Corte di Cassazione, sezione lavoro, Ordinanza 7 maggio 2019, n. 11949.
La massima estrapolata:
È legittimo il licenziamento disciplinare dell’avvocato dipendente del ministero dell’Economia e delle Finanze che ricopre incarichi retribuiti senza preventiva autorizzazione.
Ordinanza 7 maggio 2019, n. 11949
Data udienza 14 marzo 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente
Dott. TORRICE Amelia – rel. Consigliere
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere
Dott. TRICOMI Irene – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 5237/2018 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI, 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5062/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 15/12/2017 R.G.N. 4834/2016.
RILEVATO IN FATTO
1. questa Corte con la sentenza n. 17307 del 2016, ha cassato la sentenza della Corte di Appello di Roma che aveva confermato la sentenza di primo grado, con la quale era stata dichiarata l’illegittimita’ del licenziamento disciplinare intimato a (OMISSIS) in, data 4 maggio 201;
2. la sentenza rescindente ha affermato che il Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55 bis, comma 9, prevede che nelle ipotesi di sospensione cautelare dal servizio e di infrazione disciplinare di natura e gravita’ tale da giustificare il licenziamento, l’azione disciplinare nei confronti del dipendente dimessosi debba essere iniziata e/o proseguita, nel rispetto dei termini di cui allo stesso articolo 55 bis, non rilevando che le dimissioni siano intervenute in epoca antecedente all’avvio del procedimento ed ha, quindi, rinviato alla medesima Corte territoriale affinche’ decidesse nel merito la controversia facendo applicazione del richiamato principio di diritto;
3. la Corte di Appello di Roma, con la sentenza indicata in epigrafe, pronunciando in sede di rinvio, su riassunzione del lavoratore, ha accolto l’appello del Ministero avverso la sentenza del Tribunale di primo grado ed ha rigettato la domanda proposta dall’odierno ricorrente;
4. la Corte territoriale, per quanto oggi rileva, ha ritenuto che:
5. i termini previsti dal Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55 bis, per la contestazione disciplinare (quaranta giorni) e per la conclusione del procedimento disciplinare (centoventi giorni) erano stati rispettati in quanto la notizia relativa ai fatti oggetto di contestazione disciplinare era pervenuta all’UPD il 17.12.2000, la contestazione disciplinare era stata effettuata l’11.1.2011, il provvedimento disciplinare era stato adottato il 4.5.2011;
6. il procedimento disciplinare era stato avviato, istruito e definito dalla Direzione Generale delle Politiche del Personale Dipartimento dell’Amministrazione Generale del Personale e dei Servizi – Ufficio IV, individuato dall’Amministrazione come l’Ufficio Istruttore competente per l’esercizio dell’azione disciplinare;
7. non era necessaria la previa diffida prevista dal Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 53, comma 1, che regola le situazioni di incompatibilita’ previste dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del 1957, in quanto la contestazione disciplinare aveva ad oggetto lo svolgimento di incarichi retribuiti privi di autorizzazione, fattispecie disciplinata dal Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 53, comma 7;
8. gli incarichi conferiti dal Comune di Pomezia con delibera del 23.7.2008 e quello di componente della commissione giudicatrice per l’appalto di servizio da parte della ASL di (OMISSIS) (lettere a) e c)) della contestazione disciplinare erano stati conferiti ed espletati dopo l’assunzione presso il Ministero; gli incarichi di collaborazione con la Provincia di Milano e di consulente giuridico per due anni della societa’ (OMISSIS) lettere b) e d) della contestazione), conferiti prima dell’assunzione alle dipendenze del Ministero, si erano protratti senza autorizzazione, durante il rapporto di lavoro instaurato con il Ministero; gli incarichi per la prestazione di assistenza e di consulenza legale e gli incarichi professionali presso lo studio (OMISSIS), presso la (OMISSIS) e presso la societa’ (OMISSIS) (lettere e, f) e g della contestazione) dovevano presumersi effettuati in coincidenza temporale con l’emissione delle fatture, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 6, comma 3;
9. la sanzione risolutiva era proporzionata rispetto agli addebiti contestati, avuto riguardo alla pluralita’ delle violazioni dell’obbligo di richiedere l’autorizzazione, alla plurioffensivita’ delle condotte, che contrastavano con il dovere di indipendenza e di evitare situazioni di potenziale conflitto di interessi (articolo 2, comma 2 codice di comportamento approvato con Decreto Ministeriale 28 novembre 2000) e con il divieto di svolgere attivita’ di natura amministrativo-contabile, proprie o tipiche degli avvocati e di accettare incarichi da Amministrazioni enti organismi pubblici e societa’, imposto dal Codice Etico del Ministero ai dipendenti addetti, come il (OMISSIS), a funzioni sensibili;
10. avverso questa sentenza (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi di ricorso, al quale ha resistito con controricorso il Ministero dell’Economia e delle Finanze.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Sintesi dei motivi.
