poste italiane

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza   12 luglio 2013, n. 30177

Ritenuto in fatto

La Corte di Appello di Milano con sentenza del 28 ottobre 2011 confermava in punto di responsabilità e determinazione della pena la sentenza del Tribunale di Milano del 1 ottobre 2009 che condannava C.A. , D.T.L. , D.S.M. , O.A. , R.G.G. e M.M.G. per vari fatti di truffa aggravata e peculato ai danni di Poste Italiane spa dei quali gli imputati erano dipendenti; riformava parzialmente la sentenza applicando a tutti gli imputati la non menzione della condanna.
Questi i fatti accertati:
nel (omissis) , a seguito della denunzia presentata da un dipendente dell’ufficio di Poste Italiane filiale di (omissis) in ordine ad anomali ritardi di personale di quell’Ufficio nella presentazione quotidiana al lavoro, la polizia giudiziaria disponeva un servizio di controllo sia mediante osservazione diretta che mediante l’installazione di un impianto video che riprendeva l’atrio dell’ufficio di Poste spa, in particolare l’area riservata all’ingresso dei dipendenti, ove si trovava l’orologio marcatempo. Gli accertamenti erano svolti per due settimane lavorative, dai X al (omissis) .
Le registrazioni video così realizzate consentivano di notare i gesti dei soggetti intenti ad utilizzare l’orologio marcatempo, pur non essendo quest’ultimo direttamente visibile; in particolare, secondo i giudici di merito, dai gesti si comprendeva come la dipendente M.M.G. effettuasse più registrazioni di presenza, facendo passare più volte la/e scheda/e badge nel lettore. Sulla scorta della valutazione incrociata di quali fossero i dipendenti il cui ingresso risultava, in base ai dati del sistema di registrazione degli accessi, sostanzialmente contemporaneo a quello della M. e della visione nelle registrazioni video di chi fosse effettivamente entrato in ufficio nel medesimo arco temporale, si individuavano C.A. , O.A. e R.G.G. per coloro la cui presenza era stata registrata dalla M. ma che invece erano assenti. Evidentemente, quindi, la M. aveva avuto a disposizione i loro badge.
I giudici di merito, poiché la pg non aveva verificato se la assenza dei predetti dipendenti in ufficio si fosse protratta per tutto l’arco delle giornate lavorative, ricostruivano i fatti ritenendo che la certezza della loro abusiva assenza dal lavoro, occultata nel modo anzidetto, dovesse essere limitata all’arco temporale tra la timbratura del cartellino e l’orario di spegnimento giornaliero dell’impianto video (ore 8:30), non potendosi comunque escludere che le tre impiegate si fossero recate al lavoro dopo tale orario.
Per tali fatti, considerandone la reiterazione in vari giorni, i giudici di merito ritenevano sussistere il reato di truffa aggravata ai sensi dell’art. 61 nn. 9 ed 11 cod. pen..
Nel corso della medesima attività di indagine, la p.g. accertava che il dipendente D.T. , assegnatario di una vettura Fiat Panda dell’ente per garantire la sua mobilità sul territorio essendo tecnico informatico addetto alla gestione guasti di numerosi uffici postali, la utilizzava ampiamente per ragioni private. Tale condotta risultava dal servizio di pedinamento svolto dalla p.g. che rilevava anche che, in una occasione, l’auto risultava utilizzata anche dal coniuge del D.T. , D.S.M. .
I giudici di merito, non ritenendo che tale condotta fosse giustificata dalle impellenti ragioni indicate da D.T. e D.S. , affermavano la sussistenza dei reati di peculato contestati ai capi 12 e 14, escludendo, invece, la rilevanza penale dell’uso dell’autovettura da parte del D.T. per gli spostamenti casa-ufficio.
Quanto agli specifici motivi di appello la Corte:
– escludeva la necessità di riapertura del dibattimento, richiesta ai sensi dell’art. 603, 1 comma cod. proc. pen..
– Escludeva che ricorressero ragioni di inutilizzabilità delle videoriprese effettuate senza autorizzazione della autorità giudiziaria in quanto non vi stata l’intercettazione di comunicazioni bensì la sola ripresa di comportamenti; il luogo dì esecuzione non era una privata dimora né era ad essa assimilabile, trattandosi dell’atrio di un ufficio postale; l’apparecchio di videoripresa era collocato all’esterno; non è applicabile ad una simile ipotesi l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori che offre tutela nei rapporti fra datori di lavoro e dipendenti ma non limita il potere delle forze dell’ordine di disporre indagini.
– Escludeva la rilevanza degli argomenti della difesa in ordine ad essere state altrimenti recuperate le ore di lavoro in ipotesi perse per il citato meccanismo di alterazione degli orari d’ingresso.
– Le imputate C. , O. , R. e M. andavano qualificate quali incaricate di pubblico servizio poiché operavano nell’ambito della struttura incaricata di ispezioni e controlli interni sulla operatività di Poste Italiane. Parimenti il D.T. era certamente un incaricato di pubblico servizio perché la sua attività era strategica per garantire la funzionalità del servizio in caso di guasti dei sistemi informatici delle singole filiali.
– Non ricorreva la speciale tenuità del danno dovendo essere lo stesso valutato in relazione a tutti gli episodi tenendo, peraltro, anche conto della ripetitività della condotta.
