Il carattere ingannevole di una pratica commerciale

Consiglio di Stato, Sentenza|13 gennaio 2022| n. 253.

Il carattere ingannevole di una pratica commerciale dipende dalla circostanza che essa non sia veritiera in quanto contenente informazioni false o che, in linea di principio, ingannino o possano ingannare il consumatore medio, in particolare, quanto alla natura o alle caratteristiche principali di un prodotto o di un servizio e che, in tal modo, siano idonee a indurre detto consumatore ad adottare una decisione di natura commerciale che non avrebbe adottato in assenza di tale pratica. Quando tali caratteristiche ricorrono cumulativamente, la pratica è considerata ingannevole e, pertanto, deve essere vietata.

Sentenza|13 gennaio 2022| n. 253. Il carattere ingannevole di una pratica commerciale

Data udienza 16 settembre 2021

Integrale

Tag- parola chiave: Commercio – Autorità garante – Pratica commerciale – Carattere ingannevole – Configurabilità – Ipotesi

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 10569 del 2019, proposto dall’E. It. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa all’avvocato Lu. Pa., domiciliata presso l’indirizzo PEC come da Registri di giustizia ed elettivamente domiciliata presso lo studio del suddetto patrocinatore in Roma, viale (…);
contro
l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la cui sede domicilia per legge in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sez. I, 16 settembre 2019 n. 10983, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato nonché i documenti prodotti;
Vista l’ordinanza 24 febbraio 2020 n. 888, con la quale la Sezione ha respinto la domanda cautelare avanzata dalla parte appellante;
Esaminate le memorie difensive, anche di replica e gli ulteriori atti depositati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 16 settembre 2021 il Cons. Stefano Toschei. Si registra il deposito di note d’udienza da parte dell’avvocato Lu. Pa.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

Il carattere ingannevole di una pratica commerciale

FATTO e DIRITTO

1. – La presente controversia, nella sede d’appello, muove dalla sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sez. I, 16 settembre 2019 n. 10983 con la quale è stato respinto il ricorso (n. R.g. 3422/2016) proposto dalla società En. It. S.r.l. nei confronti della delibera dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (d’ora in poi, per brevità, Autorità o AGCM) n. 25792 del 16 dicembre 2015 relativa alla pratica commerciale scorretta ai sensi degli artt. 20 comma 2, 21 comma 1, lett. b) e 23, comma 1, lett. s), del Codice del consumo posta in essere dalla predetta società, contenente la diffusione di informazioni ingannevoli fornite ai consumatori in merito ai benefici derivanti dall’utilizzazione dei dispositivi “Ka.” di trattamento dell’acqua potabile, con conseguente irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di importo pari a Euro 80.000,00.
2. – Dalla documentazione versata da entrambe le parti qui in controversia nei due gradi di giudizio e dalla lettura della sentenza qui fatta oggetto di gravame si può ricostruire la vicenda contenziosa che ha condotto a questo giudizio in sede di appello come segue:
– la società En. It. è distributore per l’Italia dei prodotti a marchio Ka.;
– in seguito a numerose segnalazioni presentate a partire dal mese di marzo del 2015 dalla Da. Co., l’Autorità veniva informata che la società En. It. avrebbe diffuso, attraverso la rete internet, messaggi ingannevoli circa le proprietà dell’acqua trattata con i dispositivi Ka., la quale, secondo tali messaggi, sarebbe stata in grado anche di prevenire e curare malattie;
– nello specifico, la pratica commerciale oggetto delle segnalazioni consisteva nella rappresentazione, attraverso la comunicazione commerciale relativa ai dispositivi Ka. e in particolare attraverso contenuti web in lingua italiana, delle conseguenze benefiche derivanti dal consumo dell’acqua trattata con i dispositivi Ka.;

 

