” (UOGOS), che annotava gli ordini in un apposito file excel (c.d. “registro ordini”) ed effettuava la selezione delle richieste, predisponendo le c.d. liste di cessione di azioni (OMISSIS), da sottoporre al preventivo vaglio del Comitato Soci per la successiva presentazione al CDA. L’alimentazione delle informazioni riportate nel file era manuale, giorno per giorno e con modifiche effettuate in sovrascrittura, senza prevedere alcuna forma di archiviazione periodica, in modo da rendere possibile un agevole controllo ex post del corretto caricamento dei dati e delle eventuali modifiche apportate, consentendo a qualunque addetto dell’U.O.GOS di operare sul file. L’assenza di procedure adeguate aveva reso possibile l’assunzione di decisioni connotate da eccessiva discrezionalita’, dando prevalenza agli interessi dell’istituto di credito.
All’evidenza si trattava di iniziative tutte incompatibili con un’autonoma decisione dell’investitore di esercitare i diritti di opzione e di prelazione, in quanto univocamente dirette a orientare la clientela verso l’adesione all’offerta di aumento di capitale, addirittura prima ancora che il prospetto informativo fosse approvato. Aggiungeva, inoltre, che analoghe iniziative la Banca le aveva attuate anche con riferimento alla parte di Aucap 2014 destinata al pubblico indistinto.
Analoghe condotte opportunistiche risultavano essere state poste in essere dalla Banca anche nel corso della c.d. campagna Svuotafondo, a partire dalla fine del 2013 e nel corso del 2014.
La pronuncia ha, poi, dato atto che, con delibera del 22.03.2011, la Banca ha affidato il compito di procedere alla stima del valore delle azioni (OMISSIS) al prof. (OMISSIS) senza alcuna comparazione con altri candidati ed in totale carenza di procedure interne per la selezione dell’esperto. Era emersa la vistosa lacunosita’ della disciplina interna del processo di definizione del valore delle azioni e dei ruoli, le attivita’ e le responsabilita’ dei soggetti coinvolti.
I soli documenti ufficiali relativi ai criteri di valutazione del prezzo delle azioni erano costituiti dalla relazione del perito e dalla documentazione riguardante il contenuto delle stime elaborate annualmente.
La relazione conteneva la c.d. “architettura metodologica”, ossia l’impianto tecnico generale sulla scorta del quale l’esperto eseguiva le valutazioni al 31.12.2010 e un decalogo di “requisiti del processo valutativo annuale, approvati dal CDA in data 12.04.2011.
Detta delibera, recependo le indicazioni del perito, prevedeva tre indici di valutazione delle azioni (Income approach, Market approach, Asset/cost approach) che avrebbero dovuto esprimere valori non divergenti, con la raccomandazione di non far prevalere uno solo di essi a scapito degli altri. I controlli interni erano limitati alla verifica di corrispondenza fra i dati inviati all’esperto e quelli utilizzati a fini valutativi.
Dagli accertamenti svolti in sede ispettiva era emerso che, a partire dalla valutazione effettuata nel 2011, i valori restituiti dai tre approcci tecnici adottati avevano cominciato a differenziarsi in maniera significativa e che il CDA – nel 2014 e nel 2015- aveva determinato il prezzo da proporre all’assemblea, dando prevalenza ad uno dei tre criteri indicati dall’esperto (Income approach).
A fronte della indubbia complessita’ tecnica della relazione di stima, l’esiguo lasso temporale che intercorreva tra la consegna del documento e dei suoi allegati e la deliberazione del CDA aveva impedito ogni controllo o approfondimento dei risultati esposti nella perizia, sempre approvati con delibere adottate all’unanimita’.
Secondo la Corte territoriale, l’addebito mosso al ricorrente non riguardava affatto la decisione della Banca di affidare a un esperto indipendente l’incarico di predisporre perizie sul valore delle azioni e tanto meno le specifiche valutazioni del prezzo operate dal prof. (OMISSIS), quanto la vera e propria deregulation che, nel periodo preso a riferimento, aveva caratterizzato ciascuna delle fasi in cui si era articolato il procedimento di pricing, fissato sulla base di una prassi di difficile ricostruzione ex post.
Quanto all’elemento soggettivo delle violazioni, la pronuncia ha anzitutto dato atto che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 109 del 2017, aveva ribadito la riconducibilita’ al principio di legalita’ formale di tutte le misure a carattere punitivo-afflittivo, pur avendo parimenti escluso che all’illecito amministrativo potessero essere applicati i presidi che la Costituzione italiana assicura alle sanzioni (formalmente) penali.
Da punto di vista fattuale, inoltre, ha rilevato che sino al 12.02.2015 all’interno del CDA non erano state ripartite deleghe operative, cosi’ che tutti i consiglieri erano onerati di verificare che la societa’ fosse munita di un governo efficace dei rischi, esercitando una funzione dialettica e di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi.
Ne’ poteva invocarsi la buona fede sottolineando la pretesa esistenza di un disegno da parte dei vertici societari volto ad occultare le numerose irregolarita’ operative poi riscontrate in sede ispettiva, cio’ avuto riguardo al livello di diligenza richiesto ai componenti del CdA, designati sulla base di elevati e specifici requisiti previsti dall’articolo 13 t.u.f..
Sussisteva nella specie la violazione del dovere di informarsi, anche tramite interlocuzione con le strutture interne della societa’, onde poter poi richiamare l’attenzione dell’organo amministrativo circa il rispetto delle regole che governano la corretta esecuzione dei servizi di investimento.
Le mere rassicurazioni offerte dalle strutture interne non esimevano quindi dal dovere di un approfondimento.
Cio’ valeva in particolare per le violazioni procedurali di cui agli illeciti nn. 1, 3 e 4 nonche’ per quelle comportamentali di cui agli illeciti nn. 1 e 3. Quanto alla violazione di cui al n. 2, la sentenza osservava che il CdA aveva approvato le richieste di acquisto/cessione di azioni della (OMISSIS), sicche’ era in grado di potersi avvedere delle analisi sottostanti siffatte richieste, onde rilevare il legame che era stato instaurato tra i finanziamenti e gli acquisti delle azioni.