11. Con il primo motivo il ricorrente formula istanza di deferimento della questione decisa con la sentenza rescindente n. 17307 del 2016 alle Sezioni Unite di questa Corte ai sensi dell’articolo 374 c.p.c., comma 2 – Ipotesi di contrasto in ordine a questioni di diritto gia’ decise in senso difforme dalle sezioni semplici – Rilevanza della questione di massima come di particolare importanza.
12. Sostiene che il principio di diritto esposto nella sentenza rescindente e’ in contrasto con il principio affermato nella ordinanza n. 18849 del 2017.
13. Con il secondo motivo il ricorrente assume che il Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55 bis, comma 9, contrasta con gli articoli 2 (“recte” 3), 24 e 97 Cost., e chiede che tale questione sia rimessa alla Corte Costituzionale;
14. sostiene che la possibilita’ riconosciuta alla PA dall’articolo 55 bis di perseguire disciplinarmente il dipendente anche in assenza “aggancio” con il potere gerarchico contrasta con il principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, con il diritto di difendersi “(magari facendo valere l’inesistenza di un vincolo gerarchico nel periodo susseguente alle dimissioni) da azioni postume ed afflittive”, nonche’, con i principi di imparzialita’ e di buon andamento della P.A. “nel caso di ipotetica confusione in ordine alla concorrenza di diversi poteri gerarchici in presenza di rapporti di impiego successivi” (nei casi in cui il lavoratore sia passato alle dipendenze di altra P.A.);
15. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione dell’articolo 384 c.p.c., comma 2, “per i profili dell’assoluta carenza di potere di disciplinare per conseguente illegittima applicazione del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55 bis, commi 2 e 4, e commi 8 e 9”;
16. imputa alla Corte territoriale di non avere esaminato le censure formulate da esso ricorrente nel ricorso in riassunzione e sostiene che, una volta che il rapporto di lavoro e’ cessato per dimissioni, la P.A., ormai priva del potere gerarchico, non puo’ dare avvio al procedimento disciplinare; deduce che al tempo di avvio del procedimento disciplinare esso ricorrente non era pi’u’ sottoposto al potere gerarchico del Ministero perche’ era passato alle dipendenze di altra amministrazione (Comune di Pomezia) con conseguente applicazione dell’articolo 55 bis, comma 8, il quale dispone che in caso di trasferimento del dipendente il procedimento disciplinare e’ avviato e con concluso dall’Amministrazione di destinazione;
17. assume che l’articolo 55 bis, consente la continuazione del procedimento disciplinare in caso di dimissioni solo allorche’ “ab inizio nella lettera di contestazione degli addebiti disciplinari e nella individuazione della sanzione applicabile, la possibilita’ del licenziamento sia del tutto evidente e rappresenti la sanzione connessa a quel comportamento sulla base degli elementi in mano all’Amministrazione” e asserisce che il Ministero aveva “forzatamente contestato la sanzione del licenziamento” perche’ tale sanzione non era ipotizzabile nella fase iniziale; deduce che il Ministero “ha applicato per giustificare il licenziamento le norme di cui alla L. n. 662 del 1996, articolo 1, commi 60 e 61”;
18. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione “relativamente alla decorrenza dei termini di avvio e conclusione del procedimento disciplinare di cui al Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55 bis;
19. deduce che la notizia dell’infrazione disciplinare era giunta a conoscenza del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Generale del Personale e dei Servizi del Ministero in data 1.10.2010 e sostiene che il termine per l’avvio e la chiusura del procedimento disciplinare decorre dalla data in cui gli atti trasmessi dalla Corte dei Conti erano pervenuti al predetto organo;
