Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 30 gennaio 2014, n. 4394
Ritenuto in fatto
1. Con atto depositato il 16/07/2013, S.A. ha proposto ricorso avverso la sentenza emessa dalla Corte di Appello di L’Aquila il 20/06/2013 di conferma di quella pronunziata dal Tribunale di Pescara il 18/12/2012, che l’aveva condannata, in esito a giudizio abbreviato e previo bilanciamento delle attenuanti generiche con le contestate aggravanti, alla pena di due anni e quattro mesi di reclusione ed Euro 800,00 di multa per i reati di concorso in tentata rapina aggravata, lesioni personali aggravate, sostituzione di persona ed evasione dal luogo di detenzione domiciliare, ritenuti tutti avvinti dal vincolo della continuazione.
2. La ricorrente deduce inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale ex art. 606 lett. b) cod. proc. pen. sotto il duplice profilo: a) dell’erronea applicazione dell’art. 494 cod. pen. per avere la Corte territoriale ritenuto sussistente il delitto di sostituzione di persona, non considerando che l’errore sull’identità e sulla qualifica di dipendente di struttura sanitaria incaricata di controlli a domicilio era stato determinato dalle stesse persone offese e non da comportamento attivo proprio; b) dell’erronea applicazione dell’art. 385 cod. pen. in relazione all’art. 47 quinquies legge n. 354 del 1975, essendosi allontanata dalla propria abitazione, ove era ristretta in forza di provvedimento di detenzione domiciliare, per un lasso temporale non superiore alle dodici ore, ponendo così in essere una condotta penalmente neutra alla luce di quanto stabilito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 177 del 2009 e ritenuta invece rilevante dalla Corte territoriale perché finalizzata alla commissione di delitti, quali positivamente accertati e costituenti oggetto dei giudizi di merito.
Considerato in diritto
3. Il primo motivo di ricorso risulta infondato e come tale deve essere rigettato.
Il reato di cui all’art. 494 cod. pen. costituisce fattispecie residuale rispetto ad altre figure di delitti contro la fede pubblica e trova il suo proprium nell’induzione in errore della persona offesa determinata dall’agente, mediante – tra le varie condotte materiali ivi previste – la falsa attribuzione di qualità cui la legge attribuisce effetti giuridici.
Trattasi, dunque, di fattispecie astratta a forma libera che s’incentra su una condotta ingannevole, comunque attuata, mirante a indurre il soggetto passivo ad attribuire all’agente un falso nome o un falso stato o false qualità personali cui la legge attribuisce specifici effetti giuridici.
Ciò premesso, del tutto correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che, avendo l’imputata dichiarato alle persone offese di dover effettuare un controllo sulla loro salute, le aveva in tal modo indotte in errore tanto da avere le stesse ritenuto di trovarsi al cospetto della dipendente di una struttura sanitaria pubblica incaricata di controlli a domicilio, facilitandone l’ingresso nella propria abitazione, dove sarebbe stato poi perpetrato il tentativo di rapina ai loro danni da sopravvenuti complici.
4. Risulta invece fondato il secondo motivo di ricorso.
La Corte territoriale ha, infatti, ritenuto di ravvisare il reato di allontanamento dal domicilio di espiazione della misura alternativa della detenzione speciale, alla ricorrente concessa perché madre di prole infradecenne, anche se di durata inferiore alle dodici ore, perché l’allontanamento stesso “finalizzato non già alla cura dei minori o alle loro esigenze, ma alla commissione di un nuovo e grave delitto”.
I giudici di merito hanno, infatti, argomentato che la sentenza della Corte Costituzionale n. 177 del 2009 riguardava non tutti i casi di allontanamento ingiustificato dal luogo della detenzione domiciliare, ma solo a quello riguardante le madri di prole infradecenne di cui all’art. 47 ter, comma 1 lett. a) legge n. 354 del 1945 e che nel parificare per esso il margine di tolleranza stabilito dell’art. 47 quinquies della stessa legge, fosse stato fatto salvo “il presupposto della prognosi di insussistenza di un pericolo concreto di commissione di altri delitti”.
Ciò premesso, va in primo luogo rilevato che la ricorrente fruiva propriamente del regime di detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47 quinquies della legge 354/75, come si ricava all’evidenza dal provvedimento del Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila presente in atti: sembra dunque la Corte territoriale essere incorsa in un errore iniziale di fatto che ne ha inficiato il successivo argomentare in diritto.