Inoltre gia’ nel 2014 la Consob aveva sollecitato la Banca a porre particolare attenzione al tema dei finanziamenti correlati all’acquisto di azioni proprie, il che avrebbe dovuto allertare anche l’opponente al fine di adempiere ai propri doveri di componente del CdA.
La Corte di merito ha – infine – ha giudicato congrua la sanzione complessiva comminata per le contestazioni mosse al reclamante. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso sulla base di dieci motivi complessivi.
La Consob ha resistito con controricorso.
In prossimita’ dell’adunanza camerale entrambe le parti hanno curato il deposito di memoria ex articolo 380 bis.1 c.p.c..
Atteso che:
– va preliminarmente esaminata la denuncia la illegittimita’ costituzionale del Decreto Legislativo n. 72 del 2015, articolo 6, comma 2, per contrasto agli articoli 3 e 25 Cost., e articolo 117 Cost., comma 1, per avere la Corte di merito escluso la retroattivita’ in mitius delle sanzioni in materia finanziaria come riformate per effetto del Decreto Legislativo n. 72 del 2015, quale profilo che darebbe luogo di per se stesso all’annullamento del provvedimento sanzionatorio oggetto di impugnazione.
Il ricorrente assume che l’articolo 190 TUF abbia natura penale in considerazione degli interessi protetti, della tipologia delle sanzioni previste, non correlate alla riparazione di un pregiudizio economico, ma aventi funzione deterrente e repressiva, idonee ad incidere gravemente sul patrimonio dell’incolpato e dell’ente stesso, e per tale via anche la sfera personale, essendo compressi diritti fondamentali dell’individuo.
Ad avviso del ricorrente dalla natura penale della sanzione discenderebbe l’applicabilita’ dell’articolo 7 della CEDU, che enuncia il principio della irretroattivita’ della norma penale piu’ severa, nonche’, implicitamente, quello della retroattivita’ della norma penale meno severa e dell’articolo 49, comma 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (“Carta di Nizza”).
La questione di legittimita’ costituzionale e’ manifestamente infondata.
Diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente deve escludersi per le sanzioni oggetto di causa la loro natura sostanzialmente penale. Risulta, invero, incensurabile la conclusione del giudice di merito che ha ritenuto che (cfr. Cass. n. 20689 del 2018) le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla CONSOB diverse da quelle di cui all’articolo 187 ter TUF non sono equiparabili, quanto a tipologia, severita’, incidenza patrimoniale e personale, a quelle appunto irrogate dalla CONSOB per manipolazione del mercato, sicche’ esse non hanno la natura sostanzialmente penale che appartiene a queste ultime, ne’ pongono, quindi, un problema di compatibilita’ con le garanzie di cui agli articoli 6 e 7 CEDU.
Trattasi di principio gia’ affermato in precedenza (cfr. Cass. n. 8855 del 2017; Cass. n. 1621 del 2018) e che risulta confermato anche dalla successiva giurisprudenza di legittimita’, che ha ribadito che (cfr. Cass. n. 4 del 2019; Cass. n. 5 del 2019; Cass. n. 31632 del 2019) con riferimento alle stesse, non si pone un problema di compatibilita’ con le garanzie riservate ai processi penali dall’articolo 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo ne’ di applicabilita’ del successivo articolo 7 della medesima Convenzione.
Posta tale precisazione, e ribadita quindi l’impossibilita’ di invocare per il procedimento de quo le garanzie costituzionali e convenzionali che invece sono approntate per le sanzioni penali, ancorche’ solo in senso sostanziale, deve farsi applicazione la volonta’ espressa dal legislatore che ha chiaramente statuito al citato Decreto Legislativo n. 72, articolo 6, che le modifiche apportate alla parte V del Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, si applicano alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia secondo le rispettive competenze ai sensi del Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, articolo 196 bis. Alle violazioni commesse prima della data di entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia continuano ad applicarsi le norme della parte V del Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, vigenti prima della data di entrata in vigore del presente decreto legislativo.
Va quindi confermato l’orientamento gia’ espresso in passato secondo cui le modifiche alla parte V del Decreto Legislativo n. 58 del 1998, apportate dal Decreto Legislativo n. 72 del 2015, non si applicano alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia, poiche’ in tal senso dispone l’articolo 6 del Decreto Legislativo n. 72 cit., ne’ trova applicazione alle sanzioni amministrative, in assenza di una specifica disposizione amministrativa, il principio cd. del “favor rei”, di matrice penalistica. Tale interpretazione non viola i principi convenzionali enunciati dalla Corte EDU nella sentenza 4 marzo 2014 (Grande Stevens ed altri c/o Italia) – secondo la quale l’avvio di un procedimento penale a seguito delle sanzioni amministrative comminate sui medesimi fatti violerebbe il principio del “ne bis in idem” – atteso che tali principi non possono indurre a ritenere che una sanzione, qualificata come amministrativa dal diritto interno, abbia sempre ed a tutti gli effetti natura sostanzialmente penale, con conseguente irrilevanza di un’eventuale questione di costituzionalita’ ai sensi dell’articolo 117 Cost. (Cass. n. 13433 del 2016; Cass. n. 26131 del 2015).
Piu’ di recente questa Corte ha ribadito tale soluzione (cfr. Cass. n. 16323 del 2019, in motivazione), che ha disatteso analoga censura proprio in relazione a sanzioni irrogate ai sensi dell’articolo 190 t.u.f.