Il carattere ingannevole di una pratica commerciale

– in particolare, alcuni di tali messaggi avevano il seguente tenore: “Ac. Ka. – Dr. Ro. G. Wr., nu. tr. an.”; “La prevenzione del cancro – La soluzione migliore al mondo – Ac. Ka. è il più potente antiossidante (…) anche per curare gravi malattie”; “può facilmente diffondersi nei compartimenti subcellulari e pulire i radicali liberi”; “migliora lo stato di salute generale producendo effetti anti-infiammatori, anti-allergici e anti-obesità “; “un’acqua che agisce come un superintegratore antiossidante e protegge le nostre cellule dall’interno”; “L’A. Ka. (…) ripristina l’equilibrio acido-base, previene le problematiche e i sintomi correlati all’acidosi, contribuendo così a rallentare l’invecchiamento e a migliorare la nostra salute”;
– l’Autorità, dopo avere ricevuto le cennate segnalazioni ed avere acquisito alcuni contenuti web in lingua italiana riguardanti l’A. Ka., in data 21 maggio 2015, avviava il procedimento istruttorio n. PS10061 per la verifica della eventuale violazione delle disposizioni di cui agli articoli 20, comma 2, 21, comma 1, lettera b), e 23, comma 1, lettera s), del Codice del Consumo, in ragione delle informazioni ingannevoli in merito alle proprietà dell’acqua trattata con gli apparecchi Ka., comunicando detto avvio procedimentale alla società En. It., in qualità di professionista e alla Da. Co., nella qualità di segnalante;
– nel corso del procedimento si svolgevano le seguenti attività istruttorie: a) l’Autorità richiedeva informazioni alla società En. It.; b) in data 16 giugno 2015 venivano acquisiti agli atti altri contenuti web in lingua italiana riguardanti l’acqua trattata con i dispositivi Ka.; c) in data 22 giugno 2015 si procedeva ad un’integrazione soggettiva del procedimento, che veniva esteso nei confronti di taluni soggetti distributori dei prodotti Ka., per verificare la loro partecipazione alla pratica commerciale di cui all’istruttoria all’epoca in corso, sicché venivano richieste a costoro le necessarie informazioni in merito; d) nelle date del 10 luglio 2015 e del 13 luglio 2015 pervenivano all’Autorità le memorie difensive con le informazioni da parte dei soggetti distributori coinvolti nell’istruttoria; e) in data 16 luglio 2015 venivano acquisiti agli atti ulteriori contenuti web in lingua italiana riguardanti l’acqua trattata con i dispositivi Ka.; f) in data 23 luglio 2015 perveniva una memoria difensiva di En. It.; g) in data 11 settembre 2015 veniva comunicata la proroga al 17 dicembre 2015 del termine di conclusione del procedimento, deliberata dall’Autorità in data 9 settembre 2015 per la necessità di procedere ad un’ulteriore estensione soggettiva del procedimento e, conseguentemente, di assicurare un adeguato contraddittorio alle parti, adempimento che avveniva in data 14 settembre 2015 con l’estensione del procedimento istruttorio in corso nei confronti di un ulteriore soggetto distributore dei prodotti Ka., chiedendogli informazioni in merito, che però non pervenivano all’Autorità ; h) in data 20 ottobre 2015 l’Autorità acquisiva ulteriori contenuti web in lingua italiana riguardanti l’acqua trattata con i dispositivi Ka. e in data 21 ottobre 2015 veniva comunicata alle parti la conclusione della fase istruttoria (ai sensi dell’articolo 16, comma 1, del Regolamento di procedure istruttorie), sicché giungevano talune memorie finali (da parte di uno dei distributori coinvolti nonché da parte del professionista incolpato); i) seguiva il parere all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (richiesto in data 13 novembre 2015 dall’Autorità, ai sensi dell’articolo 27, comma 6, del Codice del Consumo, atteso che la pratica commerciale oggetto del procedimento istruttorio era stata diffusa a mezzo internet), che si esprimeva, in data 4 dicembre 2015, ritenendo che l’utilizzo di internet, trattandosi di uno strumento in grado di offrire velocemente al consumatore una vasta sequenza di informazioni, nel caso di specie avrebbe potuto influenzare significativamente la diffusione delle informazioni e quindi incidere sull’efficacia del comportamento contestato;

 

Il carattere ingannevole di una pratica commerciale

– alla luce di quanto acquisito nel corso del procedimento istruttorio, come sopra sinteticamente descritto, l’Autorità, con provvedimento n. 25792 del 16 dicembre 2015, deliberava che la società En. It. S.r.l. aveva posto in essere una pratica commerciale scorretta ai sensi degli artt. 20, comma 2, 21, comma 1, lett. b) e 23, comma 1, lett. s), del Codice del Consumo, in quanto contraria alla diligenza professionale e idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio in relazione ai prodotti del professionista, mediante la diffusione di informazioni ingannevoli in merito ai vantaggi per la salute connessi con l’uso del prodotto, di talché disponeva il divieto di ulteriore diffusione della pratica commerciale scorretta, irrogando alla predetta società la sanzione amministrativa pecuniaria di 80.000 euro.
3. – La società En. It. S.r.l. impugnava dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio il suddetto provvedimento chiedendone l’annullamento in quanto illegittimamente adottato.
Essa deduceva quattro motivi di ricorso con i quali:
– in primo luogo contestava l’illegittimità dell’istruttoria e dell’indagine svolta nei suoi confronti dall’AGCM non avendo tenuto quest’ultima in adeguata considerazione la circostanza che En. It. S.r.l. aveva adottato politiche e procedure aziendali specificamente mirate ad evitare episodi come quello contestatole e ciò anche con riferimento ai rapporti con i rivenditori, il cui operato, come è intuibile, non può essere interamente e costantemente controllato dalla predetta società . Oltre a ciò va rilevato (ad avviso della società ) che i messaggi pubblicitari contestati come scorretti erano esposti solo su siti internet non autorizzati dalla società medesima, dei quali quindi non aveva il controllo;
– in secondo luogo contesta di avere subito, con il provvedimento sanzionatorio impugnato, una evidente disparità di trattamento rispetto ad altra impresa, ad essa concorrente, la quale sarebbe stata sottoposta ad un ana procedimento senza essere, però, sanzionata;
– in terzo luogo la società En. It. contestava la motivazione posta a base del provvedimento, stante l’assenza di qualsiasi considerazione in ordine alle osservazioni difensive presentate nel corso del procedimento, con le quali la medesima società aveva ampiamente chiarito di avvalersi di una rete di persone fisiche (i rivenditori) che hanno il divieto di utilizzare il copyright, il design, il e gli altri segni identificativi dei prodotti senza il preventivo assenso della società . In particolare i rivenditori possono utilizzare solamente i siti web approvati dalla società, senza poter progettare indipendentemente i nomi, i loghi, le descrizioni dei prodotti o dei servizi, Ne deriva che l’Autorità, all’esito del procedimento svolto, ha finito per affermare la responsabilità della società nel compimento di pratiche scorrette esclusivamente sulla base di mese presunzioni e supposizioni ricorrente e sul mero presupposti di avere conosciuto l’esistenza di dette pratiche scorrette senza intervenire;

