Dopo il fallimento della società è illegittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca sui conti correnti

Corte di Cassazione, sezione terza penale, Sentenza 10 ottobre 2018, n. 45574.

Le massime estrapolate:

Dopo il fallimento della società è illegittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca sui conti correnti: si tratta, infatti, di beni nella disponibilità della curatela e pertanto non è individuabile il profitto del reato.

Sentenza 10 ottobre 2018, n. 45574

Data udienza 29 maggio 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSI Elisabetta – Presidente

Dott. GALTERIO Donatella – rel. Consigliere

Dott. DI STASI Antonella – Consigliere

Dott. CORBETTA Stefano – Consigliere

Dott. MENGONI Enrico – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS) n.q. di curatore del fallimento della (OMISSIS) s.p.a.;
avverso la ordinanza in data 30.11.2017 del Tribunale di Napoli;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Donatella Galterio;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Angelillis Ciro, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio;
uditi i difensori, avv.ti (OMISSIS) e (OMISSIS) che hanno concluso per l’accoglimento del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1.Con ordinanza in data 30.11.2017 il Tribunale di Napoli, adito quale giudice di appello, ha confermato il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente disposto fino alla concorrenza di Euro 3.924.453 sui conti correnti della s.p.a. (OMISSIS), gia’ dichiarata fallita, e sui beni riferibili al legale rappresentante (OMISSIS), indagato dei reati ex Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articoli 10-bis e 10-ter per omesso versamento delle ritenute operate alla fonte quale sostituito di imposta e dell’IVA, entrambe riferite all’anno di imposta 2011, contestualmente rigettando l’istanza di revoca del sequestro dei beni di proprieta’ della societa’ fallita svolta dalla curatela fallimentare.
Avverso il suddetto provvedimento il curatore fallimentare ha proposto, per il tramite dei propri difensori a procura speciale ricorso per Cassazione articolando due motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all’articolo 173 disp. att. c.p.p..
2. Con il primo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito agli al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 12-bis e articolo 42 L.F. e al vizio motivazionale, che i beni attinti dalla misura cautelare successivamente alla dichiarazione di fallimento, ovverosia i conti correnti intestati alla procedura concorsuale su cui era confluita la massa attiva del fallimento, erano ormai nella disponibilita’ della curatela e non piu’ della compagine fallita, con conseguente inoperativita’ della confisca, ancorche’ di natura obbligatoria, disponendo l’articolo 12-bis che la misura puo’ essere assunta solo quando abbia ad oggetto beni che ne costituiscono il profitto od il prezzo, ovvero quando cio’ non sia possibile, sui beni di valore equivalente di cui il reo abbia la disponibilita’.
Evidenzia pertanto la contraddittorieta’ tra l’assunta posizione di terzieta’ del fallimento rispetto all’autore del reato, tanto da essergli stata riconosciuta la legittimazione alla richiesta di dissequestro, e l’assoggettamento della stessa (OMISSIS), dichiarata fallita il (OMISSIS), al sequestro disposto giusta decreto del 5.4.2017, ovverosia allorquando la societa’ aveva gia’ perso – costituendo la pronuncia di fallimento costituisce il momento in cui la curatela acquisisce la disponibilita’ dei beni del soggetto fallito – la disponibilita’ dei propri beni in favore del Curatore, chiamato ad amministrarli e a disporne al fine di soddisfare le ragioni dei creditori concorsuali. Nella specie, secondo la difesa, la misura cautelare non avrebbe potuto assolvere ne’ in astratto ad alcuna finalita’ sanzionatoria nei confronti dell’autore del reato, cui era rimasta la sola titolarita’ formale del patrimonio, ne’ avrebbe potuto ricadere in concreto sulle somme di danaro rinvenute sui conti correnti della societa’ che, costituendo il risultato delle attivita’ recuperatorie poste in essere dal curatore, neppure potevano ritenersi ricomprese nella titolarita’ formale dei beni del debitore. Nel passare in rassegna la giurisprudenza di questa Corte in materia, sottolinea come sia preclusa, secondo quanto affermato gia’ dalla sentenza 10561/2014 (Gubert), la possibilita’, se