20. sostiene che, mentre l’attivita’ procedimentale era stata svolta dall’Ufficio IV della Direzione centrale per le politiche del personale del (OMISSIS) e dalla dottoressa (OMISSIS), che aveva assunto la veste di responsabile del procedimento, la sanzione disciplinare era stata adottata da un organo diverso;
21. asserisce che la condotta addebitata e’ priva di rilievo disciplinare in quanto non era intervenuta la diffida dell’Amministrazione volta a far cessare la situazione di incompatibilita’, oggetto di contestazione disciplinare e che, cessato il rapporto, non poteva intervenire alcuna diffida;
22. deduce che tutti gli incarichi indicati nella lettera di contestazione erano stati espletati prima del 24 giugno 2008 ed erano, comunque, autorizzabili in quanto estranei a situazioni di conflitto di interesse con l’Amministrazione;
23. asserisce che il licenziamento e’ sproporzionato rispetto alla contestata violazione di espletamento di incarichi non autorizzati, condotta questa riferibile al piu’ a quella sanzionata dall’articolo 9, comma 4, lettera a), del CCNL di Comparto;
24. sostiene che, ai sensi del Codice Etico, rilevano soltanto le attivita’ esterne incompatibili con la corretta esecuzione dell’attivita’ affidata al Ministero e deduce che nessuno degli incarichi espletati presentava tali caratteristiche e aggiunge che gli incarichi oggetto di contestazione disciplinare erano iniziati prima della instaurazione del rapporto con il Ministero;
25. asserisce che solo il licenziamento disciplinare non anche il licenziamento per giusta causa, consente l’avvio del procedimento disciplinare in caso di dimissioni;
Esame dei motivi l’istanza di rimessione alle Sezioni Unite.
26. a norma dell’articolo 384 c.p.c., comma 2, l’enunciazione del principio di diritto vincola il giudice di rinvio che ad esso deve uniformarsi, con conseguente preclusione della possibilita’ di rimettere in discussione questioni, di fatto o di diritto, che siano il presupposto di quella decisione, e di tener conto di eventuali mutamenti giurisprudenziali della stessa Corte, anche a Sezioni Unite, non essendo consentito in sede di rinvio sindacare l’esattezza del principio affermato dal giudice di legittimita’ (Cass. nn. 4087/2019, 4086/2019, 30916/2018, 1995/2015, 17353/2010, 23169/2006, 16518/2004, 11290/1999);
27. dall’irretrattabilita’ del principio di diritto discende che la Corte di Cassazione, nuovamente investita del ricorso avverso la sentenza pronunziata dal giudice di merito, deve giudicare muovendo dalla “regula iuris” in precedenza enunciata, perche’ l’efficacia vincolante, che si estende anche alle premesse logico-giuridiche della decisione adottata oggetto di giudicato implicito interno (Cass. nn. 20981/2015, 17353/2010), viene meno solo qualora la norma, in epoca successiva alla pubblicazione della pronuncia rescindente, sia stata dichiarata costituzionalmente illegittima ovvero sia divenuta inapplicabile per effetto di “ius superveniens” (Cass. nn. 20128/2013, 13873/2012, 17442/2006);
28. tali condizioni non ricorrono nel caso di specie, perche’ il quadro normativo e’ rimasto immutato rispetto a quello apprezzato dalla sentenza rescindente, che, come gia’ evidenziato, ha indicato con chiarezza i limiti del giudizio di rinvio;
29. sulla scorta delle considerazioni svolte, l’istanza rimessione alle Sezioni Unite formulata dal ricorrente, la quale, va precisato, costituisce mera sollecitazione all’esercizio di un potere discrezionale, che non solo non e’ soggetto ad un dovere di motivazione, ma non deve neppure necessariamente manifestarsi in uno specifico esame di detta istanza (Cass. 12962/2016), deve essere disattesa perche’ sollecita l’inammissibile revisione della “regola iuris” contenuta nella sentenza rescindente;
le eccezioni di incostituzionalita’.