E’ stato sottolineato che i principi di legalita’, irretroattivita’ e di divieto dell’applicazione analogica di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689, articolo 1, in tema di sanzioni amministrative, comportano infatti l’assoggettamento della condotta illecita alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilita’ della disciplina posteriore piu’ favorevole, sia che si tratti di illeciti amministrativi derivanti da depenalizzazione, sia che essi debbano considerarsi tali “ab origine”, senza che possano trovare applicazione analogica, attesa la differenza qualitativa delle situazioni considerate, gli opposti principi di cui all’articolo 2 c.p., commi 2 e 3, i quali, recando deroga alla regola generale dell’irretroattivita’ della legge, possono, al di fuori della materia penale, trovare applicazione solo nei limiti in cui siano espressamente richiamati dal legislatore (Cass. n. 29411 del 2011). E’ stata altresi’ ritenuta irrilevante un’eventuale questione di costituzionalita’ ai sensi dell’articolo 117 Cost., aggiungendosi che le conclusioni risultavano confortate anche dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, la quale con la pronuncia n. 193 del 20.7.2016 ha ritenuto non fondata la questione di legittimita’ costituzionale della L. 24 novembre 1981, n. 689, articolo 1, impugnato, in riferimento all’articolo 3 Cost., articolo 117 Cost., comma 1, articoli 6 e 7 CEDU, nella parte in cui – nel definire il principio di legalita’ che consente di irrogare sanzioni amministrative solo in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione e nei casi e per i tempi ivi considerati – non prevede l’applicazione della legge successiva piu’ favorevole agli autori degli illeciti amministrativi. In tal senso la Consulta ha osservato che la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha enucleato il principio di retroattivita’ della legge penale meno severa, non ha mai avuto ad oggetto il complessivo sistema delle sanzioni amministrative, bensi’ singole e specifiche discipline sanzionatorie che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche punitive alla luce dell’ordinamento convenzionale. L’invocato intervento additivo risulta travalicare l’obbligo convenzionale e disattende la necessita’ della preventiva valutazione della singola sanzione come convenzionalmente penale. Nel quadro delle garanzie apprestato dalla CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, non si rinviene l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio di retroattivita’ della legge piu’ favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative. Ne’ sussiste un analogo vincolo costituzionale poiche’ rientra nella discrezionalita’ del legislatore, nel rispetto del limite della ragionevolezza, modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore. Il differente e piu’ favorevole trattamento riservato ad alcune sanzioni, come quelle tributarie e valutarie, trova fondamento nelle peculiarita’ che caratterizzano le rispettive materie e non puo’ trasformarsi da eccezione a regola, coerentemente con il principio generale di irretroattivita’ della legge e con il divieto di applicazione analogica delle norme eccezionali (articoli 11 e 14 preleggi). Le considerazioni in questione hanno poi portato ad affermare che, proprio in ragione dell’esclusione della natura penale delle sanzioni in esame, non si profila nemmeno un ipotetico vizio di eccesso di delega (tenuto conto che la legge in questione affidava al legislatore delegato una valutazione autonoma in merito all’opportunita’ di estendere il principio del favor rei a seguito della novella), ne’ appare configurabile la dedotta violazione degli articoli 117 e 3 Cost., dovendosi quindi disattendere la richiesta di sollevare la questione di legittimita’ costituzionale, da ritenere peraltro manifestamente infondata proprio alla luce della motivazione del precedente della Consulta sopra indicato (in senso conforme Cass. n. 17209/2020, nonche’ Cass. n. 16517/2020, quanto alle sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia).
Ne’ infine puo’ deporre in senso contrario l’intervento della Corte Costituzione di cui alla sentenza n. 63/2019, che ha ritenuto costituzionalmente illegittimo il Decreto Legislativo 12 maggio 2015, n. 72, articolo 6, comma 2, in relazione all’articolo 3 Cost., e articolo 117 Cost., comma 1, quest’ultimo per rinvio all’articolo 7 della CEDU, nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche favorevoli apportate dal comma 3 dello stesso articolo 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito disciplinato dal Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, articolo 187 bis, avendo chiaramente ribadito che la regola di derivazione penale deve ritenersi applicabile anche agli illeciti amministrativi aventi natura e funzione punitiva, salvo che vi sia la necessita’ di tutelare interessi di rango costituzionale prevalenti tali da resistere al ” vaglio positivo di ragionevolezza “, al cui metro debbono essere valutate le deroghe al principio di retroattivita’ in mitius.
La dedotta esclusione del carattere sostanziale penale delle sanzioni oggetto di causa esclude quindi la possibilita’ di invocare a favore della tesi del ricorrente l’arresto del giudice delle leggi;
– passando ad esaminare il merito, con il primo motivo il ricorrente espone, in rapporto all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione dell’articolo 1, comma 2, e articolo 21, comma 1, lettera d) e lettera a) T.U.F. quanto alla riconducibilita’ delle azioni di banca popolare al perimetro applicativo dei servizi di investimento. Ad avviso del ricorrente, la Corte distrettuale nella disamina della violazione n. 1, riguardante la valutazione di adeguatezza delle operazioni su azioni della Banca, ha ritenuto erroneamente che si fosse incorsi nella mancata applicazione della disciplina c.d. MiDIF di cui al TUF nell’operare la Banca sulle proprie azioni e cio’ nonostante la disciplina in materia di servizi di investimento alle azioni di banca popolare poggi su un quadro normativo incerto.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti quanto all’imputazione, sotto il profilo oggettivo, al Dott. (OMISSIS) del fenomeno dei c.d. finanziamenti baciati. Premesso che il periodo di riferimento della violazione n. 2 individuato dalla Consob va dall’1.1.2012 al 22.4.2015, ad avviso del ricorrente la Corte distrettuale avrebbe dovuto escludere la riferibilita’ a lui di eventuali irregolarita’ comportamentali successive alle sue dimissioni avvenute il 22.4.2012. Di converso le statuizioni della Corte territoriale si fonda sulla base di una ricostruzione delle dichiarazioni rese da funzionari che attesterebbero l’esistenza di operazioni di finanziamenti c.d. baciati gia’ a partire dal 2009, per arrivare ad affermare che il fenomeno sarebbe stato talmente diffuso e consolidato da coinvolgere, come tale, la sfera di cognizione dei consiglieri non esecutivi quale il Dott. (OMISSIS). Si tratterebbe di motivazione evidentemente viziata.
I primi due motivi di censura, da trattare unitariamente per la evidente connessione che li avvince, sono inammissibili.
La denuncia di plurime violazioni di legge scherma, in realta’, null’altro che una doglianza relativa alla complessiva ricostruzione dei fatti e delle responsabilita’ singole, estranea alla natura e alla funzione del giudizio di legittimita’.