C.A. , D.T.L. , D.S.M. , O.A. , R.G.G. hanno proposto ricorso avverso tale sentenza:
C. e O. con unico ricorso a firma del proprio difensore deducono:
Con primo motivo la violazione di legge in relazione agli articoli 266 e ss. Cod. proc. pen. rito in quanto le videoriprese erano state “effettuate in luogo privato ed in assenza di autorizzazione del giudice”. L’area ripresa, infatti, era luogo certamente privato, poco rilevando che le telecamere fossero installate all’esterno, richiamando tal fine la giurisprudenza che ha affermato l’illegittimità delle videoriprese effettuate in un locale pubblico senza autorizzazione.
Con secondo motivo deducono il vizio di motivazione; ripercorso il contenuto delle prove acquisite in sede dibattimentale, osservano come la motivazione sia carente nell’attribuire loro la responsabilità per i fatti contestati.
Con terzo motivo deducono la carenza di motivazione in relazione all’art. 640 cod. pen. per assenza di adeguata motivazione sulla offensività della condotta. Richiamate le regole in tema di offensività del reato, osservano che, perché nel caso di specie ricorra il reato di truffa, è necessario dimostrare che i periodi di assenza dal lavoro comportino conseguenze economicamente apprezzabili. Ma da tali assenze non sono affatto conseguite tali conseguenze, come dimostra la stessa circostanza che l’indagine non è partita da un esposto dell’ente Poste spa, il quale non si è neanche costituito parte civile, ma dalla denunzia di un altro dipendente, motivata da ragioni di carattere personale. Il danno che sarebbe stato in concreto provocato dai ricorrenti ammonterebbe per Cuna a circa Euro 55,00 e per l’altra a circa Euro 25,00.
Con quarto motivo deducono la violazione di legge ed il vizio di motivazione per l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 9 cod. pen. in quanto la struttura di “Internal Auditing” nell’ambito della spa Poste Italiane non è qualificabile quale ente pubblico in sé né partecipa ad alcuna delle attività che integrano lo svolgimento di una pubblica funzione.
Con quinto motivo deducono la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione all’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 61 numero 11 cod. pen.. Deducono di aver già argomentato nei motivi di appello, senza che vi sia stata adeguata motivazione, sulla non configurabilità di un rapporto fiduciario che giustificasse la contestazione di “abuso di relazioni di ufficio”. Il sistema del cartellino marcatempo per controllare le presenze non comporta alcun affidamento nella spontanea condotta leale del dipendente. Al riguardo, quindi, è erronea sia l’affermazione in diritto che, comunque, inadeguata la motivazione che non risponde allo specifico motivo di appello.
Con sesto motivo deducono violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 640 cod. pen. in quanto, escluse le aggravanti di cui all’articolo 61 cod. pen. nn. 9 ed 11, il reato di truffa non aggravato non è procedibile se non a querela della persona offesa che, nel caso di specie, non risulta presentata.
Con settimo motivo deducono la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla applicazione di entrambe le aggravanti in questione laddove fra le stesse vi è un rapporto di specialità che, in caso di concorso apparente, impone la applicazione della sola aggravante di cui all’articolo 61 n. 9.
Con l’ottavo motivo deducono la violazione di cui all’art. 606 lett. D) cod. proc. pen. per mancata assunzione di una prova decisiva laddove la difesa chiedeva di dimostrare, mediante rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, che le ricorrenti erano sempre state “impiegate modello” nonché chiedeva di dimostrare l’effettuazione di ore di lavoro straordinario non pagate per le quali chiedeva rilevarsi la avvenuta compensazione con il presunto danno.
Con il nono motivo deduce la violazione di legge in relazione al diniego della attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen. atteso che il danno provocato è indubbiamente di minima entità.
R. propone ricorso a firma del proprio difensore.
Con primo motivo deduce la violazione legge in riferimento all’art. 191 cod. proc. pen. commi 1 e 2. Rileva che le riprese video sono state effettuate in un luogo privato non essendo gli uffici “Internal auditing” ufficio pubblico o aperto al pubblico, potendovi accedere solo i dipendenti ed essendo anche l’atrio parte integrante di tale ufficio privato.
Con secondo motivo deduce il vizio di motivazione in ordine al reato di truffa non essendovi stata adeguata valutazione delle risultanze probatorie per affermare la sussistenza dell’elemento soggettivo quanto alla consapevolezza di realizzare un ingiusto profitto. Le prove dimostravano l’accesso della ricorrente nel sistema informatico in fasce orarie tali da far venir meno l’ipotesi di assenza ingiustificata superiore a pochi minuti.
Con terzo motivo deduce il vizio di motivazione quanto alla ritenuta circostanza di cui all’articolo 61 n.9 cod. pen. poiché la ricorrente partecipa ad una attività interna dell’ente non finalizzata alla garanzia di effettività del servizio postale ma alla valutazione dei processi di controllo, di gestione dei rischi e di “corporate governante”.
Con quarto motivo deduce il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza della aggravante di cui all’articolo 61 n. 11 cod. pen. sia perché esclusa in ragione del rapporto di specialità in caso di sussistenza della aggravante di cui al precedente n. 9 e sia perché, nel caso specifico, non è possibile individuare un profilo di abuso della fiducia.
Con quinto motivo deduce il vizio di motivazione per essere stata ritenuta la truffa consumata e non il mero tentativo di truffa: non essendovi stato conseguimento del profitto del reato, lo stesso non può ritenersi consumato.
D.T. propone ricorso a mezzo del proprio difensore:
con primo motivo deduce il vizio di motivazione quanto alla omessa risposta alle doglianze difensive espresse in sede di motivi di appello avendo la Corte sostanzialmente confermato la decisione di primo grado senza ulteriori argomentazioni.
Con secondo motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla ritenuta qualifica di incaricato di pubblico servizio del ricorrente.