non nell’ipotesi in cui la societa’ sia priva di autonomia rappresentando un mero schermo attraverso cui l’amministratore agisce come effettivo titolare, di procedere a confisca per equivalente nei confronti della persona giuridica per i reati commessi dal legale rappresentante, la quale e’ passibile di sequestro unicamente nella forma del sequestro diretto, e contesta per altro verso, con riferimento ai precedenti citati dall’ordinanza impugnata, l’applicabilita’ nel caso di specie dei principi enucleati sia dalla sentenza n. 23907/2016 che riguarda il diverso caso in cui la dichiarazione di fallimento era stata successiva al disposto sequestro, sia dalla pronuncia n. 28077 del 09/02/2017 afferente alla differente ipotesi di sequestro di beni di una societa’ che aveva richiesto l’ammissione al concordato preventivo, neppure omologato. Neppure appare corretta, ad avviso della difesa, la lettura della sentenza a Sezioni Unite Focarelli, secondo cui allorquando la misura cautelare colpisce un bene intrinsecamente pericoloso il sequestro prevale sempre sullo spossessamento fallimentare, non potendo da tale pronuncia, che ha stigmatizzato ai fini di regolare il rapporto tra misura cautelare reale e “misura civile”, non gia’ la natura obbligatoria o facoltativa della confisca, bensi’ la natura del bene appreso (se cioe’ pericoloso o meno), trarsi conseguenze diverse da quella secondo cui solo quando si tratti beni oggettivamente pericolosi in ragione della loro pertinenza al reato possa ritenersi l’insensibilita’ della misura alla procedura concorsuale, mentre, laddove si tratti di beni di valore equivalente, la pretesa dello Stato di effettuare il prelievo di una somma a compensazione di una sottrazione illecita deve trovare tutela nell’ambito della procedura fallimentare.
Conclude sostenendo che il giudice, nel valutare il diritto del curatore all’impugnativa delle misure cautelari debba formulare di volta in volta un giudizio di bilanciamento dei contrapposti interessi anche tenendo conto del principio della prevenzione, di talche’, nella specie, l’apprensione delle somme di danaro depositate sul conto corrente intestato alla procedura non realizzerebbe comunque il suo scopo, diretta com’e’ a colpire un patrimonio separato, definito dalla stessa giurisprudenza come un terzo estraneo al reato.
3. Con il secondo motivo deduce il vizio di illogicita’ motivazionale insito nell’affermazione che la prevalenza del sequestro sulla procedura fallimentare risiede anche nell’esigenza che il bene, una volta esaurita la procedura, possa ritornare nella disponibilita’ dell’indagato in caso in cui residui un attivo, atteso che nessun elemento e’ stato offerto al fine di far valere la preponderanza dell’interesse creditorio rispetto al titolo cautelare. Sostiene, invece, la difesa che la prevalenza della confisca sulle ragioni del fallimento costituisce un’eccezione che il giudice e’ chiamato a valutare di volta in volta considerando le concrete conseguenza della eventuale restituzione: nella specie la gia’ intervenuta liquidazione di tutto il patrimonio della societa’ fallita impedisce che le somme sottoposte a sequestro possano tornare in suo possesso tenuto conto che l’attivo realizzato consentirebbe unicamente il pagamento dei crediti prededucibili e di parte dei crediti vantati dai lavoratori dipendenti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Pur avendo riconosciuto la legittimazione del Curatore fallimentare all’impugnativa del sequestro per equivalente disposto nei confronti della societa’ sul presupposto che questo aveva ad oggetto il danaro depositato sui conti correnti intestati alla curatela, il Tribunale del riesame di Napoli nega che questi abbia diritto al dissequestro delle somme attinte dalla misura cautelare in quanto, trattandosi di sequestro finalizzato alla confisca di somme costituenti il profitto o il prezzo dei reati tributari contestati, da identificarsi nel risparmio di spesa derivante dall’omesso pagamento delle somme dovute a vario titolo all’Erario, diventa dirimente ai fini della sua operativita’, pur in presenza di crediti vantati sul medesimo bene per effetto della dichiarazione di fallimento, il carattere di obbligatorieta’ della confisca per equivalente, unitamente alla sua natura sanzionatoria, non commisurata ne’ alla colpevolezza dell’autore del reato, ne’ della gravita’ della condotta in cui si e’ concretizzato l’illecito.