Ed infatti, il vizio di violazione di legge per sua stessa definizione non puo’ mai derivare dall’erroneo o dal carente apprezzamento delle risultanze istruttorie. Del tutto ferma e’ la giurisprudenza di questa Corte in base alla quale nel ricorso per cassazione il vizio della violazione e falsa applicazione della legge di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1 n. 3, giusta il disposto di cui all’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilita’, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimita’ o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (cosi’, a partire da Cass. n. 16132 del 2005 fino a Cass. n. 16038 del 2013). Pertanto, sono inammissibili le censure che – come nel caso che qui ne occupa – pretendano di dimostrare la violazione o falsa applicazione di legge censurando l’apprezzamento delle risultanze istruttorie operato dal giudice di merito, sol perche’ non conforme alle aspettative della parte.
Quanto, poi, alla prospettata inconsapevolezza del ricorrente circa l’attivita’ di vendita delle azioni della banca, va rimarcato che nell’ambito dell’illecito amministrativo il principio posto dalla L. n. 689 del 1981, articolo 3, secondo il quale, per le violazioni amministrativamente sanzionate, e’ richiesta la coscienza e volonta’ della condotta attiva od omissiva, sia essa dolosa o colposa, postula una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, non essendo necessaria la concreta dimostrazione del dolo o della colpa in capo all’agente, sul quale grava, pertanto, l’onere della dimostrazione di aver agito senza colpa (Cass. n. 11777 del 2020).
Inoltre, il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle societa’ bancarie, sancito dall’articolo 2381 c.c., commi 3 e 6, e articolo 2392 c.c., non va rimesso, nella sua concreta operativita’, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacche’ anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da potere efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi (Cass. n. 5606 del 2019, in fattispecie relativa a sanzioni irrogate al presidente del consiglio di amministrazione di una societa’ finanziaria; conforme, Cass. n. 2737 del 2013).
Nella specie, la Corte distrettuale ha operato una corretta e puntuale applicazione di tali principi, laddove, in punto di elemento oggettivo e soggettivo, ha premesso l’inversione dell’onere della prova derivante dalla L. n. 689 del 1981, articolo 3; ha accertato il livello di diligenza correlato all’assunzione della carica societaria, nello specifico settore dell’intermediazione mobiliare e in assenza di deleghe, da valutare in base all’articolo 13 T.U.F. e al Decreto Ministeriale Tesoro n. 468 del 98; rilevato il radicale difetto di prova dell’inesigibilita’ della condotta attiva intesa ad assumere informazioni ed esercitare i poteri di direttiva spettanti al CdA; precisato che l’attribuzione degli specifici compiti previsti dall’articolo 2381 c.c., non implica che il presidente sia spogliato delle attribuzioni proprie di ciascun componente dell’organo collegiale; ritenuto, di riflesso, l’irrilevanza della prova di condotte dolose dell’alta dirigenza della banca, poiche’ neppure l’eventuale dimostrazione dell’attuazione di un disegno volto ad occultare le numerose irregolarita’ operative addebitate dalla Consob avrebbe potuto incidere sulla colpevole inerzia dei componenti del CdA nell’acquisire informazioni sulla gestione operativa proprio per la consapevolezza di tale modus operandi dei vertici operativi della Banca, che gia’ prima del maggio 2012, e quindi quando ancora il ricorrente aveva la funzione di componente del CdA, a seguito di un intervento del Direttore Generale e del Responsabile della Divisione Mercati, (OMISSIS) e (OMISSIS), alle operazioni “baciate” era stata affiancata una massiccia iniziativa mirata a richiedere a tutti i clienti, a qualsiasi titolo finanziati, di investire in azione (OMISSIS) parte del denaro prestato dalla Banca.
Ne’ risponde al vero che la Corte territoriale non abbia tenuto conto che il (OMISSIS) era cessato dalla carica in data 26.4.2012, avendone tenuto conto con riferimento al materiale probatorio acquisito con riferimento agli investimenti a partire dal 2013 (v. pag. 31 della sentenza impugnata;
– con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’articolo 2729 c.c., per avere la sentenza – con riferimento alle violazioni comportamentali – ritenuto di presumere l’elemento soggettivo della colpa del ricorrente (gia’ in se’ presunta) sulla base di un’ulteriore presunzione (“e’ verosimile”) che la condotta dolosa dell’alta dirigenza della Banca sia stata agevolata dalle violazioni procedurali, e che cio’ rientrasse nella sfera di rappresentabilita’ dei Consiglieri di amministrazione.
Deduce il ricorrente che dalla presunzione di colpa la sentenza trae un’ulteriore presunzione per innestarvi il riscontro dell’elemento soggettivo in capo al ricorrente anche per cio’ che attiene alle violazioni comportamentali di cui agli illeciti nn. 1 e 2.
La sentenza ha ritenuto che pur essendo il ricorrente ignaro della condotta dolosa del Gruppo dirigenziale, la avrebbe agevolata omettendo di fare quanto dallo stesso doveva attendersi, dovendo invece raffigurarsi la ineluttablita’ degli accadimenti verificatisi, alla luce del complessivo quadro fattuale posto a sua disposizione.
Il motivo e’ inammissibile in quanto, oltre a non confrontarsi con l’effettivo contenuto della sentenza impugnata, sollecita nella sostanza anche in tal caso una complessiva rivalutazione del materiale istruttorio, al fine di pervenire ad un esito piu’ soddisfacente rispetto a quello cui e’ pervenuto il giudice di merito. Va quindi richiamato il principio affermato dalle Sezioni Unite (sentenza n. 20930 del 2009), secondo cui in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, l’opposizione prevista dal Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, articolo 195, da’ luogo, non diversamente da quella di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689, articoli 22 e 23, ad un ordinario giudizio di cognizione, nel quale l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa sanzionatoria e’ posto a carico dell’Amministrazione, la quale e’ pertanto tenuta a fornire la prova della condotta illecita, ben potendo tale prova essere offerta anche mediante presunzioni semplici, che, nel caso di illecito omissivo, pongono a carico dell’intimato l’onere di fornire la prova di aver tenuto la condotta attiva richiesta, ovvero della sussistenza di elementi tali da rendere inesigibile tale condotta, per rilevare che non ricorre la dedotta violazione della regola del divieto della praesumptio de praesumpto.