I giudici di merito hanno, infatti, ritenuto che la sentenza costituzionale n. 177 del 12 giugno 2009 – che ha per l’appunto parificato il regime sanzionatorio penale in caso di allontanamento ingiustificato dal domicilio coatto nel caso del citato art. 47 ter lett. a) a quello previsto dallo art. 47 sexies, comma 2 per il caso dell’art. 47 quinquies della stessa legge, stabilendo la rilevanza penale solo di quello superiore alle dodici ore – abbia comunque subordinato l’operatività della parificazione all’esistenza di un giusto motivo legittimante, evidentemente individuato nella necessità di prestare cura ai minori o sopperire alle loro esigenze.
Detto altrimenti, secondo i giudici di merito l’irrilevanza penale ai sensi dell’art. 385 cod. pen. di allontanamenti ingiustificati ma contenuti nell’arco delle dodici ore, affermata dalla decisione della Corte Costituzionale nei casi di detenzioni domiciliari concesse a madri di prole infradecenne (art. 47 ter lett. a legge n. 354 del 1975), verrebbe meno ove si accertasse – come nel caso di specie – che essi sono stati determinati da motivo diverso da quello sopra descritto.
Va tuttavia ribadito che la ricorrente risultava destinataria precisamente di provvedimento di detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47 quinquies della legge n. 354 del 1975, norma che non ha costituito oggetto della pronunzia di illegittimità costituzionale, fungendo anzi da termine di comparazione per affermare l’irragionevolezza della disparità di trattamento prevista per l’art. 47 ter.
La Corte territoriale sembra, dunque, aver confuso la riaffermazione dei presupposti che, secondo la Corte Costituzionale, debbono sussistere anche per la concessione del beneficio di cui all’art. 47 ter lett. a) con la possibilità per il giudice penale di sindacare i motivi dell’allontanamento ancorché consumatosi all’interno della fascia temporale delle dodici ore.
Tuttavia la parificazione del trattamento sanzionatorio di cui all’art. 47 ter, comma 8 per i casi allontanamento dalla detenzione domiciliare concessa a donna incinta o madre di prole infradecenne con lei convivente a quello stabilito dall’art. 47 sexies, comma 2 per il caso della detenzione domiciliare speciale concesso ai sensi dell’art. 47 quinquies stessa legge sancito dalla Corte Costituzionale non ha comportato alcuna modifica di quest’ultimo, inteso come termine di riferimento caratterizzato dalla previsione di una fascia di tolleranza di dodici ore a favore della condannata che si allontani dal luogo di detenzione domiciliare, nel senso che il suo comportamento in tale arco temporale è suscettibile unicamente di essere valutato dal giudice di sorveglianza ai fini della revoca della misura alternativa alla detenzione, ferma ovviamente restando la risposta dell’ordinamento ove dell’allontanamento la condannata abbia approfittato per commettere uno o più reati.
L’art. 47 quinquies, comma 1 stabilisce, infatti, che “le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di provata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza e accoglienza, al fine di provvedere alla cura ed all’assistenza dei figli, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena o di almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo secondo le modalità di cui al comma 1 bis”.
Si tratta all’evidenza di un regime di favore contemplato per le condannate che versino nelle predette situazioni e che trova fondamento nel rispetto del diritto – dovere di cura ed educazione della prole, ancor più se minorenne, sancito a livello costituzionale (art. 30 Cost.).
A presidio sanzionatorio di possibili violazioni del regime di detenzione domiciliare, l’art. 47 sexies, comma 1 stabilisce che “la condannata ammessa al regime della detenzione domiciliare speciale che rimane assente dal proprio domicilio, senza giustificato motivo, per non più di dodici ore, può essere proposta per la revoca della misura”; il comma 2 prevede, inoltre, che “se l’assenza si protrae per un tempo maggiore la condannata è punita ai sensi dell’art. 385, primo comma, del codice penale ed è applicabile la disposizione dell’ultimo comma dello stesso articolo”.