Prendendo le mosse dalla pronuncia a Sezioni Unite n. 11170 del 25/09/2014, secondo cui la finalita’ di ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato, perseguita dal legislatore penale, impone che all’affermazione di responsabilita’ dell’ente debba necessariamente seguire la prevista sanzione (Sez. U, n. 11170 del 25/09/2014 – dep. 17/03/2015, Uniland Spa e altro, Rv. 263681), i giudici partenopei hanno pertanto ritenuto che l’esigenza di inibire l’utilizzazione di un bene in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato debba prevalere sull’interesse dei creditori che sono comunque privi di un titolo restitutorio prima della definizione della procedura concorsuale, riaffermando anche in questo caso l’assoluta insensibilita’ del sequestro preventivo avente ad oggetto un bene confiscabile in via obbligatoria alla procedura fallimentare.
Piu’ d’uno sono tuttavia gli equivoci che si annidano dietro tali argomentazioni.
Quello cui in primis l’ordinanza impugnata omette di conferire il debito rilievo, e che invece costituisce la cifra della diversita’ delle conseguenze che ne derivano, e’ che nel caso in esame, difformemente dalla fattispecie all’esame delle Sezioni Unite nella citata sentenza Uniland, il provvedimento di sequestro intervenuto in data 5.4.2017 e’ successivo alla dichiarazione di fallimento, resa con sentenza del (OMISSIS), a seguito della quale, per effetto dello spossessamento subito dalla societa’ fallita, i suoi beni sono stati gia’ appresi dalla Curatela fallimentare. Sia che lo si qualifichi come un pignoramento generale dei beni del fallito, sia che lo si intenda in termini di patrimonio separato, certo e’ che la privazione della disponibilita’ disposta dall’articolo 42 L. Fall., importa comunque il venir meno del potere di disporre e di amministrare il proprio patrimonio in capo al fallito che passa, per effetto della sentenza dichiarativa di fallimento, in capo al curatore. Se e’ possibile considerare il vincolo penale insensibile alla successiva dichiarazione di fallimento atteso che e’ solo con la relativa pronuncia resa dal Tribunale fallimentare che la Curatela acquisisce la disponibilita’ del patrimonio del fallito (Sez. 3, n. 23907 del 01/03/2016 – dep. 09/06/2016, P.M. in proc. Taurino, Rv. 266940) non puo’ tuttavia pervenirsi alle stesse conclusioni nel caso contrario, affermando, cosi’ come fanno i giudici partenopei, che la sequenza temporale tra i due vincoli sia irrilevante “attesa la diversa finalita’ cui ognuno di essi e’ preordinato non essendo i diritti di credito dei terzi insinuatisi al passivo della procedura concorsuale ricompresi nel piu’ ristretto ambito del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 12-bis dove l’unico limite alla confiscabilita’ e’ rappresentato dall’appartenenza del bene a persona estranea al reato”.
E’ per contro la preesistenza della procedura fallimentare che inverte diametralmente la prospettiva, traducendosi in un ostacolo che relega ad un ruolo del tutto secondario la natura rivestita dalla confisca cui e’ finalizzato il sequestro successivamente disposto dal giudice penale: l’indisponibilita’ dei beni in capo al fallito, posta a presidio degli interessi cui la procedura concorsuale e’ sottesa, che travalicano il profilo squisitamente privatistico dell’insolvenza del fallito nei confronti dei singoli creditori stanti i riflessi pubblicistici correlati alla necessita’ che il tracollo dell’impresa non si estenda a macchia di leopardo ai soggetti che con questa abbiano avuto rapporti e dunque, in ultima analisi, posti a tutela delle esigenze economiche della collettivita’ implicanti certezza del diritto, non ne consente l’assoggettabilita’ al vincolo penale per effetto del sequestro finalizzato alla confisca.