 

Il carattere ingannevole di una pratica commerciale

– da ultimo la società ricorrente ha contestato il mancato rispetto dei canoni di proporzionalità della sanzione inflitta, essendo la stessa di entità eccessiva, soprattutto se si tiene conto del fatto che ad essa non è ascrivibile alcun comportamento diretto.
4. – Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con la sentenza 16 settembre 2019 n. 10983, ha confermato la legittimità dei presupposti che l’Autorità aveva individuato per accertare la fondatezza delle contestazioni mosse alla società En. It., in quanto:
– va considerata giuridicamente corretta l’affermazione, contenuta nel provvedimento sanzionatorio impugnato, secondo cui la En. It. deve essere considerata responsabile per le pratiche commerciali scorrette a lei contestate dall’Autorità, per aver omesso una possibile e doverosa vigilanza sull’operato dei rivenditori, ai quali le condotte sono ascrivibili in via diretta;
– non è comprensibile in cosa consista la presunta disparità di trattamento rispetto ad altra impresa concorrente denunciata dalla En. It.;
– la scelta dell’Autorità di sanzionare la predetta società a titolo di culpa in vigilando è corretta e prescinde dalla responsabilità diretta dei rivenditori nella realizzazione (materiale) del comportamento scorretto e ciò non rende il comportamento assunto dalla ridetta società meno grave, non emergendo alcun ravvedimento operoso da parte della medesima.
5. – La società En. It. ha proposto appello nei confronti della suindicata sentenza di primo grado, chiedendone la integrale riforma in quanto il giudice di prime cure è giunto a conclusioni errate nella valutazione dei motivi di ricorso dedotti in quel grado di giudizio.
La società appellante, dopo avere riepilogato i fatti e descritto nuovamente la procedura che ha condotto all’adozione del provvedimento sanzionatorio impugnato in primo grado, ha evidenziato i seguenti motivi di appello:

 

Il carattere ingannevole di una pratica commerciale

– va anzitutto ribadito che l’AGCM non ha dato prova dell’imputabilità alla società En. della condotta e men che meno della sussistenza del nesso eziologico che consenta di addebitare la scorrettezza della pratica alla predetta e non ad altri. A ciò deve aggiungersi che il giudice di primo grado non ha colto, nelle difese della ricorrente in primo grado, la presenza di specifiche contestazioni tese ad escludere la sussistenza degli ulteriori requisiti integranti una pratica commerciale scorretta, tra cui l’ingannevolezza e la scorrettezza della condotta, affermando erroneamente che la medesima ricorrente avesse convenuto sul contenuto e la portata dei messaggi informativi, limitandosi a sostenere la propria estraneità da ogni profilo di responsabilità, dovendo quest’ultima imputarsi esclusivamente in capo ai rivenditori. Di talché “risulta in toto mancante una pronuncia, o comunque, una presa di posizione da parte del TAR sull’ingannevolezza della condotta oggetto di contestazione e quindi su uno dei presupposti integranti una pratica commerciale scorretta”, anche perché “Gli annunci pubblicitari della presente fattispecie, se adeguatamente parametrati ad un target audience di soggetti attenti e capaci di esaminare la veridicità delle affermazioni in essi contenute, è palese come non integrino di per sè i requisiti e i presupposti di ingannevolezza” (così, testualmente, a pag. 7 dell’atto di appello). A ciò si aggiunga che è stato comprovato, nel corso dell’istruttoria svolta dall’Autorità, come i messaggi ingannevoli siano stati realizzati dai tre rivenditori coinvolti nel giudizio valutativo effettuato da AGCM. Sotto tale profilo va rimarcato come il rapporto che intercorre tra l’incaricato alle vendite e la En. It. S.r.l. si caratterizzi per l’assenza di un vincolo di subordinazione e di qualsivoglia rapporto di lavoro dipendente, di franchising o di agenzia, oltre alla duplice circostanza che l’utilizzo di canali non ufficiali viene espressamente vietato dagli artt. 8-10 del Manuale delle politiche e procedure aziendali adottato da En. e che le informazioni pubblicitarie sono state esposte su siti totalmente estranei ai canali predisposti dalla società appellante e quindi non riconducibili affatto alla medesima. Nel caso di specie, dunque, essendo stata appurata la responsabilità dei rivenditori nell’adozione e pubblicizzazione dei messaggi ingannevoli anche sotto il profilo medico, deve essere esclusa l’applicazione delle norme repressivo sanzionatorie a carico della società appellante, venendo meno, quindi, la prova del comportamento anticonsumeristico attribuito alla stessa e la sussistenza dei presupposti normativi per la irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria, elementi entrambi ritenuti erroneamente comprovati dalla sentenza di primo grado, A ciò si aggiunga, da ultimo, la scarsa rilevanza concreta del comportamento imputato ad En., tanto da ritenersi isolato, visto che, in disparte il segnalante, nessun consumatore ha mostrato di avere subito pregiudizio dalla pubblicità asseritamente ingannevole;
– con un secondo percorso contestativo la En. It. contesta la erroneità della sentenza del giudice di primo grado che non ha rilevato la improbabile riferibilità della responsabilità, nell’adozione del comportamento illecito, in capo alla predetta società, dovendosi integralmente imputare detto comportamento alle scelte commerciali fatte proprie dai tre distributori (e rivenditori) che sono stati coinvolti dall’Autorità medesima nel corso dell’istruttoria che ha preceduto l’adozione del provvedimento sanzionatorio, atteso che tali scelte “sono state poste in essere in modo del tutto arbitrario e autonomo, da parte di tre distributori, senza alcun minimo intervento, partecipazione nonché autorizzazione da parte dell’odierna ricorrente (…), i quali, lungi dal fare riferimento a una qualche autorizzazione od ordine da parte di En. (che in effetti manca), hanno giustificato il contenuto dei messaggi sulla base di informazioni reperite sul web e addirittura elevandosi a potenziali soggetti scientificamente competenti” (così, testualmente, a pag. 19 dell’atto di appello). D’altronde “la En. It. S.r.l. ha prontamente diffidato formalmente i tre distributori, reali responsabili della presunta pratica commerciale scorretta, all’immediata cessazione di qualsivoglia ed eventuale pratica commerciale scorretta posta in essere, richiedendo, altresì, l’istantanea rimozione di tutti i contenuti contrari al Codice del Consumo” e “i medesimi distributori sono stati immediatamente sanzionati da parte della En. It. S.r.l. con la sospensione del codice ID operativo, determinando così la cessazione di qualsiasi attività commerciale di distribuzione riconducibile alla En. It. S.r.l. e il conseguente percepimento delle relative provvigioni” (così ancora, testualmente, a pag. 20 dell’atto di appello). Tenuto conto, poi, del contenuto degli atti acquisiti dall’Autorità nel corso dell’istruttoria, appare evidente che alla En. non poteva chiedersi, obiettivamente un comportamento di maggiore vigilanza rispetto a quello che ha mantenuto nel corso dell’arco temporale nel quale si iscrivono le vicende qui in rilievo, né un grado di diligenza superiore a quella effettivamente utilizzata dalla medesima.