La sentenza impugnata, avvalendosi della complessa attivita’ ispettiva della Consob ha riscontrato l’oggettiva ricorrenza delle condotte illecite contestate, delle quali ha attribuito la paternita’ nella forma omissiva al ricorrente, in ragione della carica societaria rivestita, che lo impegnava, in presenza di significativi indici di anomalia procedurale e comportamentale, ad attivarsi, senza potersi accontentare delle rassicurazioni offerte da altri organi societari, anche avvalendosi di documenti in possesso della societa’, di cui avrebbe dovuto chiedere visione.
L’inerzia serbata dal ricorrente e’ stata ritenuta contraria ai doveri impostigli dalla funzione, escludendosi che l’attivita’ dolosa della dirigenza potesse assurgere al rango di causa di inesigibilita’ della condotta invece doverosa.
La Corte d’appello ha a monte ritenuto che le violazioni procedurali fossero di tale rilevanza, ed immediatamente percepibili da parte di un componente del CdA, in ragione dei requisiti professionali imposti dalla legge, aggiungendo che sebbene tali violazioni avessero potuto favorire un disegno illecito di alcuni dirigenti, anche la condotta volta ad occultare le irregolarita’ commesse, non avrebbe potuto elidere il dovere di agire informato incombente sul ricorrente;
– con il quarto motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione fra le parti rilevante quanto all’imputazione, sotto il profilo oggettivo, al Dott. (OMISSIS) di violazioni nella trattazione di ordini di vendita di azioni della Banca. Deduce il ricorrente che la Corte distrettuale avrebbe omesso di rilevare il difetto di prova della Consob con riguardo alla posizione specifica del (OMISSIS) con riferimento all’illecito n. 3. In altri termini, vi sarebbe un’anomalia motivazionale circa la riferibilita’ al (OMISSIS) della asserita carenza procedurale in tema di trattazione di ordini sulle azioni proprie.
Il motivo e’ inammissibile in quanto sollecita un’indebita rivalutazione del merito da parte del giudice di legittimita’.
Una volta richiamati i principi espressi in occasione della disamina del precedente motivo, quanto in particolare all’estensione dei doveri incombenti sui componenti del CdA, e ribadito che (cfr. Cass. n. 30072 del 2017), come gia’ condivisibilmente statuito da Cass., Sez. Un., n. 20933 del 2009, tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, i componenti del consiglio di amministrazione di una societa’ (ovvero l’amministratore delegato unico), chiamati a rispondere per la violazione dei doveri inerenti alla prestazione dei servizi di investimento posti a tutela degli investitori e del buon funzionamento del mercato, non possono sottrarsi alla responsabilita’ adducendo che le operazioni integranti l’illecito siano state poste in essere, con ampia autonomia, da un altro soggetto che abbia agito per conto della societa’, gravando a loro carico un dovere di vigilanza sul regolare andamento della societa’, la cui violazione comporta una responsabilita’ solidale, ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, articolo 6, salvo che non provino di non aver potuto impedire il fatto (prova che, nel caso di specie, il giudice del merito ha ritenuto non fornita dal ricorrente), la doglianza mira ad ottenere una rivalutazione della condotta illecita dell’alta dirigenza della societa’, condotta che la sentenza, con accertamento in fatto, ha escluso che fosse idonea a determinare l’inesigibilita’ dell’obbligo di agire informati gravante su ogni amministratore, anche non esecutivo, cosi’ come imposto dall’articolo 2381 c.c., e cio’ anche in merito al rispetto delle procedure ed in relazione alle condotte dei dipendenti della banca, attesa la obiettiva percepibilita’ delle anomalie riscontrate, che non potevano giustificare l’inerzia del ricorrente.
Ne’ deve trascurarsi, alla luce della nozione di fatto di cui si denuncia l’omessa disamina, quale configurato nell’interpretazione dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come scaturente dalla novella del 2012, che anche in questo caso si lamenta la mancata condivisione di un giudizio della parte, e precisamente dell’apprezzamento in merito all’incidenza causale della condotta dei vertici aziendali sulla esigibilita’ della diversa condotta omissive del ricorrente, avendo comunque la sentenza tenuto conto del fatto costituito dall’attivita’ di occultamento posta in essere dalla direzione generale (ma reputata in concreto non avere carattere tale da rendere inesigibile il compito incombente sul ricorrente);
– con il quinto motivo il ricorrente denuncia un ulteriore omesso esame con riferimento alle procedure per il pricing dell’azione BRVI, avendo confermato la statuizione nonostante le carenze probatorie della Consob per non essere la riferibilita’ alla posizione del (OMISSIS) le patologie verificatesi, sopratttutto successivamente alle sue dimissioni del 26.04.2012.
Anche siffatto mezzo e’ privo di pregio.
Va in primo luogo ribadita la riconducibilita’ delle azioni alla nozione di valori mobiliari quale evincibile dal disposto dell’articolo 1, comma 1 bis, lettera a), t.u.f. (si veda in questo senso anche Cass. n. 8590/2018), e cio’ anche per le azioni delle banche popolari, cosi’ che la vendita delle stesse azioni in contropartita diretta con la clientela nella nozione di negoziazione in conto proprio che l’articolo 1, comma 5 bis, lettera a) del t.u.f. fa rientrare tra i servizi ed attivita’ di investimento (in tal senso si veda Cass. n. 11876/2016, secondo cui la negoziazione in contropartita diretta costituisce uno dei servizi di investimento al cui esercizio l’intermediario e’ autorizzato, al pari della negoziazione per conto terzi, come si evince dalle definizioni contenute nel Decreto Legislativo n. 58 del 1998, articolo 1, essendo essa una delle modalita’ con le quali l’intermediario puo’ dare corso ad un ordine di acquisto o di vendita di strumenti finanziari impartito dal cliente; conf. Cass. n. 28432/2011).