Come acutamente argomentato in un recente arresto di questa Corte, il concetto di disponibilita’, nel settore delle cautele reali, ivi compresa quella penale ha un contenuto esclusivamente fattuale, corrispondendo in sostanza all’istituto civile del possesso, inteso quale potere di fatto sul bene che ne e’ l’oggetto. Pertanto, pur se chi ha la disponibilita’ puo’ avere sullo stesso bene anche un diritto reale – nei casi in cui non si sia aperta alcuna discrasia tra forma e fatto -, il diritto comunque non e’ il presupposto automatico della disponibilita’, che in sede penale costituisce proprio lo strumento per contrastare la titolarita’ di diritti “vuoti” su beni che in realta’ sono esclusivamente a disposizione di soggetti diversi da chi ne e’ il proprietario o comunque e’ il titolare di un diritto su di essi. La disponibilita’ nel settore delle cautele reali penali esige quindi l’effettivita’, ovvero un reale potere di fatto sul bene che ne e’ l’oggetto (Sez. 3, n. 42469 del 12/07/2016 – dep. 07/10/2016, Amista, Rv. 268015). Invero, il vincolo apposto sui beni del fallito a seguito dell’apertura di una procedura concorsuale, se da un canto mira a spossessare il fallito o la societa’ fallita dei beni che costituiscono la garanzia patrimoniale del ceto creditorio, dall’altro conferisce al curatore, che ne e’ insieme al Tribunale e al giudice delegato l’organo, il potere di gestione di tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento ovvero la dispersione e garantire al contempo la par condicio dei creditori, i quali, in virtu’ dell’ammissione al passivo, sono portatori di diritti alla conservazione dell’attivo, nella prospettiva della migliore soddisfazione dei loro crediti, che, pur convivendo fino alla vendita fallimentare con quelli di proprieta’ del fallito e con il vincolo derivante dal concorso, trovano cosi’ riconoscimento e tutela.
E cio’ riveste profili ancor piu’ accentuati ove si consideri la natura della massa fallimentare su cui, nella specie, la misura reale e’ caduta, avendo questa attinto le somme in giacenza sui conti correnti intestati alla curatela fallimentare: in essa sono compresi non soltanto i beni facenti parte del patrimonio del fallito, ma altresi’, atteso il potere di gestione e di amministrazione demandato alla curatela, i proventi derivati dall’esercizio del suddetto potere che, vuoi per effetto dell’esperimento fruttuoso di azioni revocatorie fallimentari, vuoi attraverso azioni di inefficacia dei pagamenti post-fallimentari, vuoi a seguito di attivita’ strettamente liquidatorie e comunque di tutte le iniziative poste in essere dal curatore al fine di soddisfare le ragioni dei creditori concorsuali, vengono ad accrescere la massa attiva. Trattandosi di somme che costituiscono, come del resto riconosce la stessa ordinanza impugnata, il frutto delle attivita’ recuperatorie poste in essere dal curatore, e’ evidente che esse non siano piu’ riconducibili alla compagine fallita.
La peculiare natura dell’attivo fallimentare e’ pertanto di ostacolo all’applicabilita’ del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 12-bis che individua quale limite all’operativita’ della confisca l’appartenenza dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato a terzi estranei al reato, ovvero l‘indisponibilita’ dei medesimi in capo al reo e dunque alla persona giuridica rappresentata dall’autore del reato. E’ infatti proprio la suddetta previsione normativa che impone di considerare la disponibilita’ dei beni appresi dalla procedura fallimentare antecedentemente al sequestro come assorbente, trattandosi di un soggetto terzo, rispetto all’elemento della titolarita’ formale del diritto di proprieta’ in capo all’indagato/condannato, astrattamente rilevante nel campo penale, in quanto contestualmente privato del potere di fatto sui medesimi beni.