 

Il carattere ingannevole di una pratica commerciale

Infatti non sono individuabili strumenti di controllo che avrebbero potuto scongiurare che il comportamento illecito, per le modalità che lo hanno caratterizzato, potesse essere realizzato, dovendosi lo stesso imputarsi a scelte del tutto arbitrarie e improvvise di singoli soggetti, rispetto alle quali sarebbe sproporzionato pretendere di assegnare alla società En., nell’inconsapevolezza del comportamento assunto dai distributori, un ruolo di responsabilità, seppure in vigilando, nella realizzazione delle vicende qui in esame. Invocare poi, come ha mostrato di fare il giudice di primo grado, il possibile utilizzo “di attuali tecnologie”, quel strumento che avrebbe permesso alla società En. una più efficace vigilanza sui rivenditori, rappresenta una affermazione non solo priva di riscontro probatorio ma idonea a scadere nella categoria delle mere “supposizioni”;
– in terzo luogo ed in via subordinata rispetto ai due ordini di censure che si sono sopra descritte, la società appellante contesta l’entità della sanzione inflitta dall’Autorità . La società appellante, formulando tale terza traiettoria contestativa, torna a ribadire l’inconsistenza della partecipazione della società alla realizzazione dell’illecito e comunque conferma la insussistenza di alcun elemento psicologico idoneo a provocarlo nel comportamento tenuto dall’impresa, mentre il titolo di responsabilità che il giudice di primo grado ha ritenuto di riferire alla società è, incomprensibilmente, confinato alla culpa in vigilando, attribuita all’En. It. per il “mancato utilizzo di una tecnologia, non meglio individuata e specificata, la quale, sulla base di mere e capestri presunzioni, sarebbe stata in grado di impedire la pubblicazione del messaggi pubblicitari de quibus” (così, testualmente, a pag. 27 dell’atto di appello), senza tenere conto che il comportamento arbitrario dei rivenditori ha comunque spezzato il nesso di causalità impedendo, in via di fatto prima ancora che per diritto, la possibile riferibilità del comportamento illecito alla società e che, ad ogni modo, da quando En. ha adottato il “Manuale delle Procedure” (nel 2011) non sono mai emerse o sollevate accuse di pubblicità ingannevole, segno dell’introduzione di un sistema di vigilanza collaudato e efficiente, capace di garantire un controllo “a tappeto” su tutti i siti web utilizzati e autorizzati dai propri distributori, ma in particolare su quelli da lei stessa autorizzati. Tutto ciò, dunque, confligge con l’errata conclusione alla quale è giunto il giudice di primo grado nel ritenere non accoglibile la censura mossa con il ricorso introduttivo con la quale la En. ha sostenuto la violazione dell’art. 11 l. 689/1981. Infatti il surriferito comportamento, idoneo a garantire la corretta condotta dei soggetti che operano per la società En., sempreché si conformino alle prescrizioni da essa predisposte, può essere ascritto, a pieno titolo, nell’ambito dei comportamenti idonei a ridurre la portata dell’illecito anticonsumeristico contestato, con conseguente condizionamento, in senso mitigativo, della entità della sanzione da infliggersi. Il suddetto comportamento virtuoso, messo in campo da En. al fine di ridurre l’impatto della condotta contestata, si compendia sia nella rimozione di alcuni degli annunci pubblicitari sia nel comportamento assunto nei confronti dei reali autori dell’illecito (i tre rivenditori), con riferimento ai quali la società odierna appellante ha proceduto a diffidarli e a sospendere l’utilizzo del codice ID, sia nell’aver promosso una campagna, via internet, di sensibilizzazione nei confronti dei propri distributori al rispetto del Codice del consumo e in particolare delle linee guida predisposte dalla En.. A ciò si aggiunga che “il G.A. pur essendovi tenuto “ex lege”- ha omesso uno specifico giudizio, ai fini della determinazione dell’ammontare della sanzione, sia sull’opera svolta dall’impresa per eliminare o attenuare l’infrazione e, quindi, soprattutto della sua condotta dissociativa posta in essere ante – procedimento, nonché in itinere, sia sulle dimensioni ridotte dell’impresa”, tenuto conto che il “fatturato della En. It. S.r.l. nell’anno 2014 è stato pari a 2.05 milioni di euro”, oltre a non essere stati considerati “la personalità dell’agente e, sotto questo profilo, il fatto che esso non sia mai incorso in violazioni di disposizioni a tutela del consumatore, e i vantaggi sul piano economico derivanti dalla pratica attuata” nonché la rilevante circostanza per la quale “la sanzione irrogata si manifesta palesemente eccessiva a fronte della prassi seguita dall’Autorità in vicende analoghe” (così, testualmente, a pag. 32 dell’atto di appello).
6. – Si è costituita in giudizio l’Autorità confermando la piena correttezza del percorso istruttorio svolto e che ha permesso di corroborare la motivazione del provvedimento sanzionatorio adottato nei confronti della odierna società appellante. Tenuto conto dell’infondatezza dei motivi di appello da questa dedotti, l’AGCM chiedeva la reiezione del mezzo fi gravame proposto e la conferma della sentenza di primo grado.
Con ordinanza 24 febbraio 2020 n. 888, la Sezione ha respinto la domanda cautelare avanzata dalla parte appellante.