Rammentato che l’ente Poste è oggi esercente un’attività pubblicistica con esclusivo riferimento ai servizi postali ed alla raccolta del risparmio, osserva come sia indubbio che il ricorrente svolga soltanto attività di tecnico informatico, mansioni di natura meramente materiale; in alcun modo sono coinvolte le attività della società che rientrano nell’ambito della pubblica funzione.
Con terzo motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione per essere stata affermata la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato e la offensività della condotta pur in assenza di alcuna concreta lesione della attività dell’ente e di apprezzabile danno economico.
Con quarto motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico del reato.
D.S. propone ricorso a firma del proprio difensore con contenuto sostanzialmente simile a quello del coniuge D.T. osservando, quale ragione di sicura esclusione dell’ipotesi di peculato, che l’uso da parte sua della autovettura assegnata al coniuge era comunque avvenuto in una singola occasione ed era finalizzato a raggiungere il posto di lavoro presso un ufficio della medesima spa Poste della quale era dipendente.

Considerato in diritto

Tutti i ricorsi sono infondati.
Ricorso C. / O. e motivi corrispondenti del ricorso R. :
il primo motivo può essere trattato unitamente al primo motivo del ricorso di R. , che pone simili questioni in ordine alla utilizzabilità quale prova delle videoriprese.
Gli argomenti posti dai ricorsi per giungere ad affermare l’inutilizzabilità sono:
– Le videoriprese di comportamenti non comunicativi sono vietate nell’ambito del domicilio.
– Il luogo ove era installato l’orologio marcatempo era un luogo privato essendo posto in un edificio privato, non rilevando che la telecamera fosse installata all’esterno e che l’area ripresa fosse l’atrio dell’ufficio postale. Il carattere di luogo “privato” ricorre ancorché si tratti di un locale aperto al pubblico.
– Inoltre, l’ufficio di “Internal Auditing”, di Poste Italiane S.p.A. di (OMISSIS) non è neanche un ufficio aperto al pubblico essendone consentito l’accesso solo ai dipendenti.
– La conseguenza, per le ricorrenti, è che gli ambiti in cui sono state effettuate le riprese “andavano ritenuti quali luoghi di privata dimora, in quanto luoghi utilizzati per lo svolgimento di manifestazione della vita privata (come l’attività professionale) di chi lo occupava, anche in ragione della durata del rapporto tra il luogo e persona che vi operava”.
– E, ancora, nel caso di specie è certamente operante il divieto dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, ovvero il divieto assoluto di controllo a distanza dei lavoratori, divieto che si pone nei confronti di qualsiasi soggetto e non soltanto del datore di lavoro.
A tali argomenti i giudici di merito avevano già risposto che:
– le operazioni di registrazioni video dell’area ove era posto l’orologio marcatempo sia per individuare chi utilizzasse più tessere magnetiche sia per identificare gli impiegati che entravano per poter poi determinare, per esclusione, chi fossero i soggetti la cui presenza era stata falsamente registrata da altri impiegati compiacenti, non rappresentavano una intercettazione di comunicazioni e rientravano invece nell’ambito delle prove atipiche di cui all’articolo 189 cod. proc. pen..
Osserva quindi questa Corte che l’affermazione del trovarsi dinanzi ad una tipologia di prova che non rientra nella disciplina di cui all’art. 266 e ss cod. proc. pen. è certamente corretta:
– non si tratta di intercettazioni di comunicazioni, neanche sotto forma di “comportamenti comunicativi”, perché l’obiettivo del controllo era da un lato la condotta di una singola persona di utilizzazione di più badge e dall’altro il mancato ingresso di altri impiegati. Quindi, non dovevano essere applicate le disposizioni degli artt. 266 e ss. cod. proc. pen. che riguardano la captazione di comunicazioni e lo scambio di informazioni per via informatica. Su tale punto non vi è alcuna deduzione contraria da parte dei ricorrenti ma tale precisazione è necessaria perché, nella intestazione del primo motivo del ricorso C. e O. , viene invocata la violazione di legge con riferimento agli articoli 266 e ss cod. proc. pen. ma nella successiva esposizione degli argomenti, invece, non vi è alcun riferimento alla normativa sulle intercettazioni.
– le videoriprese hanno rappresentato un’attività di indagine della polizia giudiziaria, per cui non si è in presenza di “documenti” ex art. 234 cod. proc. pen. in quanto i “documenti” presuppongono la formazione al di fuori del procedimento.
Così chiarito l’ambito in cui si discute delle prove in questione, i ricorsi di C. , O. e R. , in modo sostanzialmente alternativo, prospettano due ragioni per la inutilizzabilità delle riprese video. Da un lato si sostiene che si sia trattato di attività svolta in un’area che costituisce “domicilio”, rientrandosi così nella ipotesi di assoluto divieto di videoriprese di comportamenti non comunicativi – quindi si tratterebbe di una prova inammissibile (principio conseguente a quanto affermato nella sentenza Corte Costituzionale n. 235 del 2002) – e dall’altro, trattandosi di attività svolta in un luogo “privato”, vi sarebbe una esigenze di tutela della riservatezza del singolo che impone comunque il provvedimento dell’Autorità Giudiziaria atteso il rango costituzionale del diritto alla riservatezza (anche in questo caso si tratta di una chiara conseguenza della medesima sentenza della Corte Costituzionale).
La questione è certamente infondata sotto entrambi i profili proposti dalle ricorrenti.