Argomento questo che si aggiunge al dirimente rilievo secondo cui la suddetta societa’, priva per le ragioni esposte di alcun diritto, cosi’ come di alcuna disponibilita’ dei beni appresi dal sequestro, non puo’ comunque essere, in quanto persona giuridica, chiamata a rispondere del reato tributario contestato al suo legale rappresentante ed a fortiori passibile della misura cautelare in esame.
D’altra parte e’ la stessa legittimazione della curatela all’impugnativa proposta, puntualmente riconosciuta dall’ordinanza impugnata, che portata alle sue naturali conseguenze, conduce a siffatte conclusioni. Se e’ infatti la disponibilita’ dei beni e’ quel che le conferisce la legittimazione (e che trova a ben guardare riscontro negli articoli 322, 322 bis e 325 c.p.p., laddove legittimano a impugnare – infatti distinguendole – non solo la persona “che avrebbe diritto alla loro restituzione” ma anche la “persona alla quale le cose sono state sequestrate”), non si vede come possa esserle negata nel merito della tutela invocata la posizione di terzieta’ rispetto al soggetto indagato.
2. Riguardata sotto altro diverso profilo, l’equivocita’ del ragionamento seguito dal Tribunale del Riesame risulta di palmare evidenza ove si consideri la stessa qualificazione che viene data del sequestro in esame, definito, in conformita’ al decreto originario del GIP, funzionale alla confisca per equivalente, nonostante costituisca jus receptum che questo non possa mai essere consentito nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio (Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014 – dep. 05/03/2014, Gubert, Rv. 258646).
Muovendo dal presupposto che il profitto del reato si identifica nei reati tributari, dove non necessariamente l’operazione posta in essere si concretizza in un incremento patrimoniale del reo, ben potendosi risolvere in un risparmio di imposta e dunque di spesa, con il vantaggio economico derivante dalla commissione dell’illecito, di talche’ il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato e’ comunque costituito da denaro, va ribadito, come affermato da questa Corte nel suo supremo consesso nella sentenza appena citata, che, in presenza di reati contestati alla persona fisica corrispondenti a quelli che fungono da presupposto per la responsabilita’ della persona giuridica, il sequestro disposto sul danaro o su altri beni fungibili dell’ente o della persona giuridica si configura, ove teso a colpire il profitto del reato posto in essere dal legale rappresentante, sempre come confisca diretta, non potendosi considerare la societa’ in tal caso estranea al reato e non necessitando, in considerazione della natura fungibile del bene, della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato.
Il sequestro per equivalente, invece, e’ legittimo solo quando il reperimento dei beni costituenti il profitto del reato sia impossibile, sia pure transitoriamente, oppure quando gli stessi non siano aggredibili per qualsiasi ragione. In virtu’ della stessa natura della confisca per equivalente, non sussiste alcun obbligo di individuare nel decreto di sequestro preventivo o nella confisca i beni su cui porre il vincolo. Una simile indicazione troverebbe la sua giustificazione nell’esistenza di un rapporto strumentale fra il bene da sequestrare, come profitto o prezzo dell’attivita’ criminosa, e il reato; mentre, ai fini della confisca per equivalente, non e’ necessaria la sussistenza di un rapporto di pertinenzialita’ fra la res e il reato dal momento che la misura non ricade direttamente sui beni costituenti il profitto del reato, ma ha per oggetto il controvalore di essi. Il giudice che dispone il sequestro o la confisca e’ solo tenuto, dunque, ad indicare l’importo complessivo da sequestrare e l’individuazione specifica dei beni da apprendere e la verifica della corrispondenza del loro valore con il quantum indicato nel sequestro, e’ riservata, infatti, alla fase esecutiva demandata al Pubblico Ministero (Sez. 3, n. 55482 del 20/07/2017 – dep. 13/12/2017, Manzo, Rv. 271987; Sez. 3, 7 maggio 2014, n. 37848; Sez. 2, 21 luglio 2015, n. 36464).