 

Il carattere ingannevole di una pratica commerciale

Nel corso del processo le parti hanno proposto ulteriori memorie con documenti confermando le (opposte) conclusioni già rassegnate negli atti processuali precedentemente prodotti.
7. – Il Collegio ritiene utile rammentare preliminarmente e in punto di diritto che, come è noto, l’espressione “pratiche commerciali scorrette” designa le condotte che formano oggetto del divieto generale sancito dall’art. 20 d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206 (c.d. Codice del consumo), in attuazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 11 maggio 2005, n. 2005/29/Ce. La finalità perseguita dalla direttiva europea consiste nel garantire, a termini del suo considerando 23, un elevato livello comune di tutela dei consumatori procedendo ad un’armonizzazione completa delle norme relative alle pratiche commerciali sleali delle imprese, ivi compresa la pubblicità sleale, nei confronti dei consumatori.
Per “pratiche commerciali” – assoggettate al titolo III della parte II del surrichiamato Codice del consumo – si intendono tutti i comportamenti tenuti da professionisti che siano oggettivamente “correlati” alla “promozione, vendita o fornitura” di beni o di servizi a consumatori, e posti in essere anteriormente, contestualmente o anche posteriormente all’instaurazione dei rapporti contrattuali. La condotta tenuta dal professionista può consistere in dichiarazioni, atti materiali, o anche semplici omissioni.
Quanto ai criteri in applicazione dei quali deve stabilirsi se una determinata pratica commerciale sia o meno “scorretta”, l’art. 20, comma 2, del ridetto Codice del consumo stabilisce, in termini generali, che una pratica commerciale è scorretta se “è contraria alla diligenza professionale” ed “è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori”.
Nella trama normativa, la definizione generale si scompone tuttavia in due diverse categorie di pratiche scorrette: le pratiche ingannevoli (di cui agli art. 21 e 22) e le pratiche aggressive (di cui agli art. 24 e 25).

 

Il carattere ingannevole di una pratica commerciale

Il legislatore ha inoltre analiticamente individuato una serie di specifiche tipologie di pratiche commerciali (le c.d. “liste nere”) da considerarsi sicuramente ingannevoli e aggressive (art. 23 e 26, cui si aggiungono le previsioni “speciali” di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 21 e all’art. 22-bis), senza che si renda necessario accertare la sua contrarietà alla “diligenza professionale” nonché dalla sua concreta attitudine “a falsare il comportamento economico del consumatore”.
Il carattere ingannevole di una pratica commerciale dipende dalla circostanza che essa non sia veritiera in quanto contenente informazioni false o che, in linea di principio, ingannino o possano ingannare il consumatore medio, in particolare, quanto alla natura o alle caratteristiche principali di un prodotto o di un servizio e che, in tal modo, siano idonee a indurre detto consumatore ad adottare una decisione di natura commerciale che non avrebbe adottato in assenza di tale pratica. Quando tali caratteristiche ricorrono cumulativamente, la pratica è considerata ingannevole e, pertanto, deve essere vietata.
La condotta omissiva, poi, per essere considerata ingannevole, deve avere ad oggetto “informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno” per prendere una decisione consapevole (art. 22). Al riguardo, va rimarcato che, in tutte le ipotesi in cui la pratica commerciale integri gli estremi di un “invito all’acquisto” (locuzione che comprende le comunicazioni commerciali) debbono considerarsi sempre e comunque “rilevanti” le informazioni relative alle “caratteristiche principali del prodotto” (art. 22, comma 4, Codice del consumo nonché art. 7, paragrafo 4, della direttiva europea). In assenza di tali informazioni, un invito all’acquisto si considera quindi ingannevole (cfr., per tutte, CGUE, sentenza del 12 maggio 2011, Ving Sverige, C-122/10, EU:C:2011:299, punto 24).
8. – Per quanto fin qui illustrato, il punto di riferimento soggettivo è dunque quello del consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici (cfr. CGUE, sentenza del 12 maggio 2011, C-122/10, punto 22).
Come risulta dal “considerando 18” della direttiva 2005/29, la nozione di “consumatore medio” non è una nozione statistica e che, per determinare la reazione tipica di tale consumatore in una determinata situazione, gli organi giurisdizionali e le autorità nazionali devono esercitare la loro facoltà di giudizio.
Deve pure specificarsi che, ai sensi dell’art. 20, comma 3, del Codice del consumo, “le pratiche commerciali che, pur raggiungendo gruppi più ampi di consumatori, sono idonee a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico solo di un gruppo di consumatori chiaramente individuabile, particolarmente vulnerabili alla pratica o al prodotto cui essa si riferisce a motivo della loro infermità mentale o fisica, della loro età o ingenuità, in un modo che il professionista poteva ragionevolmente prevedere, sono valutate nell’ottica del membro medio di tale gruppo”.