Va premesso che effettivamente non è corretto l’argomento della Corte di Appello secondo cui ciò che rileva è il luogo in cui era installata la telecamera (nel caso di specie era installata in strada), in quanto l’intrusione nella sfera privata, sia che avvenga nel domicilio vero e proprio, sia che avvenga in un più limitato contesto in cui sia comunque tutelata la riservatezza, va valutata con riferimento al luogo in cui viene tenuto il comportamento oggetto di captazione video e non al luogo in cui è posto lo strumento che consente la visione. Si tratta di una regola sostanzialmente ovvia, comunque tale errore risulta, nel contesto generale, privo di conseguenze, come da argomenti che seguono.
Passando quindi oltre, si rileva innanzitutto che è indiscutibile che nel caso di specie non si sia affatto in presenza di un “domicilio”. Difatti il richiamo generico che le ricorrenti fanno alla giurisprudenza che ha affermato come anche l’”ufficio” possa rappresentare un “domicilio” ai sensi dell’articolo 14 Cost. e delle varie norme dell’ordinamento penale, non è pertinente al caso in esame:
secondo tale giurisprudenza di legittimità, l’”ufficio” tutelato quale domicilio è la sede di lavoro propria del singolo soggetto in cui il singolo soggetto abbia l’autonomo diritto di permanere e precludere l’ingresso a terzi; ovvero, sì tratta dell’ufficio “privato” di uno o più lavoratori determinati in cui non è consentito l’ingresso indiscriminato.
I difensori, invece, vorrebbero attribuire la caratteristica di domicilio al complesso del luogo adibito ad uffici non a contatto con il pubblico, ma l’atrio di un ufficio così come tutte le sue parti comuni e le stanze “collettive” (uffici open space) non sono affatto la estensione di un domicilio privato, in modo non dissimile dalle parti comuni di un condominio di edificio, non essendovi affatto la possibilità per singoli soggetti di fruirne con una pienezza corrispondente a quella di fruizione del domicilio.
Quindi sicuramente non si verte nella ben diversa ipotesi di videoriprese di comportamenti non comunicativi all’interno del domicilio privato, per la quale opera il già citato divieto assoluto che la rende prova del tutto inammissibile.
Ma non ricorre neanche la diversa situazione di “… luoghi che pur non costituendo un domicilio vengono usati per attività che si vogliono mantenere riservate…”. Proprio la giurisprudenza richiamata dai ricorrenti (Sez. U, n. 26795 del 28/03/2006 – dep. 28/07/2006, Prisco) pone in modo chiaro il discrimine fra i casi di riprese video di comportamenti per i quali può procedere la polizia giudiziaria senza necessità di autorizzazione e i casi in cui, invece, è necessaria la autorizzazione della autorità giudiziaria. Non è un discrimine che consegua all’essere il luogo delle riprese pubblico o privato, accessibile ad un pubblico indiscriminato o solo a determinati soggetti, bensì la diversa regolamentazione dipende dall’essere il dato luogo destinato, nel dato momento ed alle date condizioni, a garantire la riservatezza della persona.
La Corte, difatti, nel confermare la possibilità di riprese video in qualsiasi ambiente che non sia qualificabile quale domicilio, chiariva che è comunque possibile che in determinati luoghi (caso tipico una toeletta di un locale di uso non esclusivo, poco importa se al servizio di un locale pubblico o ufficio od altro), proprio per caratteristiche e funzione degli stessi, il singolo goda di un particolare diritto alla riservatezza.
Quindi la necessità di una particolare tutela non consegue al carattere del luogo – pubblico, privato, aperto o meno al pubblico generale – ma alle sue specifiche caratteristiche rispetto alla modalità di fruizione da parte del singolo; come detto, non è una condizione che ricorra di per sé in un pubblico esercizio ma ricorre in quelle parti di esso (appunto, le toelette comuni o i ed “privé” citati nella sentenza delle Sezioni Unite) in cui il soggetto ha facoltà solo temporanea, durante la sua permanenza nel dato luogo, di escludere la presenza di altri per riconoscimento, appunto, di un suo diritto alla riservatezza. Oltre ai casi predetti si può citare, ad esempio, facendo riferimento a luoghi di lavoro, l’ipotesi dell’ufficio open space nel quale sono ricavate singole aree di lavoro con parziali separazioni finalizzate a garantire un livello minimo di riservatezza.
Tutto questo, evidentemente, non ricorre nel caso di specie in cui i ricorrenti tentano di riportare il concetto di ambito di tutela della riservatezza al complesso dei locali adibiti ad uffici non aperti al pubblico di Poste spa.
Ma, così come un tale spazio non è certamente domicilio, non è neanche di per sé un luogo nel quale venga esercitata e tutelata la riservatezza dell’individuo; affermazione, questa, valida ancor di più in riferimento all’area di ingresso dove era posto l’orologio marcatempo.
Non vi era, quindi, alcun limite alla effettuazione di videoriprese sotto il profilo delle caratteristiche del luogo oggetto di riprese, potendo operare di iniziativa la p.g. senza necessità di provvedimento della autorità giudiziaria.
Tali riprese rappresentano, per le ragioni sopra citate, una prova atipica e non un “documento”.
Del tutto infondato è anche l’ulteriore argomento difensivo fondato sulla disciplina di cui all’articolo 4 Statuto dei Lavoratori e all’art. 114 Dlgs 196/2003.
Si tratta, difatti, di una disposizione mirata e limitata al divieto di controllo della attività lavorativa in quanto tale ovvero al divieto di controllo della corretta esecuzione della ordinaria prestazione del lavoratore subordinato; ma tale stessa disposizione non impedisce, invece, i controlli destinati alla difesa dell’impresa rispetto a specifiche condotte illecite del lavoratore o, comunque, a tutela del patrimonio aziendale (la giurisprudenza civile in materia è del tutto pacifica, tra le numerose pronunzie si veda Sez. L, Sentenza n. 2722 del 23/02/2012, Rv. 621115). Perciò si afferma comunemente nella giurisprudenza penale di questa Corte la piena utilizzabilità ai fini della prova di reati anche delle videoregistrazioni effettuate direttamente dal datore di lavoro, destinatario del citato divieto, laddove agisca non per il controllo della prestazione lavorativa ma per specifici casi di tutela dell’azienda rispetto a specifici illeciti.