Per effetto di tale considerazione deve reputarsi quindi incensurabile la valutazione del giudice di merito che ha postulato la necessaria esistenza di una procedura strutturata per il pricing dell’azione della (OMISSIS), desumendo tale necessita’ da una indicazione Consob riferita a prodotti di investimento (OTC, obbligazioni strutturate, etc.) del tutto diversi in Relazione alla quarta sanzione irrogata. Infatti, pur in assenza di una norma positiva che preveda la proceduralizzazione della selezione degli esperti chiamati alla stima dello strumento finanziario, l’articolo 21, comma, lettera d) t.u.f. e l’articolo 15 del regolamento congiunto impongono una procedura di pricing massimamente oggettiva ed esaustiva.
La qualificazione delle azioni come prodotti finanziari illiquidi e la circostanza della loro collocazione presso la clientela della banca esclude che la determinazione del prezzo sia un’operazione avente mera valenza interna ma induce ad affermare la sua chiara correlazione alla prestazione di servizi di investimento, con la necessita’ quindi di determinare il fair value del titolo con una procedura il piu’ possibile oggettiva, precisa ed esaustiva.
L’adempimento degli obblighi di correttezza e trasparenza nella prestazione dei servizi di investimento impone anche l’adozione di idonee ed oggettive procedure di fissazione del prezzo dello strumento finanziario e cio’ discende dalla normazione primaria, essendo incensurabile l’assunto della Corte d’Appello che ha attribuito alla Comunicazione della Consob DIN/9019104 del 2.3.2009, nella parte in cui ribadisce che la determinazione del fair value sulla base di strumenti basati su metodologie riconosciute e diffuse sul mercato proporzionate alla complessita’ del prodotto, valga anche per i prodotti di propria emissione ovvero per gli intermediari che operano in contropartita diretta con la clientela, valenza meramente interpretativa e non anche innovativa o creativa di una regola non gia’ esistente, come invece assume parte ricorrente.
L’adozione della procedura di pricing, con le caratteristiche richieste in sentenza, deriva dallo stesso t.u.f. e dal ricordato regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob.
Il motivo non contesta tale articolato ragionamento del giudice di merito, ma si limita a rilevare l’estraneita’ della violazione rispetto al servizio di investimento, non avvedendosi come anche la corretta determinazione del valore delle azioni proprie, deve avvenire in base ad una procedura che, seppure coinvolgente un esperto terzo ed indipendente, deve a sua volta soddisfare dei parametri procedimentali volti a garantire la trasparenza e l’affidamento del mercato.
Ne’ risponde al vero che la Corte territoriale non abbia tenuto conto che il (OMISSIS) era cessato dalla carica in data 26.4.2012, avendone tenuto conto con riferimento al materiale probatorio acquisito con riferimento agli investimenti a partire dal 2013 (v. pag. 31 della sentenza impugnata), come gia’ rilevato con riferimento ai primi due mezzi;
– con il sesto motivo viene denunciato un ulteriore omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione fra le parti con riferimento all’esistenza di funzioni delegate all’interno della CdA della Banca nel periodo in cui ne era parte il ricorrente. In altri termini il giudice di merito non avrebbe considerato che nel periodo in contestazione il (OMISSIS) aveva il ruolo di consigliere non esecutivo.
Con il settimo motivo il ricorrente nel denunciare la violazione e la falsa applicazione degli articoli 2381 e 2392 c.c., insiste sulla erroneita’ della pronuncia che ha ritenuto sussistere la responsabilita’ del (OMISSIS) pur in assenza di incarichi esecutivi.
Con l’ottavo motivo viene lamentato l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione fra le parti con riferimento alla prova dell’inesigibilita’ di una differente condotta da parte dell’amministratore non esecutivo quale era il (OMISSIS).
Le censure – da esaminare unitariamente in quanto vertenti tutte sul ruolo ricoperto dal ricorrente all’interno del CdA – sono prive di pregio.
Occorre preliminarmente osservare che la lettura delle norme contenute nel t.u.f. ed in particolare degli articoli 5 e 6, conferma la correttezza della decisione che va qui ribadita, essendo evidente, alla luce delle contestazioni mosse, come le violazioni riscontrate attengano alla vigilanza di cui alle attivita’ dell’articolo 5, comma 1, per gli aspetti che sono strettamente inerenti alla trasparenza ed alla correttezza dei comportamenti, essendo state prese in esame le singole condotte per la loro capacita’ di incidere sul collocamento e la contrattazione delle azioni emesse dalla stessa banca, in vista dell’offerta a potenziali investitori. Investire in azioni non quotate tramite finanziamento concesso dalla banca costituisce un’operazione rischiosa che avrebbe richiesto ben altra considerazione dell’interesse del cliente, il quale avrebbe dovuto, fra l’altro, essere specificamente dedotto in merito al rischio elevato dell’operazione comportava in modo da assumere una decisione di investimento consapevole rispondente alle proprie esigenze. Peraltro, si tratta di illeciti di mera condotta e di pericolo che si consumano nel momento in cui la regola di condotta viene violata, senza che possa rilevare la presunta mancanza di conseguenze negative in concreto per il cliente.
Va quindi ribadito quanto affermato con riferimento all’investimento, in funzione di protezione tanto del cliente, soggetto debole nell’ambito del rapporto intercorrente con l’operatore finanziario, quanto della corretta gestione dei servizi sul mercato finanziario (cfr. Cass. 3845/20, pag. 8; si veda anche, nello stesso senso Cass. 21017/19; Cass. 2333/2021).