30. le questioni di legittimita’ costituzionale del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55 bis, comma 9, per contrasto con gli articoli 3, 24 e 97 Cost., sono manifestamente infondate;
31. non e’ ravvisabile la dedotta violazione dell’articolo 3 Cost., in quanto la mancata allegazione di elementi specificativi correlati a situazioni confrontabili con quella disciplinata dal Decreto Legislativo n. 165 del 2009, articolo 55 bis, comma 9, rende impossibile ogni giudizio comparativo;
32. non e’ ravvisabile alcun contrasto tra la predetta disposizione e l’articolo 24 Costituzione perche’ il Decreto Legislativo n. 165 del 2009, articolo 55 bis, comma 9, non contiene alcuna limitazione del diritto del dipendente dimissionario che venga sottoposto al procedimento disciplinare di agire in giudizio;
33. non e’ ravvisabile la dedotta violazione del principio di cui all’articolo 97 Cost., ad opera del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55 bis, comma 9, in quanto, come gia’ affermato nella sentenza rescindente, il perdurante interesse della P.A. datrice di lavoro all’accertamento della responsabilita’ disciplinare, pure nei casi di cessazione del rapporto di lavoro, e’ stato riconosciuto al precipuo fine di assicurare il rispetto dei principi di legalita’, di buon andamento e di imparzialita’ dell’amministrazione che, per volonta’ del legislatore costituzionale, devono sempre caratterizzare l’azione della pubblica amministrazione.
34. il terzo motivo presenta profili di inammissibilita’ e di infondatezza;
35. la censura, che addebita alla Corte territoriale di non avere esaminato tutte le censure formulate nell’atto di riassunzione, e’ inammissibile perche’ nelle prospettazioni difensive sviluppate nel motivo, erroneamente rubricato con richiamo dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, non si fa riferimento alcuno alla nullita’ della sentenza derivata dall'”error in procedendo” (Cass. SSUU. 17931/2013);
36. va ribadito il principio, condiviso dal Collegio, secondo cui l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello, cosi’ come, in genere, l’omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio, risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di attivita’ del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente ex articolo 360 c.p.c., n. 4, e non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex articolo 360 c.p.c., n. 3, o del vizio di motivazione ex articolo 360 c.p.c., n. 5, in quanto solo la denuncia dell'”error in procedendo” consente al giudice di legittimita’, in tal caso giudice anche del fatto processuale, di effettuare l’esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, cosi’, anche dell’atto di appello. (Cass. 27.10.2014 n. 22759);
37. il motivo e’ inammissibile nella parte in cui il ricorrente addebita alla sentenza impugnata di non avere considerato che il Ministero era privo del potere gerarchico in ragione della cessazione del rapporto di lavoro a seguito delle dimissioni e nella parte in cui assume che l’articolo 55 bis consente la continuazione del procedimento disciplinare in caso di dimissioni solo allorche’ “ab inizio nella lettera di contestazione degli addebiti disciplinari e nella individuazione della sanzione applicabile, la possibilita’ del licenziamento sia del tutto evidente e rappresenti la sanzione connessa a quel comportamento sulla base degli elementi in mano all’Amministrazione”;
38. in primo luogo perche’ le censure mirano a sovvertire la “regola iuris” contenuta nella sentenza rescindente (si rinvia alle considerazioni svolte nei punti 26 e 27 di questa sentenza);
39. in secondo luogo perche’ le censure sono formulate sulla scorta di prospettazioni del tutto oscure nella parte in cui deducono che il Ministero avrebbe “forzatamente contestato la sanzione del licenziamento” e, nella parte in cui deducono che il Ministero “ha applicato per giustificare il licenziamento le norme di cui alla L. n. 662 del 1996, articolo 1, commi 60 e 61”;
40. in terzo luogo perche’ il ricorrente non ha ottemperato agli oneri di specificazione e di allegazione imposti dall’articolo 366 c.p.c., n. 6, e articolo 369 c.p.c., n. 4, (Cass. SSUU 8077/2012; Cass. 5696/2018, 24883/2017, 13713/2015, 19157/2012, 6937/2010), posto che ne’ la lettera di contestazione ne’ il provvedimento sanzionatorio, non allegati al ricorso, sono stati riprodotti nel ricorso nelle parti salienti e rilevanti;