Perciò, che dalla citata disposizione dello Statuto dei Lavoratori discenda un divieto probatorio che riguardi la polizia giudiziaria, è affermazione totalmente erronea sia perché il divieto, coerentemente con la sua funzione, è testualmente riferito al datore di lavoro e sia perché il divieto riguarda solo il controllo dell’esecuzione dell’ordinaria attività lavorativa.
Superate, quindi, le obiezioni alla ammissibilità ed utilizzabilità delle videoriprese i motivi in questione vanno tutti dichiarati infondati.
Il secondo motivo è manifestamente infondato in quanto propone questioni di merito non deducendo vizi della motivazione rilevanti in questa sede ma chiedendo esplicitamente una nuova valutazione dei medesimi elementi probatori da parte di questa Corte, attività che esula dai suoi poteri.
Il terzo motivo va considerato sotto il profilo dell’essersi in presenza di un danno economico irrilevante e tale da escludere una concreta offensività del reato.
La difesa ha innanzitutto indicato quale dato da valutare al fine di giungere a tale conclusione la condotta della persona offesa ente Poste che, sostiene, non avrebbe manifestato alcuna doglianza quanto al danno subito; indice, si afferma, della inconsistenza del danno. Ma, al di là della scarsa significatività della sola circostanza che la persona offesa non si sia costituita quale parte civile, la stessa difesa ha depositato della documentazione che dimostra esattamente il contrario di quanto sostiene: a dimostrazione della percezione del danno, l’ente Poste spa ha licenziato le ricorrenti per grave inadempimento e la sentenza del Giudice del Lavoro depositata dalla difesa riteneva illegittimo tale licenziamento solo in ragione del profilo formale del ritardo di contestazione (il lasso di tempo tra conoscenza della condotta e inizio del procedimento disciplinare).
Per quanto la ragione del licenziamento sia ben più probabilmente la perdita di fiducia nel regolare futuro adempimento della prestazione lavorativa dimostrato dalla abitualità della frode sugli orari di ingresso piuttosto che l’entità della perdita economica per i casi accertati, il dato della certezza della percezione da parte dell’Ente Poste di avere subito un danno contribuisce a ritenere la concreta offensività del reato.
Ma, anche ragionando sul semplice danno economico provocato, non si può affermare che si sia nell’ambito della assoluta inoffensività della condotta intesa come mancata realizzazione di alcun effettivo danno patrimoniale.
Innanzitutto ci si trova davanti ad un profitto che non può ritenersi del tutto inconsistente e che, tuttalpiù, potrebbe rientrare nella nozione della legislazione penale della “tenuità”.
Si rammentano alcune particolari ipotesi normative: vi è l’ipotesi della “tenuità del fatto” che vale ad escludere la procedibilità (solo) per i reati commessi da minorenni e per i reati di competenza del giudice di pace – si tratta dei casi in cui, appunto, vi è il danno (non solo economico) o comunque l’offesa del bene giuridico, ma di minimo rilievo; evidentemente non è una causa generale di esclusione della tipicità del fatto ma si applica solo ai casi citati. Vi è, poi, la generale previsione della “speciale tenuità” del danno patrimoniale o del lucro di cui all’articolo 62 n. 4 cod. pen.: ed è proprio quest’ultima disposizione che dimostra come, attesa la specifica previsione di una attenuazione ma non dell’esclusione della pena, l’ordinamento penale non riconosca affatto alla esiguità del danno patrimoniale la capacità di escludere il carattere offensivo della condotta e, quindi, la non configurabilità in concreto del reato. Vi è, ancora, la simile ipotesi attenuata di ricettazione di cui all’art. 648 2 comma cod. pen. (“se il fatto è di particolare tenuità”).
“Tenuità”, inoltre, non è un concetto strettamente limitato al valore economico; si ritrova, tra l’altro, nell’art. 311 cod. pen. laddove la “particolare tenuità del danno o del pericolo” che rende il fatto di lieve entità (comunque punibile) è riferita a reati contro la personalità dello Stato, quindi certamente non si tratta di danno “economico”. Ciò introduce l’ulteriore argomento che il danno può essere definito “tenue” solo a fronte della complessiva minima capacità della condotta di danneggiare, in modo oggettivo, la sfera globale di interessi della persona offesa danneggiata, appunto, dal reato.
Si è osservato, difatti, che laddove il danno debba essere considerato con esclusivo riferimento al valore dell’oggetto, la legge ha utilizzato una diversa espressione come nel caso del furto che è punibile a querela dell’offeso se il fatto è commesso su “cose di tenue valore” (art. 626 c.p., n. 2 – peraltro si noti che anche in questo caso la punibilità non è esclusa, pur se il trattamento penale è più favorevole).