Se infatti, in linea generale, e’ stato affermato che, in virtu’ della modifica dell’articolo 2392 c.c., avvenuta a seguito della riforma delle societa’ di capitali del 2003, gli amministratori privi di deleghe (c.d. non operativi) non sono piu’ sottoposti ad un generale obbligo di vigilanza, tale da trasmodare di fatto in una responsabilita’ oggettiva, per le condotte dannose degli altri amministratori, ma rispondono solo quando non abbiano impedito fatti pregiudizievoli di quest’ultimi in virtu’ della conoscenza – o della possibilita’ di conoscenza, per il loro dovere di agire informati ex articolo 2381 c.c., di elementi tali da sollecitare il loro intervento alla stregua della diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze (in questi termini Cass. n. 17441 del 2016), va tuttavia considerato, per contro, che, nell’ordinamento sezionale del credito, il dovere di agire informati si connota con caratteristiche di particolare incisivita’, perche’ si inscrive in una sfera di responsabilita’ dell’amministratore che non e’ soltanto quella, di natura contrattuale, di cui il medesimo e’ gravato nei confronti dei soci della societa’ ma e’ anche quella, di natura pubblicistica, di cui il medesimo e’ gravato nei confronti dell’Autorita’ di vigilanza. Questa Corte, infatti, non ha mancato di sottolineare che, ai fini del contenimento del rischio creditizio nelle sue diverse configurazioni nonche’ dell’organizzazione societaria e dei controlli interni, il Decreto Legislativo n. 385 del 1993, articolo 53, lettera b) e d), e le disposizioni attuative dettate con le Istruzioni di vigilanza per le banche, mediante la circolare n. 229 del 1999 (e successive modificazioni e integrazioni), sanciscono doveri di particolare pregnanza in capo al consiglio di amministrazione delle societa’ bancarie, che riguardano l’intero organo collegiale e, dunque, anche i consiglieri non esecutivi, i quali sono tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei loro requisiti di professionalita’, ad ostacolare l’evento dannoso, sicche’ rispondono del mancato utile attivarsi (cfr. Cass. n. 22848 del 2015).
Nelle sentenze n. 2737 del 2013, n. 5606 del 2019 e n. 24851 del 2019 si e’ poi ulteriormente precisato che, in tema di sanzioni amministrative previste dal Decreto Legislativo n. 385 del 1993, articolo 144, il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle societa’ bancarie, sancito dall’articolo 2381 c.c., commi 3 e 6, e articolo 2392 c.c., non va rimesso, nella sua concreta operativita’, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacche’ anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del “business” bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega. Ne consegue che il consigliere di amministrazione non esecutivo di societa’ per azioni, e a maggior ragione il direttore generale, in conformita’ al disposto dell’articolo 2392 c.c., comma 2, che concorre a connotare le funzioni gestorie tanto dei consiglieri non esecutivi, quanto di quelli esecutivi, e’ solidalmente responsabile della violazione commessa quando non intervenga al fine di impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose.
Ed invero (fermo il principio, in materia di sanzioni amministrative, di tipicita’ e di riserva di legge fissato dalla L. n. 689 del 1981, articolo 1) la portata precettiva dell’articolo 191, comma 2, t.u.f., nella formulazione applicabile ratione temporis, si specifica anche in conformita’ al disposto dell’articolo 2392 c.c., comma 2, che concorre a connotare le funzioni gestorie – e dunque pur le funzioni sottese alla prefigurazione normativa di cui all’articolo 191 cit., vigente comma 2, “chiunque viola l’articolo 94, commi 2, 3, 5, 6 e 7 (…)” – e dei consiglieri esecutivi e dei consiglieri non esecutivi di societa’ per azioni altresi’ “in chiave omissiva” alla stregua dell’inciso “in ogni caso gli amministratori (…) sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”.
In tal guisa appieno si legittima la contestazione di “omessa vigilanza”, in toto si accredita l’affermazione della corte distrettuale secondo cui “l’eventuale responsabilita’ dell’amministratore non delegato (…) discende pur sempre dal peculiare compito istituzionale attribuito al medesimo in seno all’organismo societario” (cosi’ decreto impugnato, pag. 8) e per nulla si giustifica la prospettazione del ricorrente secondo cui “deve (…) escludersi che gli amministratori non esecutivi possano essere ritenuti responsabili per la violazione di altri soggetti (…) delle condizioni di svolgimento delle attivita’ indicate dagli articoli 94 e 113 T.U.F.” (Cass. n. 27365 del 2018); le singole condotte per la loro capacita’ di incidere sul collocamento e la contrattazione delle azioni emesse dalla stessa banca, in vista dell’offerta a potenziali investitori. Peraltro, come evidenziato dalla controricorrente, nella documentazione reperita non si rinviene alcuna traccia di valutazione, condotte nell’ambito delle operazioni, inerenti la cura dell’interesse del cliente, le sue caratteristiche i suoi bisogni. Investire in azioni non quotate tramite finanziamento concesso dalla banca, invece, costituisce un’operazione rischiosa che avrebbe richiesto ben altra considerazione dell’interesse del cliente, il quale avrebbe dovuto, fra l’altro, essere specificamente dedotto in merito al rischio elevato dell’operazione comportava in modo da assumere una decisione di investimento consapevole rispondente alle proprie esigenze. Peraltro, si tratta di illeciti di mera condotta e di pericolo che si consumano nel momento in cui la regola di condotta da viene violata, senza che possa rilevare la presunta mancanza di conseguenze negative in concreto per il cliente.
I componenti del consiglio di amministrazione di una societa’ (ovvero l’amministratore delegato unico), chiamati a rispondere per la violazione dei doveri inerenti alla prestazione dei servizi di investimento posti a tutela degli investitori e del buon funzionamento del mercato, non possono sottrarsi alla responsabilita’ adducendo che le operazioni integranti l’illecito siano state poste in essere, con ampia autonomia, da un altro soggetto che abbia agito per conto della societa’, gravando a loro carico un dovere di vigilanza sul regolare andamento della societa’, la cui violazione comporta una responsabilita’ solidale, ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, articolo 6, salvo che non provino di non aver potuto impedire il fatto (prova che, nel caso di specie, il giudice del merito ha ritenuto non fornita dal ricorrente).