Vale notare subito che la struttura della norma mutua in pieno il dettato dell’art. 30, comma 3 della stessa legge n. 354/75 in tema di permessi ordinari concessi ai detenuti, il quale contempla che “il detenuto che non rientra in istituto allo scadere del permesso senza giustificato motivo, se l’assenza si protrae per oltre tre ore e per non più di dodici, è punito in via disciplinare; se l’assenza si protrae per un tempo maggiore, è punito a norma del primo comma dello art. 385 del codice penale ed è applicabile la disposizione dell’ultimo capoverso dello stesso articolo”.
Ancorché pure tale previsione contenga un riferimento all’ingiustizia del motivo, mai la giurisprudenza ha dubitato della punibilità del condannato esclusivamente per assenze protrattesi oltre le dodici ore (v. Cass. sez. 3, sent. n. 647 del 16/11/1982, Gallo Rv. 157065 che ha sancito che il dolo del delitto di evasione nella forma del mancato rientro in istituto senza giustificato motivo alla scadenza del permesso, di cui all’art. 30, comma terzo, legge 26 luglio 1975 n. 354 consiste nella consapevole volontà del detenuto di protrarre oltre il termine stabilito il temporaneo stato di libertà derivante dal permesso, senza che la protrazione possa considerarsi giustificata da una causa che impedisce il rientro in istituto) tant’è che ne ha escluso l’applicazione analogica all’ipotesi dell’imputato agli arresti domiciliari fruitore di permessi di allontanamento per le finalità di cui all’art. 284, comma 3 cod. proc. pen. attesa la diversa natura e struttura degli istituti giuridici considerati (Cass. sez. 6 n. 6617 del 21/03/1994, Marrella, Rv. 198302).
In definitiva, risulta fuorviante identificare l’ingiustificato motivo solo e sempre con la commissione di una condotta penalmente rilevante: se, invero, allontanandosi dal domicilio speciale commette, come occorso nella fattispecie, uno o più reati, la condannata ne risponde secondo le consuete regole dell’accertamento penale ed evidentemente anche quanto essi siano stati perpetrati entro la fascia oraria delle dodici ore; va da sé che in tali casi la revoca seguirà in maniera quasi automatica, ma non possono in astratto escludersi valutazioni di segno diverso (si pensi ad es. al caso di contravvenzioni non implicanti condotta in concreto dolosa).
Se l’assenza si protrae, invece, oltre le dodici ore, il comma 2 dell’art. 47 sexies della legge n. 354 del 26 luglio 1975 configura, al pari del ricordato art. 30, comma 3 della stessa disciplina, un’impotesi speciale di evasione di cui all’art. 385 cod. pen. mediante espresso rinvio al comma 3 della previsione codicistica ed al caso ivi contemplato di allontanamento dagli arresti domiciliari.
Ne discende l’affermazione del principio di diritto che “allontanamenti anche ingiustificati dal luogo di detenzione speciale di cui all’art. 47 quinquies della legge n. 354 del 26 luglio 1975 che si protraggano per un tempo inferiore alle dodici ore non integrano il reato di cui al’art. 385, comma 3 cod. pen., essendo suscettibili soltanto di valutazione a fini disciplinari comportanti anche la revoca dell’ammissione alla misura alternativa alla detenzione carceraria, ferma restando la responsabilità penale a diverso titolo per latri reati nel medesimo arco temporale eventualmente commessi”.
5. La sentenza impugnata va, pertanto, annullata sul punto della ritenuta sussistenza del reato di cui all’art. 385 cod. pen. in relazione all’art. 47 quinquies della legge n. 354 del 26 luglio 1975.
Tuttavia, poiché nella sentenza di primo grado confermata da quella impugnata è chiaramente ravvisabile l’aumento di pena stabilito dal giudice a titolo di continuazione rispetto al più grave reato di concorso in tentata rapina (sei mesi di reclusione ed Euro 300,00 di multa complessivi per quelli di sostituzione di persona ed evasione), tenuto conto della applicata diminuzione di un terzo per il rito abbreviato con cui il giudizio si è svolto, si può concludere che per il reato di cui all’art. 385 cod. pen., è stata irrogata alla ricorrente la frazione di pena di due mesi di reclusione e 100,00 Euro di multa, che deve essere conseguentemente eliminata ai sensi dello art. 620 lett. l) cod. proc. pen..
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente al reato di evasione perché il fatto non è previsto della legge come reato ed elimina la relativa pena di mesi due ed Euro 100,00 di multa. Rigetta nel resto il ricorso.
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