Ed invece, con riferimento alla determinazione del danno patrimoniale ai sensi dell’art. 62 n. 4 cod. pen., si è affermato come tale danno, dovendo essere considerato dal punto di vista delle conseguenze sofferte dalla persona offesa, vada comunque determinato in termini complessivi in quanto il valore della cosa non sempre esaurisce la gravità del danno: La sussistenza della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità in riferimento ai delitti contro il patrimonio non ha riguardo soltanto al valore della cosa oggetto materiale del reato ma anche alla condotta dell’imputato ed alle relative conseguenze nella sua globalità. (Sez. 2, n. 21014 del 13/05/2010 – dep. 04/06/2010, Gebbia, Rv. 247122- nello stesso senso Sez. 2, Sentenza n. 12456 del 04/03/2008 Ud. (dep. 20/03/2008) Rv. 239749 2, Sentenza n. 41578 del 22/11/2006 Ud. (dep. 19/12/2006) Rv. 235386). Pur se i casi ora citati riguardano reati (rapina ed estorsione) che strutturalmente offendono anche la persona, la situazione è simile anche nei reati che offendono solo il patrimonio in quanto il danno patrimoniale deve essere valutato, comunque, secondo la prospettiva soggettiva della persona offesa (ovviamente “oggettivizzata”, ovvero considerando quale sia la percezione del danno da parte del soggetto medio alle date condizioni).
Le regole ora richiamate in termini generali rilevano in due modi nel caso di specie per escludere che dalla entità del danno accertato possano trarsi le conseguenze indicate dalla difesa.
Innanzitutto vi è stato un danno economico diretto che, per quanto minimo, non è del tutto inconsistente e quindi non può fare ritenere la condotta del tutto inoffensiva. La scarsità del danno potrebbe essere valutata al fine delle varie conseguenze della “tenuità” ma non per escludere l’integrazione del fatto tipico per assenza di “offensività”.
Inoltre, dal contesto complessivo accertato dai giudici di merito, risulta corretto il giudizio di esclusione che il danno sia stato irrilevante o comunque di minima consistenza. Il fatto commesso realizza oggettivamente una seria lesione del rapporto fiduciario tra le parti; per quanto il profitto della singola occasione (il singolo ingresso giornaliero fraudolentemente ritardato) sia minimo, è evidente come il vantaggio complessivo ed il danno complessivo siano conseguenza di una reiterazione di condotte come è risultato evidente nel dato periodo di indagine.
Inoltre tale condotta è apparsa ragionevolmente corrispondere a un programma di più ampio periodo, necessario del resto per realizzare una concreta utilità della condotta.
In conclusione, va escluso che nel caso di specie il fatto non abbia le caratteristiche di offensività necessarie per fare ritenere integrato il reato.
Il quarto motivo del ricorso C. – O. ed il terzo motivo del ricorso R. , da valutarsi congiuntamente perché di analogo contenuto, sono infondati.
In entrambi i ricorsi si individuano correttamente le regole in tema di individuazione del soggetto che sia incaricato di pubblico servizio, dovendosi fare riferimento alla natura dell’attività svolta da parte dell’ente di appartenenza e, poi, valutare se il singolo dipendente operi nell’ambito di tali attività di pubblico servizio e non sia, invece, addetto a compiti che siano meramente materiali o, comunque, non connessi alla attività di pubblico servizio.
Ma proprio tali regole richiamate dalle difesa sono state pienamente rispettate dai giudici di merito che, in base a quanto accertato in fatto, hanno ritenuto che le ricorrenti C. , O. e R. “facevano parte della struttura di controllo ed ispezione in funzione all’interno di Poste Italiane s.p.a., denominata Direzione Internal Auditing. Si tratta di una struttura incaricata di effettuare ispezioni e controlli interni sui dipendenti e sulle operatività della Poste Italiane s.p.a., al fine di mantenere monitorato il servizio, gestire i rischi, mantenere i livelli qualitativi prefissati e garantire l’operatività in tutti i settori (così anche il teste Ma. , ud. 02.07.2009). Nel manuale di Internal Audit prodotto dalla difesa R. , si legge che sebbene si tratti di una struttura verticistica, ogni membro della divisione è coinvolto nel sistema di gestione e di controllo, tanto che i componenti della struttura sono richiamati a doveri di riservatezza e di correttezza”.
Le ricorrenti, invece, si limitano ad affermare apoditticamente che l’attività del loro ufficio non fosse connessa al pubblico servizio esercitato dall’ente, come se tale circostanza dovesse risultare con immediatezza dallo stesso modo in cui hanno definito la propria attività (“…. la struttura di auditing non svolge alcuna delle suddette funzioni; al contrario si tratta di organismo il cui obiettivo primario è quello di valutare il sistema dei controlli interni e di gestione dei rischi, in relazione al perseguimento delle strategie aziendali…. L’attività di verifica e di controllo, in sostanza, è limitata ad accertare il rispetto delle procedure interne di lavoro da parte degli operatori”. Viene indicato quale organismo esterno autonomo ed indipendente con “… semplici mansioni di auditing, di verifica e monitoraggio delle attività svolte dai dipendenti dell’ente Poste”).
Ma sono proprio gli argomenti difensivi che confermano ulteriormente che si è in presenza di attività strettamente connessa all’esercizio della pubblica funzione da parte dell’ente Poste, non potendo certamente essere relativo ad attività diverse il compito di verifica dei conti e del conformarsi dei singoli uffici postali alle direttive gestionali, come si intende nello stesso documento allegato dalla ricorrente R. per dimostrare quali fossero le proprie mansioni (è il documento con il quale la “audit manager” – dirigente revisore – riferisce che la predetta, quale “team member” – componente del gruppo di lavoro -, ha partecipato ad attività di “audit” e “compliance” – verifica di conformità alle direttive aziendali etc. di vari uffici postali).
È quindi assolutamente corretta, rispetto alle premesse in fatto, la valutazione di merito secondo cui la attività dello specifico ufficio è strettamente inerente alla gestione del “core business” di Poste spa, costituente esercizio di un pubblico servizio.