 

Il carattere ingannevole di una pratica commerciale

Orbene, secondo le coordinate interpretative sopra tracciate, allorquando una pratica commerciale utilizzata da un imprenditore costituisce, nel suo insieme e in ragione delle singole modalità di sviluppo, il presupposto idoneo ad ingannare in qualsiasi modo le scelte del consumatore, ovvero a fuorviarle inquinando la sua libera scelta, essa va ricondotta nella categoria degli atti (od omissioni) contrari alla “diligenza professionale”, oltre che atti “a falsare il comportamento economico del consumatore” e per ciò stesso essa si proietta nell’orbita di tutela del Codice del consumo.
Da tale presupposto, ineludibile, deriva che anche quando il comportamento che l’imprenditore deve tenere sia disciplinato da una fonte (nella specie un Regolamento europeo) che non reca espressamente il cata delle sanzioni comminabili nei confronti dell’imprenditore che trasgredisca le disposizioni di garanzia del consumatore contenute nella disciplina illustrata nell’articolato normativo, ciò non significa che non possano trovare applicazione, nei confronti della pratica commerciale scorretta ovvero idonea ad indurre in errore il consumatore sulla scelta del prodotto, le previsioni sanzionatorie contenute nel d.lgs. 206/2005, non potendosi ragionevolmente ritenere che un comportamento considerato illegittimo (e pericoloso per il diritto di libera e consapevole scelta del consumatore) resti impunito sol perché il testo normativo che indica quale deve essere il comportamento corretto non contenga pure la corrispondente sanzione.
9. – Nel caso di specie, a differenza di quanto sostiene la società appellante, la documentazione presente nel fascicolo del processo dimostra come il comportamento posto imputato alla responsabilità della società En. It. e sia stato idoneo a trarre in inganno il consumatore medio. Il comportamento assunto dalla predetta società, poi e per quanto si andrà illustrando successivamente, va ascritto nella categoria della responsabilità in vigilando, punibile ex se perché idonea a costituire condotta comunque idonea a determinare un illecito consumeristico.
Deve anzitutto scrutinarsi la correttezza o meno del provvedimento sanzionatorio impugnato in primo grado sotto il profilo della idoneità del comportamento contestato a considerarsi come illecito consumeristico, per poi passare ad analizzare il ruolo di En. It. nella condotta anticonsumeristica e, quindi, l’imputabilità in capo ad essa di responsabilità nella causazione dell’illecito (il che conduce allo scrutinio dei primi due complessi motivi di appello).

 

Il carattere ingannevole di una pratica commerciale

Va premesso, nello specifico, come l’art. 21, comma 1, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 chiarisca che “E’ considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso: (…)”, indicando, tra le varie manifestazioni di comportamenti che costituiscono una pratica commerciale ingannevole, elencate nel surriprodotto comma 1, alla lettera b), “la induzione in errore ai danni del consumatore circa “le caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l’esecuzione, la composizione, gli accessori, l’assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l’idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l’origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto” e, alla lettera d), “il prezzo o il modo in cui questo è calcolato o l’esistenza di uno specifico vantaggio quanto al prezzo”.
10. – Il ruolo assunto da En. nella vicenda è costituito dal non avere scongiurato che si realizzasse il comportamento scorretto da parte dei rivenditori, non essendo sufficiente, per scongiurare la diretta responsabilità della ditta/imprenditore, la introduzione di formule cautelative nei contratti che intercorrono tra la ditta e il rivenditore e attributive della responsabilità dei comportamenti assunti solo a carico di quest’ultimo. Ciò potrà sicuramente avere rilievo nei rapporti interni tra le parti, ma tali misure prudenziali non possono impedire che le norme di tutela consumeristica si applichino, imputando appieno le conseguenze di una condotta non adeguatamente idonea a verificare che i comportamenti di coloro che divulgano il prodotto e lo commercializzano di fatto non determinino pregiudizi sul consumatore.
E’ noto, infatti (cfr., tra le molte, Cons. Stato, Sez. VI, 7 settembre 2012 n. 4753), che il principio del carattere personale dell’illecito amministrativo, pur affermato dalla l. 24 novembre 1981, n. 689, non rivesta ormai più un carattere assoluto ed esclusivo; e ciò è indirettamente rilevabile dalla, non più recentissima, introduzione della disciplina relativa alla responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato (d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della l. 29 settembre 2000, n. 300).