Quindi, se i beni in concreto sequestrati, ovverosia le somme in giacenza sui conti correnti intestati alla curatela, non costituiscono, sulla base delle ragioni sopra evidenziate, profitto diretto dei reati in contestazione, circostanza questa che del resto neppure l’ordinanza impugnata arriva ad affermare, il sequestro per equivalente disposto nei confronti della societa’ fallita deve ritenersi anche sotto tale ulteriore profilo illegittimo.
Ed invero se la confisca che ha ad oggetto somme di danaro riconducibili alla persona giuridica che ha beneficiato dell’illecito e’ sempre qualificabile come confisca diretta, essendo tesa a colpire il profitto dello stesso reato, che la natura fungibile del denaro consente di confondere con le altre utilita’ economiche facenti parte del suo patrimonio, ne deriva a contrario che la confisca, e per essa il sequestro, disposto su somme di danaro non riconducibili alla societa’ nell’interesse della quale e’ stato commesso il reato non possa qualificarsi ne’ come confisca diretta, difettando ad esse la caratteristica di profitto, ne’ per equivalente che e’, invece, una misura diretta esclusivamente nei confronti degli amministratori, e segnatamente all’apprensione del controvalore dei beni nella titolarita’ dei medesimi, quando non vengano rinvenuti beni nel patrimonio della societa’ o quando essi non siano, per qualsiasi ragioni aggredibili. Muovendo dal presupposto in forza del quale, nel caso degli enti, il rappresentante che ponga in essere la condotta materiale riconducibile a reati tributari non puo’ che aver operato proprio nell’interesse ed a vantaggio dell’ente medesimo, e’ in relazione al soggetto fruitore del profitto che si marca la distinzione tra sequestro in forma specifica, avente ad oggetto direttamente il profitto conseguito dall’illecito che ove posto in essere dalla persona fisica in qualita’ di organo della societa’ non puo’ essere che riferito a quest’ultima, e il sequestro per equivalente, avente ad oggetto i beni della persona fisica che ha agito quale organo della societa’ ma che percio’ non e’ il soggetto che ha conseguito direttamente il profitto conseguente all’illecito.
Ne consegue che la confisca per equivalente nei confronti di una societa’, cosi’ come e’ avvenuto nel caso in esame, e’ un’operazione, fuoriuscendosi dall’ipotesi della societa’-schermo attraverso la quale operano direttamente una o piu’ persone fisiche, anche solo concettualmente incondivisibile. Va infatti ribadito, come gia’ chiarito dalle Sezioni Unite dalla sentenza Gubert sopra citata, che il vigente ordinamento non contempla alcuna responsabilita’ penale degli enti, essendo prevista dal Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231 solo una responsabilita’ amministrativa, che comunque non comprende tra quelli enucleati dal cit. D.Lgs., articolo 24 e ss. i reati tributari, sicche’ la societa’ non e’ mai il soggetto autore del reato ne’ concorrente nello stesso. Non sussistendo pertanto una base normativa per la confisca per equivalente in capo alla persona giuridica per i reati tributari commessi dai suoi organi, ne consegue che la s.p.a. (OMISSIS) nei confronti della quale e’ stato disposto il sequestro per equivalente, cosi’ come non puo’ essere chiamata a rispondere dei reati tributari in contestazione, non puo’ comunque essere destinataria della misura cautelare in esame, tanto piu’ che le somme sequestrate, in quanto corrispondenti ad attivita’ recuperatorie poste in essere dal curatore a seguito dell’apprensione dei beni della societa’ fallita nella procedura concorsuale, sono riferibili, come sopra rilevato, esclusivamente a quest’ultima.
Sulla scorta dei sovrastanti rilievi deve quindi concludersi per l’annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato, con conseguente inefficacia della misura cautelare reale, restando assorbito ogni ulteriore profilo di doglianza.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata; dichiara la perdita di efficacia della misura cautelare reale e manda alla Cancelleria per l’immediata comunicazione al Procuratore Generale in sede per quanto di competenza ai sensi dell’articolo 626 c.p.p..