Rispetto a tale immediata evidenza non risulta neanche allegato che i compiti svolti da C. od O. rientrassero in mere mansioni d’ordine o prestazioni meramente materiali.
Risulta, perciò, assolutamente corretta la valutazione in diritto dei giudici di merito e adeguata la conseguente motivazione.
Il quinto ed il settimo motivo del ricorso C. – O. ed il quarto motivo del ricorso R. , da valutarsi congiuntamente perché di analogo contenuto, sono infondati.
Le difese sostengono che non ricorre la condizione di abuso di fiducia in ragione del contenuto della decisione di questa Corte Sez. 2, n. 1938 del 17/03/1998 – dep. 09/10/1998, PM in proc. Balloni, Rv. 211663, secondo cui “Posto che la ratio dell’aggravante consiste nella condizione in cui si trova l’agente di poter poi facilmente commettere il reato, a cagione della fiducia che i vari rapporti elencati nell’art. 61 n. 11 cp comportano, ne consegue che, allorquando non sia ravvisabile nella fattispecie concreta tale fiducia, viene meno la possibilità di configurare ed applicare detta aggravante.
Nel caso che ne occupa questo substrato fiduciario – come ha puntualmente evidenziato il Pretore – manca, in quanto la condotta delittuosa si è estrinsecata nella falsificazione delle risultanze dei cartellini segnatempo, di un mezzo, cioè, con il quale il datore di lavoro si assicurava, al di là e al di fuori di un qualsiasi affidamento alla coscienza e lealtà di dipendenti, il controllo del lavoro effettivamente svolto da costoro. Né il possesso di tali cartellini da parte degli imputati lavoratori dipendenti può essere posto a fondamento di quel rapporto fiduciario di cui si è detto, essendo tale possesso l’unico mezzo per realizzare il funzionamento del metodo di controllo scelto dalla datrice di lavoro”.
Si tratta però di un precedente non direttamente riferibile al caso di specie, in quanto il “cartellino segnatempo” cui si fa riferimento in quella decisione risulta essere il più datato “cartoncino” sul quale l’orologio “marcatempo” timbrava l’orario di ingresso e di uscita, al di fuori di qualsiasi attività di individuazione e registrazione dei dati nel sistema informatico.
In quel caso era stata effettuata una falsificazione materiale delle annotazioni sul cartellino, documento probante le presenze.
Diverso, nel caso in esame, il sistema di controllo dell’accesso, per quanto risulta dal provvedimento impugnato. Si è in presenza di un sistema che registra informaticamente il dato dell’ingresso del singolo lavoratore. La prova della presenza non è il “badge” a disposizione del lavoratore (ovvero, questo non è l’equivalente digitale del vecchio tesserino cartaceo destinato a provare le presenze al lavoro) ma la prova è costituite dalle annotazioni nella base dati del sistema.
Nel caso di specie, quindi, il sistema di rilievo della presenza mediante “strisciatura” del badge sostituisce il personale addetto all’ingresso che effettuava l’annotazione dei lavoratori che entravano rilevandone il nome dal documento di identità o in base alla conoscenza diretta.
È invece evidente che, nel sistema utilizzato da Poste spa, il datore di lavoro non ha modo di controllare chi sia la persona in ingresso che utilizza il badge; quindi la funzionalità di tale sistema è fondata sulla fiducia nella condotta in buona fede del prestatore d’opera cui è affidata la predetta scheda, equivalente di un tesserino di riconoscimento. Questa è, peraltro, la esatta ragione per la quale è stato possibile il tipo di frode in questione, estremamente semplice perché unico ostacolo alla ovviamente prospettabile utilizzazione del “badge” da parte di altre persone è proprio la buona fede del singolo lavoratore.
Quindi, con riferimento al caso qui in esame, non può che confermarsi la vantazione dei giudici di merito sull’abuso di fiducia da parte del prestatore d’opera; per quanto detto la difformità della decisione rispetto al precedente citato è solo apparente.
Infine, si rammenta che la configurabilità delle aggravanti esclude la punibilità a querela e, essendo sufficiente a tal fine che ne ricorra almeno una, tenuto altresì conto che sono state ritenute minusvalenti nel giudizio di comparazione con le attenuanti, è irrilevante affermare se le stesse concorrano o Cuna sia esclusa dall’altra in quanto norma speciale.
Il sesto motivo del ricorso, relativo alla mancata presentazione di querela, è superato dalle precedenti vantazioni che portano ad affermare che la truffa contestata è procedibile di ufficio.
L’ottavo motivo è manifestamente infondato.
È innanzitutto evidente come le prove richieste (finalizzate a dimostrare che le ricorrenti erano sempre state “impiegate modello” e che avevano effettuato ore di lavoro straordinario non pagate, compensate con il presunto danno) non rientrino nell’ambito della prova decisiva che l’art. 606 lett. D) cod. proc. pen. limita ai casi di cui all’art. 495 2 comma cod. proc. pen. (ovvero il caso delle “prove a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico”) in quanto non si tratta di fatti oggetto delle prove a carico.
Inoltre, anche a volere allargare il tema come posto nel ricorso ad un più generale vizio di motivazione ai sensi della lett. e dell’art. 606 cod. proc. pen. per la mancata valutazione di circostanze rilevanti per una corretta ricostruzione della vicenda, non risulta affatto né che le circostanze da provare rendessero altrimenti impossibile la decisione né che, comunque, fossero da valutare per una corretta decisione. Su tali profili, peraltro, non vi è alcuno sviluppo dei motivi.
È, infine, infondato il nono motivo, con il quale si contesta il diniego della attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen. che, secondo le ricorrenti, sarebbe integrata per essere il danno provocato di minima entità.