 

Il carattere ingannevole di una pratica commerciale

La censura in esame deve, dunque, essere affrontata tenendo conto della riferibilità diretta della responsabilità da illecito amministrativo ad entificazioni a struttura complessa, non potendosi assumere a criterio d’imputazione la natura personale della responsabilità connotante le condotte delle persone fisiche (ex artt. 1 e 3 l. n. 689 del 1981), ma occorrendo aver riguardo alle peculiarità connotanti l’imputazione soggettiva ad entità a struttura organizzativa complessa, implicante – nei confronti dei consumatori/clienti – una responsabilità diretta anche per gli illeciti riconducibili alla rete di promozione/vendita di cui la stessa si sia avvalsa nonché di pubblicizzazione del prodotto su siti web ed altri strumenti di diffusione dell’informazione in formato digitale.
L’evoluzione tecnologica impone, in particolare, al produttore (o all’imprenditore in genere) laddove si avvalga per la diffusione, commercializzazione o vendita del prodotto di terzi, anche non dipendenti, di assumere ogni comportamento utile e di avvalersi di ogni strumento più efficace al fine di scongiurare il pericolo della diffusione di informazioni violative del diritto alla corretta conoscenza delle capacità, dei pregi e dei difetti del prodotto stesso, in particolar modo quando, senza alcun riscontro scientifico, si ipotizzino riflessi positivi sulla salute del consumatore derivanti dall’acquisto e dall’utilizzo del prodotto.
La circostanza che, nella specie, come è emerso nel corso dell’istruttoria condotta dall’Autorità, che ne ha mostrato di averne tenuto conto nella valutazione della condotta imputata alla odierna società appellante, la En. avesse adottato un Manuale delle politiche e delle procedure aziendali che espressamente vieta le dichiarazioni di carattere medico e terapeutico da parte del distributore, il quale è tenuto, per contratto, a sollevare la società da qualsiasi responsabilità in relazione, tra l’altro, alle dichiarazioni diffuse dal distributore stesso, non costituisce, di per se sola e per quanto si è sopra anticipato, elemento utile ad escludere la culpa in vigilando a carico della società oggi appellante.
La En. non ha dimostrato, prima dell’avvio della procedura che ha condotto alla irrogazione della sanzione, di avere messo in campo interventi efficaci volti ad acquisire tempestivamente e compiutamente la conoscenza delle modalità di pubblicizzazione del prodotto da parte dei (tre) rivenditori, per intervenire eventualmente in modo tempestivo per scongiurare la compromissione dei diritti della “clientela”, tanto che l’avere provveduto a diffidare, successivamente all’avvio del procedimento, i tre distributori individuati nel procedimento dell’Autorità, intimando loro la rimozione dei contenuti web contrari alle regole ed alle procedure aziendali e sospendendo la corresponsione dei compensi, costituiscono interventi tardivi e inidonei ad escludere la responsabilità della società oggi appellante.

 

Il carattere ingannevole di una pratica commerciale

Merita, dunque, conferma il principio, corroborato dalle risultanze dell’istruttoria svolta dall’Autorità, secondo cui l’interposizione di uno o più soggetti nel rapporto fra l’operatore commerciale e la clientela non esclude la responsabilità dell’operatore, né attribuisce alla stessa natura oggettiva.
Infatti devono essere ricondotte ai parametri della responsabilità colposa eventuali violazioni dell’obbligo di diligenza professionale, assunto dal Codice del consumo a criterio principe d’imputazione, in termini di colpevolezza, delle pratiche commerciali scorrette lesive delle sfere giuridiche dei consumatori (siano detti parametri qualificati come colpa da organizzazione, oppure come culpa in eligendo o in vigilando, con riguardo, per quanto qui interessa, alla scelta degli agenti e della relativa qualificazione, alle modalità operative oggetto dei contratti finalizzati alla diffusione o promozione del prodotto, all’attuazione dei meccanismi – ove previsti – di verifica e controllo dell’operato degli agenti, all’adozione di – eventuali – misure repressive pure contrattualmente definite per il caso di condotte non lecite o abusive, ovvero al tempestivo ripristino delle posizioni soggettive della clientela vulnerate per effetto delle condotte stesse, mediante l’eliminazione delle relative ricadute e dei connessi effetti).
11. – A questo punto vanno esaminate le censure dedotte in ordine all’importo della sanzione irrogata.
Va premesso, in via generale e come è noto, che l’art. 11 l. 689/1981 stabilisce che nella determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo ed un limite massimo e nell’applicazione delle sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla gravità della violazione, all’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche, venendo affermato con ciò un principio generale di proporzionalità e dovendosi riferire le condizioni economiche di un soggetto societario anzitutto alla sua dimensione economica (cfr., tra le tante Cons. Stato, sez. VI, 12 luglio 2011 n. 4202 e 8 marzo 2006 n. 1269).

 