41. il motivo e’ infondato nella parte in cui il ricorrente invoca il Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55, comma 8, per sostenere che il procedimento disciplinare avrebbe dovuto essere iniziato e proseguito dalla Amministrazione alle cui dipendenze esso ricorrente era passato all’esito della cessazione del rapporto con il Ministero per effetto delle sue dimissioni;
42. l’instaurazione di un nuovo e distinto rapporto di lavoro con una Amministrazione diversa da quella titolare del rapporto di lavoro cessato all’esito delle dimissioni, fattispecie realizzatasi incontestatamente nel caso in esame, non configura, infatti, l’ipotesi del trasferimento di cui al Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55, comma 8, che dispone che “in caso di trasferimento del dipendente, a qualunque titolo, in un’altra amministrazione pubblica, il procedimento disciplinare e’ avviato o concluso o la sanzione e’ applicata presso quest’ultima…”;
43. il quarto motivo presenta profili di infondatezza e di inammissibilita’;
44. con riguardo alla sanzione prevista dal Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55 bis, comma 4, per il mancato rispetto del termine per la contestazione disciplinare, questa Corte ha ripetutamente affermato che essa opera solo in relazione ai termini imposti all’Ufficio competente per il procedimento disciplinare, per cui rileva la data di ricezione degli atti da parte di quest’ultimo, o, eventualmente, la notizia che abbia diversamente acquisito il medesimo ufficio, e non altri organi o articolazioni dell’ente, con la sola eccezione del responsabile della struttura di assegnazione del dipendente (Cass. 16706/2018, 9390/2017, 19183/2016, 16900/2016, 17153/2015, 20733/2015);
45. questa Corte ha anche affermato che, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare (articolo 55 bis, comma 4, ultima parte del richiamato Decreto Legislativo n. 165), in conformita’ con il principio del giusto procedimento, come inteso dalla Corte Costituzionale (C. Cost. 310/2010), assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una “notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell’addebito, dell’istruttoria e dell’adozione della sanzione (Cass. 6989/2019, 25379/2017, 7134/2017, 20733/2015);
46. il principio, sebbene affermato in relazione al termine di 120 giorni previsto per la conclusione del procedimento, e’ applicabile anche qualora venga in rilievo la tempestivita’ della contestazione, poiche’ quest’ultima puo’ essere ritenuta tardiva solo qualora l’amministrazione rimanga ingiustificatamente inerte e, quindi, non proceda ad avviare il procedimento, pur essendo in possesso degli elementi necessari per il suo valido avvio;
47. il termine, invece, non puo’ decorrere a fronte di una notizia che, per la sua genericita’, non consenta la formulazione dell’incolpazione e richieda accertamenti di carattere preliminare volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l’addebito;
48. dei richiamati principi la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione alla fattispecie dedotta in giudizio;
49. essa, infatti, ha ritenuto tempestiva la contestazione disciplinare in data 11.1.2011 avendo accertato che la documentazione trasmessa dalla Corte dei Conti era pervenuta all’UPD in data 17.12.2010 ed ha rilevato che la sanzione disciplinare era stata adottata il 4.5.2011, nel pieno rispetto del termine di 120 giorni decorrente dalla data della contestazione disciplinare;
50. l’accertamento in fatto contenuto nella sentenza impugnata in ordine alla data di acquisizione del momento in cui l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari e’ riservato al giudice del merito (Cass. 16706/2018, 29230/2017, 19183/2016, 16900/2016, 14324/2015) e non e’ stato adeguatamente contrastato dal ricorrente il quale, nel dedurre che la notizia dell’infrazione disciplinare era giunta a conoscenza del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Generale del Personale e dei Servizi del Ministero in data 1.10.2010, non allega e non chiarisce se l’organo di vertice fosse il responsabile della struttura dalla quale esso ricorrente dipendeva;