La Corte di Appello ha efficacemente e sinteticamente risposto che “Ai fini dell’applicabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen. la speciale tenuità del danno deve essere valutata in relazione a tutti gli episodi e non soltanto a tal uni di essi (Cass. sez. VI, 17.3.1982 n. 3969, Truglio). In tale ottica, la ripetitività della condotta non consente di configurare un danno di lieve entità e pertanto non può essere concessa l’attenuante”.
Oltre questa ragione per escludere la applicabilità dell’attenuante, rispetto alla quale le ricorrenti deducono genericamente l’esistenza di giurisprudenza di altro segno, senza alcun esposizione di ragioni a sostegno della loro affermazione, hanno rilievo anche gli argomenti svolti sopra in tema di offensività, nel corso dei quali si è rammentato come l’attenuante in questione non dipenda esclusivamente dallo scarso valore venale del danno economico, ma anche dalla complessiva gravità del fatto, restando perciò esclusa laddove il danno complessivo sia costituito non solo dal minimo valore della cosa in sé, ma anche da altri interessi lesi dalla condotta delittuosa.
Il ricorso R. è infondato; la risposta ai motivi primo, terzo e quarto è stata già data.
Quanto al secondo, con il quale si afferma la assenza di (prova dell’) elemento soggettivo, si tratta di affermazione del tutto sganciata dai fatti accertati; l’evidente finalità della condotta della R. era l’unico risultato plausibile, ovvero i vantaggi connessi al risultare presente al lavoro pur non essendolo. Né la parte offre ragioni alternative della propria condotta, tali da contrastare l’immediata evidenza.
Con quinto motivo la ricorrente deduce il vizio di motivazione della sentenza che ha ritenuto sussistere la truffa consumata e non il mero tentativo di truffa; si afferma che, non essendovi stato conseguimento del profitto del reato, lo stesso non può ritenersi consumato. Si tratta di questione palesemente infondata, tenuto conto dell’accertamento in fatto che emerge dalle sentenze di merito. Non è, difatti, dubbio che vi sia stata una registrazione di presenza delle lavorataci nonostante ciò non corrispondesse a verità con conseguente assunzione da parte dell’ente datore di lavoro dell’obbligo retributivo anche per la fase della assenza fraudolenta. Poco rileva che, nel caso concreto, il definitivo incasso delle somme sia stato (eventualmente) impedito dal successivo intervento della autorità giudiziaria che ha fatto conoscere la frode in corso.
Ricorso D.T. .
È innanzitutto infondato il primo motivo che lamenta in via del tutto generica la assenza di puntuali risposte ai propri motivi di appello, sostenendo che la sentenza di secondo grado avrebbe semplicemente ribadito in modo acritico quanto affermato dai primi giudici nonostante le contestazioni della difesa. Ma il complesso delle argomentazioni della Corte di Appello ed il rinvio da essa fatto alla sentenza di primo grado per quanto non specificatamene confutato risultano motivazione adeguata.
Del resto, D.T. non ha neanche detto su quali punti non avrebbe avuto risposta e, comunque, la Corte doveva affrontare soltanto le limitate questioni che i motivi di appello ponevano, sostanzialmente ripetitive delle proprie ragioni già proposte al Tribunale e da questo ritenute infondate con motivazione specifica e non seriamente contrastata dal ricorso.
È infondato anche il secondo motivo, ovvero l’argomento relativo all’essere il D.T. soggetto addetto a mere attività materiali non collegate alla attività di esercizio di una pubblica funzione da parte dell’ente. Tale argomento è superato proprio da quanto riferito dalla parte per giustificare l’affidamento della autovettura di Poste spa, ovvero l’essere egli addetto a mansioni di gestione, in autonomia, dei sistemi informatici di un ampio numero di uffici postali. È indiscutibile che, alla stregua di quanto emerge dalle sentenze di merito e dai motivi di ricorso, il D.T. avesse il ruolo centrale e strategico di garantire la continuità dei servizi delle singole filiali, che è certamente cosa ben diversa dall’essere un semplice tecnico addetto alla esecuzione di singole operazioni materiali.
Il ruolo svolto, quindi, dimostra con certezza la sussistenza della qualifica di incaricato di pubblico servizio, con le conseguenze in ordine al reato configurabile.
Il terzo motivo pone il tema della scarsità del danno e della pretesa non offensività della condotta che trovano adeguata risposta nei medesimi argomenti sopra svolti in ordine alla sussistenza, alle date condizioni, di offensività della condotta di frode ai sistemi di rilevamento degli ingressi.
Il quarto motivo è manifestamente infondato. È palese che la motivazione sia adeguata a dimostrare l’elemento psicologico, del resto alquanto evidente per chi ha consapevolmente utilizzato privatamente la vettura affidatagli per esclusivo uso di istituto. Né, del resto, il ricorrente indica quale poteva essere la lettura alternativa dell’elemento psicologico connesso al suo uso privato dell’autovettura di servizio.
Quanto, infine, al ricorso D.S. , lo stesso è infondato innanzitutto per gli stessi argomenti svolti per il ricorso del coniuge quanto alla sussistenza del fatto; e, poi, del tutto inconsistente l’argomento relativo all’essere il fatto irrilevante per essere la D.S. dipendente dell’Ente Poste, non essendo la stessa autorizzata per ciò solo all’uso dell’autovettura assegnata ad altro dipendente per le attività di istituto; del resto ciò è solo casuale avendo correttamente ritenuto i giudici di merito che effettiva ragione della acquisita disponibilità dell’autovettura non era il rapporto di lavoro, bensì il rapporto di coniugio con chi poteva disporne materialmente.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.

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