Ne’ deve trascurarsi, alla luce della nozione di fatto di cui si denuncia l’omessa disamina, quale configurato nell’interpretazione dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come scaturente dalla novella del 2012, che anche in questo caso si lamenta la mancata condivisione di un giudizio della parte, e precisamente dell’apprezzamento in merito all’incidenza causale della condotta dei vertici aziendali sulla esigibilita’ della diversa condotta omissive del ricorrente, avendo comunque la sentenza tenuto conto del fatto costituito dall’attivita’ di occultamento posta in essere dalla direzione generale (ma reputata in concreto non avere carattere tale da rendere inesigibile il compito incombente sul ricorrente);
– con il nono motivo il ricorrente si duole della violazione e della falsa applicazione degli articoli 2697 e 115 c.p.c., dell’articolo 195 t.u.f. in materia di ripartizione dell’onere della prova del fatto costitutivo del provvedimento sanzionatorio. Il (OMISSIS) lamenta che la Corte distrettuale abbia omesso di considerare gli elementi di prova dallo stesso dedotti a dimostrazione dell’inesigibilita’ di una diversa condotta.
Il motivo e’ inammissibile in quanto, oltre a non confrontarsi con l’effettivo contenuto della sentenza impugnata, sollecita nella sostanza anche in tal caso una complessiva rivalutazione del materiale istruttorio, al fine di pervenire ad un esito piu’ soddisfacente rispetto a quello cui e’ pervenuto il giudice di merito. Va quindi richiamato il principio affermato dalle Sezioni Unite (sentenza n. 20930/2009 cit.), secondo cui in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, l’opposizione prevista dal Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, articolo 195, da’ luogo, non diversamente da quella di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689, articoli 22 e 23, ad un ordinario giudizio di cognizione, nel quale l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa sanzionatoria e’ posto a carico dell’Amministrazione, la quale e’ pertanto tenuta a fornire la prova della condotta illecita, ben potendo tale prova essere offerta anche mediante presunzioni semplici, che, nel caso di illecito omissivo, pongono a carico dell’intimato l’onere di fornire la prova di aver tenuto la condotta attiva richiesta, ovvero della sussistenza di elementi tali da rendere inesigibile tale condotta.
La sentenza impugnata, avvalendosi della complessa attivita’ ispettiva della Consob ha riscontrato l’oggettiva ricorrenza delle condotte illecite contestate, delle quali ha attribuito la paternita’ nella forma omissiva al ricorrente, in ragione della carica societaria rivestita, che lo impegnava, in presenza di significativi indici di anomalia procedurale e comportamentale, ad attivarsi, senza potersi accontentare delle rassicurazioni offerte da altri organi societari, anche avvalendosi di documenti in possesso della societa’, di cui avrebbe dovuto chiedere visione.
L’inerzia serbata dal ricorrente e’ stata ritenuta contraria ai doveri impostigli dalla funzione, escludendosi che l’attivita’ dolosa della dirigenza potesse assurgere al rango di causa di inesigibilita’ della condotta invece doverosa.
La Corte d’appello ha a monte ritenuto che le violazioni procedurali fossero di tale rilevanza, ed immediatamente percepibili da parte di un componente del Collegio sindacale, in ragione dei requisiti professionali imposti dalla legge, aggiungendo che sebbene tali violazioni avessero potuto favorire un disegno illecito di alcuni dirigenti, anche la condotta volta ad occultare le irregolarita’ commesse, non avrebbe potuto elidere il dovere di agire informato incombente sul ricorrente;
con il decimo motivo il ricorrente lamenta l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti con riferimento alla quantificazione della sanzione comminata, che ad avviso del (OMISSIS) sarebbe del tutto arbitraria nell’an e nel quantum.
In tema di opposizione a sanzione amministrativa, nel caso di contestazione della misura della stessa, il giudice e’ autonomamente chiamato a controllarne la rispondenza alle previsioni di legge, senza essere soggetto a parametri fissi di proporzionalita’ correlati al numero ed alla consistenza degli addebiti, e puo’ reputare congrua l’entita’ della sanzione inflitta in riferimento ad una molteplicita’ di incolpazioni anche qualora escluda l’esistenza di alcune di esse (Cass. n. 6778 del 2015). Tale valutazione, una volta riscontrata l’astratta corrispondenza dei fatti contestati all’illecito amministrativo tipizzato, si sottrae al sindacato di legittimita’, dovendo il Giudice di merito valutare la legittimita’ e congruita’ della sanzione inflitta, tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda.
Ne consegue che la doglianza si risolve in un’inammissibile censura sull’insufficienza della motivazione in ordine all’applicazione dei parametri di cui alla L. n. 689 del 1981, articolo 11.
Nella specie, invece, la Corte di appello ha motivato sulle ragioni del rigetto del motivo di opposizione relativo alla quantificazione della sanzione.
In particolare la Corte d’Appello ha ritenuto, in conformita’ con la giurisprudenza di questa Corte, che nel procedimento di opposizione a sanzione amministrativa pecuniaria la motivazione dell’ordinanza ingiunzione in ordine alla concreta determinazione della sanzione non assume rilievo, risolvendosi semplicemente nell’esposizione dei criteri seguiti dall’autorita’ ingiungente per pervenire alla liquidazione della somma pretesa e dall’altro che il giudice dell’opposizione, investito della questione relativa alla congruita’ della sanzione, non e’ chiamato propriamente a controllare la motivazione dell’atto sul punto, ma a determinare la sanzione applicando direttamente i criteri previsti dalla L. n. 689 del 1981, articolo 11. Correttamente, pertanto, la Corte distrettuale lo ha escluso che l’adeguatezza della motivazione sull’entita’ della sanzione fosse determinante al fine di stabilire la legittimita’ o meno del provvedimento sanzionatorio e ha poi richiamato, sia pure solo genericamente, i parametri di cui al citato articolo 11, al fine di confermare la congruita’ della sanzione irrogata dall’Autorita’ di vigilanza.
Tale motivazione, sia pure estremamente sintetica, e’ sufficiente ad integrare il minimum costituzionale non potendosi qualificare come inesistente o apparente.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato, dovendosi regolare le spese in base al principio della soccombenza, come da dispositivo. Poiche’ il ricorso e’ stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed e’ rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilita’ 2013), che ha aggiunto l’articolo 13, comma 1 quater, del testo unico di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso in favore della controricorrente delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 7.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 1 5 % sui compensi, ed accessori di legge;
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dell’articolo 1 bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.

 

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