51. il motivo e’ inammissibile nella parte in cui il ricorrente deduce che la sanzione disciplinare era stata adottata da un organo diverso dall’UPD in quanto sollecita l’esame del merito della causa, quanto all’effettivo svolgimento da parte dell’UPD di tutte le attivita’ del procedimento disciplinare, riesame inammissibile in sede di legittimita’;
52. sono, del pari inammissibili, per le medesime ragioni innanzi svolte, le prospettazioni difensive che mirano a sollecitare, sotto l’apparente denuncia del vizio di violazione di legge, il riesame del merito della causa in ordine agli accertamenti compiuti dalla Corte territoriale sulla data in cui le attivita’ relative agli incarichi retribuiti, per i quali non v’era stata richiesta di autorizzazione, erano state poste in essere e/o proseguite successivamente alla instaurazione del rapporto di lavoro con il Ministero;
53. il motivo e’ inammissibile nella parte in cui il ricorrente asserisce che gli incarichi espletati erano, comunque, autorizzabili non sussistendo situazioni di conflitto di interesse con l’Amministrazione perche’ il ricorrente non ha allegato se e in quale atto processuale, detta questione, che non risulta trattata nella sentenza impugnata, comportante anche accertamenti in fatto (inesistenza di situazioni di conflitto di interessi) sia stata sottoposta alla Corte territoriale (Cass. 10510/2018, 27568/2017);
54. il motivo e’ comunque infondato in quanto la previa autorizzazione prevista dal Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 53, comma 7, per l’espletamento di incarichi retribuiti e’ funzionale al potere della P.A. datrice di lavoro di valutare la compatibilita’ degli incarichi con gli obblighi che discendono dal rapporto di impiego e l’eventuale sussistenza di un conflitto di interessi.
55. il motivo, nella parte in cui, muovendo dall’assunto della mancanza della diffida a far cessare le cause di incompatibilita’ con il rapporto di impiego alle dipendenze del Ministero correlate agli incarichi e ai rapporti di lavori con soggetti terzi, denuncia la violazione del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 53, presenta profili di inammissibilita’ e di infondatezza;
56. l’inammissibilita’ delle censure consegue al fatto che il ricorrente, a fronte dell’accertamento contenuto nella sentenza impugnata, nella quale e’ stato rilevato che la contestazione disciplinare aveva avuto ad oggetto lo svolgimento di incarichi senza la preventiva autorizzazione, si limita a dedurre che gli addebiti contestati nelle note nn. 3236 dell’11.1.2011 e n. 35171 del 4.3.2011 facevano riferimento alla sussistenza di rapporti di lavoro e di incarichi incompatibili e avevano prospettato la violazione del regime delle incompatibilita’ di cui al Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 53, comma 1;
57. cio’ fa il ricorrente in violazione degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dall’articolo 366 c.p.c., n. 6, perche’ non riproduce nel ricorso, nelle parti salienti e rilevanti ne’ le lettere di contestazione ne’ il provvedimento sanzionatorio, atti che non risultano allegati al ricorso (si rinvia alle considerazioni svolte nel punto 40 di questa sentenza);
58. le censure sono infondate nella parte in cui e’ dedotta la violazione del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 53,;
59. la disciplina dell’incompatibilita’ prevista dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del 1957, dall’articolo 60 e sgg., applicabile a tutti i dipendenti pubblici, contrattualizzati e non, fatta salva dal Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 53, comma 1, prevede che l’impiegato che si trovi in situazione di incompatibilita’ venga diffidato a cessare da tale situazione e che, decorsi quindici giorni dalla diffida, decada dall’incarico (articolo 63);
60. il Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 53, comma 7, nel testo applicabile “ratione temporis”, che vieta ai dipendenti pubblici di svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza, prevede che, in caso di inosservanza del divieto, salve le piu’ gravi sanzioni e ferma restando la responsabilita’ disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttivita” o di fondi equivalenti;