Il carattere ingannevole di una pratica commerciale

I parametri (normativi) di riferimento applicabili al fine di individuare correttamente l’entità della sanzione, dunque, sono quelli recati dal citato art. 11 l. 689/1981, in virtù del richiamo previsto all’art. 27, comma 13, d.lgs. 206/2005, ossia la gravità della violazione, l’opera svolta dall’impresa per eliminare o attenuare l’infrazione, la personalità dell’agente e le condizioni economiche dell’impresa. Inoltre, la fisiologica peculiarità delle valutazioni compiute in materia dall’Autorità comporta che, pur in presenza di elementi di analogia, risulta ordinariamente esclusa l’identità dei casi, così che il richiamo ai diversi importi determinati non è idoneo di per sé a tradursi, come tertium comparationis, in un vizio di legittimità della valutazione negativa intervenuta in una diversa ipotesi.
Tale indicazione esclude che possa essere utilizzato, al fine di mitigare l’entità della sanzione da infliggere, il raffronto con gli importi sanzionatori previsti in caso di comportamenti commerciali scorretti, pure riferiti alla condotta caratterizzata dalla manomissione di contachilometri in occasione della vendita di auto usate, imputati ad altri operatori economici o professionisti, dovendosi escludere ogni relazione utile tra fattispecie che, comunque, in ragione dei fatti diversi che le caratterizzano (legati al tempo in cui è durata la pratica commerciale, alla gravità della stessa alle dimensioni economiche e di fatturato del professionista, ad esempio) non possono mai essere pienamente sovrapponibili tra di loro.
Nella parte VI del provvedimento sanzionatorio impugnato in primo grado e rubricato “quantificazione della sanzione” l’Autorità :
– ha rammentato che ai sensi dell’articolo 27, comma 9 del Codice del Consumo, con il provvedimento che vieta una pratica commerciale scorretta l’Autorità dispone l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 5.000.000 euro, tenuto conto della gravità e della durata della violazione;
– ha specificato che, in ordine alla quantificazione della sanzione deve tenersi conto, in quanto applicabili, dei criteri individuati dall’articolo 11 l. 689/1981, in virtù del richiamo previsto all’articolo 27, comma 13, del Codice del Consumo: in particolare della gravità della violazione, dell’opera svolta dall’impresa per eliminare o attenuare l’infrazione, della personalità dell’agente, nonché delle condizioni economiche dell’impresa stessa;
– ha soggiunto che, con riguardo alla gravità della violazione, si è tenuto conto nel caso di specie: a) dell’incidenza della pratica sulla rappresentazione di benefici relativi alla salute, fattore che può essere particolarmente rilevante per le scelte del consumatore; b) della diffusione della pubblicità attraverso internet, mezzo suscettibile di raggiungere un ampio numero di consumatori, attraverso una molteplicità di siti;
– per quanto riguarda la durata della violazione, l’Autorità ha rilevato che, dagli elementi resi disponibili nel corso dell’istruttoria, risulta che la pratica commerciale è stata posta in essere quanto meno nel mese in cui è stato inserito in www.youtube.com il video avente il titolo: “Ac. Ka. – Dr. Ro. G. Wr., nu. tr. an.” (vale a dire dal mese di aprile 2013). Inoltre non risulta che, al momento dell’adozione del provvedimento sanzionatorio, la pratica sia stata eliminata o, quanto meno, interrotta, atteso che sono riscontrabili in rete e nel web, dopo la rimozione di alcuni contenuti ingannevoli, altri contenuti in lingua italiana allo stesso modo ingannevoli;

 

Il carattere ingannevole di una pratica commerciale

– ha concluso che sulla base di tali elementi si ritiene di determinare l’importo della sanzione amministrativa pecuniaria applicabile alla En. S.r.l. nella misura di Euro 80.000,00 (euro ottantamila/00).
Il giudice di primo grado, dunque, non apprezzandosi neppure la presenza di un ravvedimento operoso ha ritenuto di dover confermare nell’importo la sanzione irrogata e tale scelta, ad avviso del Collegio, è scevra da profili di incongruenza rispetto agli elementi portati a conforto delle proprie tesi difensive dalla società appellante.
Va ricordato, in proposito, da ultimo, che in materia di corretta individuazione della modalità della sanzione da irrogarsi per violazione delle disposizioni del Codice del consumo, occorre rammentare l’orientamento della Corte di Giustizia UE (sentenza 16 aprile 2015, C-388/13) secondo cui, in materia di pratiche commerciali scorrette, le sanzioni devono essere adeguate ed efficaci e dunque assolvere ad una concreta funzione dissuasiva, prendendo “in debita considerazione fattori quali la frequenza della pratica addebitata, la sua intenzionalità o meno e l’importanza del danno che ha cagionato al consumatore”. A ciò va aggiunta la considerazione, in materia di elemento soggettivo dell’illecito, secondo la quale nelle sanzioni amministrative è necessaria e sufficiente la coscienza e volontà della condotta attiva od omissiva, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa giacché la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a questi l’onere di provare di aver agito senza colpa.
12. – La suesposte osservazioni conducono, dunque, a ritenere infondati i motivi dedotti in sede di appello e, quindi a respingere il mezzo di gravame proposto, con conseguente conferma della sentenza di primo grado (del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sez. I, 16 settembre 2019 n. 10983) con la quale è stato respinto il ricorso (n. R.g. 3422/2016) in quella sede proposto.

 

Il carattere ingannevole di una pratica commerciale

Le spese del grado di giudizio seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 91 c.p.c, per come espressamente richiamato dall’art. 26, comma 1, c.p.a., imputandosi le stesse a carico della società appellante e in favore dell’Autorità appellata liquidandosi nella misura complessiva di Euro 3.000,00 (euro tremila/00), oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello (n. R.g. 10569/2019), come meglio indicato in epigrafe, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sez. I, 16 settembre 2019 n. 10983 con la quale è stato respinto il ricorso (n. R.g. 3422/2016) proposto in primo grado.
Condanna la società En. S.r.l., in persona del rappresentante legale pro tempore, a rifondere le spese del grado di appello in favore dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore, che liquida in complessivi Euro 3.000,00 (euro tremila/00), oltre accessori come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 16 settembre 2021 con l’intervento dei magistrati:
Hadrian Simonetti – Presidente FF
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Alessandro Maggio – Consigliere
Stefano Toschei – Consigliere, Estensore
Giovanni Orsini – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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