61. il dato testuale del comma 7, nel quale non v’e’ alcun rinvio al Decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del 1957, ne’ alcun riferimento alla diffida e il dato sistematico, che impone di tenere conto dell’intera disciplina dettata dall’articolo 53, orientano l’interpretazione nel senso che la preventiva diffida non rileva ai fini dell’azione disciplinare esercitata in relazione all’avvenuto espletamento di incarichi retribuiti non autorizzati, ma ai soli fini della decadenza dall’impiego di cui al comma 1;
62. quanto appena osservato trova conferma nella peculiarita’ dell’istituto della decadenza di cui al citato articolo 53, comma 1, istituto che, come ripetutamente affermato questa Corte, non ha natura sanzionatoria o disciplinare, ma costituisce una diretta conseguenza della perdita di quei requisiti di indipendenza e di totale disponibilita’ che, se fossero mancati “ab origine”, avrebbero precluso la stessa costituzione del rapporto di lavoro (Cass. 2055/2018, 28797/2017, 17437/2017,617/2015, 17437/2012, 18608/2009, 967/2015);
63. sulla scorta delle considerazioni svolte nei punti 59, 60, 61 e 62 deve affermarsi il principio di diritto che segue:
64. “ai sensi del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 53, comma 7, il mancato esercizio del potere di diffida di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del 1957, articolo 63, richiamato dal Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 53, comma 1, non preclude l’esercizio dell’azione disciplinare nei casi in cui quest’ultima sia correlata all’espletamento di incarichi retribuiti non autorizzati”;
65. va, in conclusione, rigettato il motivo di censura in esame in quanto la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio di diritto innanzi affermato avendo rilevato che la contestazione aveva ad oggetto l’espletamento di incarichi retribuiti non autorizzati;
66. le censure che denunciano la violazione del principio di proporzionalita’ tra fatti contestati e licenziamento presentano profili di infondatezza e di inammissibilita’;
67. va ribadito il principio reiteratamente affermato da questa Corte secondo cui non e’ configurabile in astratto di qualsivoglia automatismo nell’irrogazione di sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima sanzione, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalita’ della sanzione rispetto al fatto oggetto contestazione e il potere del giudice di annullare la sanzione “eccessiva”, proprio per il divieto di automatismi sanzionatori, non essendo, in definitiva, possibile introdurre, con legge o con contratto, sanzioni disciplinari automaticamente conseguenziali ad illeciti disciplinari (Cass. nn. 28445/2018, 211160/2018, 28796/2017, 10842/2016, 1315/2016, 24796/2010, 26329/2008);
68. deve essere ribadito anche il principio secondo cui l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare norme elastiche, come quella di cui all’articolo 2106 c.c., fatta dal Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 55, comma 2, nel testo applicabile “ratione temporis” alla fattispecie dedotta in giudizio, non sfugge alla verifica in sede di legittimita’, poiche’ l’operativita’ in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi (anche costituzionali) desumibili dall’ordinamento (Cass. 11160/2018, 28796/20917, 21351/2016, 12069/2015, 692/2015, 25608/2014, 6501/2013, 6498/2012, 8017/2006, 10058/2005, 5026/2004);
69. e’ stato, in proposito, affermato che la relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilita’ del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensita’ dell’elemento intenzionale o di quello colposo (Cass. 28796/2017, 1977/2016, 1351/2016, 12059/2015 25608/2014);
70. la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi innanzi richiamati nella formulazione del giudizio valoriale di gravita’ della condotta e di proporzionalita’ della sanzione espulsiva;
71. essa, infatti, ha formulato il giudizio di gravita’ della condotta addebitata all’odierno ricorrente valutando gli aspetti oggettivi e soggettivi della condotta, evidenziando il numero degli incarichi retribuiti svolti in assenza di autorizzazione, la plurioffensivita’ della condotta stessa, violativa del Codice di Comportamento di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 28 novembre 2000, e del codice etico del MEF, ed ha evidenziato, con accertamento in fatto non idoneamente censurato dal ricorrente, che quest’ultimo svolgeva funzioni sensibili;
72. i parametri applicati risultano coerenti con le disposizioni contenute nel CCNL Comparto Dirigenza Ministeri del 12.2.2010 – quadriennio 2006/2009, il quale all’articolo 9 indica tra i criteri generali, da applicarsi con riguardo al tipo e all’entita’ di ciascuna delle sanzioni, “la rilevanza della inosservanza degli obblighi e delle disposizioni violate” (comma 1), e, con norma di chiusura dispone che “Le mancanze non espressamente previste nei commi da 4 a 9, sono comunque sanzionate secondo i criteri di cui al comma 1, facendosi riferimento, quanto all’individuazione dei fatti sanzionabili, agli obblighi dei dirigenti di cui all’articolo 7” (c. 10), tra i quali figura il dovere del dirigente di conformare “la sua condotta al dovere costituzionale di servire la Repubblica con impegno e responsabilita’ e di rispettare i principi di buon andamento, imparzialita’ e trasparenza dell’attivita’ amministrativa nonche’ quelli di leale collaborazione, di diligenza e fedelta’ di cui agli articoli 2104 e 2105 c.c., anteponendo il rispetto della legge e l’interesse pubblico agli interessi privati propri ed altrui”;
73. le considerazioni appena svolte evidenziano l’infondatezza del motivo nella parte in cui il ricorrente, al fine di sminuire la portata e la gravita’ delle condotte sanzionate, assume che ai sensi dell’articolo 9 del sopra richiamato CCNL i fatti addebitati sono sussumibili entro la fattispecie della violazione di disposizioni di servizio, punita con sanzione conservativa;
74. va al riguardo ribadito che l’obbligo di esclusivita’, desumibile dal richiamato articolo 53, ha particolare rilievo nel rapporto di impiego pubblico perche’ trova il suo fondamento costituzionale nell’articolo 98 Cost., con il quale il legislatore costituente, nel prevedere che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” ha voluto rafforzare il principio di imparzialita’ di cui all’articolo 97 Cost., sottraendo il dipendente pubblico dai condizionamenti che potrebbero derivare dall’esercizio di altre attivita’ (Cass. nn. 3467/2019, 427/2019, 20880/2018, 28975/2017, 28797/2017, 8722/2017);
75. le censure formulate nel motivo in esame sono inammissibili nella parte in cui il ricorrente, sotto l’apparente denuncia del vizio di violazione e di falsa applicazione delle disposizioni del CCNL invocate nel ricorso, propone un diverso apprezzamento della gravita’ dei fatti e della concreta ricorrenza degli elementi che integrano il parametro normativo della giusta causa, apprezzamento che, ponendosi sul piano del giudizio di fatto, e’ demandato al giudice di merito ed e’ sindacabile in cassazione solo a condizione che la contestazione contenga una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realta’ sociale (Cass. 5707/2017, 23862/2016, 7568/2016, 2692/2015, 25608/2014, 6498/2012, 5095/2011, 35/2011, 19270/2006, 9299/2004), incoerenza che non e’ ravvisabile nella sentenza impugnata per quanto evidenziato nei punti nn. da 70 a 73 di questa sentenza;
76. il motivo e’ inammissibile anche nella parte in cui il ricorrente, richiamando le nozioni di incompatibilita’ assoluta e di incompatibilita’ relativa asserisce che solo il licenziamento disciplinare e non anche quello per giusta causa consente l’avvio del procedimento disciplinare in caso di dimissioni;
77. siffatte prospettazioni difensive, in parte ripetitive di quelle sviluppate con riguardo alla necessita’ della diffida, restano per larga parte oscure laddove pongono la distinzione tra licenziamento per giusta causa e licenziamento disciplinare per affermare che solo il primo abiliterebbe l’Amministrazione ad esercitare l’azione disciplinare perche’ costituirebbe un effetto della incompatibilita’ previsto dal Testo Unico n. 3 del 1957;
78. sulla scorta delle considerazioni svolte il ricorso deve essere rigettato;
79. le spese seguono la soccombenza;
80. ai sensi dell’articolo 13 c. 1 quater del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimita’, liquidate in Euro 4.000,00, per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per rimborso spese generali forfettarie, oltre IVA e CPA.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.
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