L’esimente della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale (art. 4 del D. Lgt n. 288 del 1944) è integrata ogni qual volta la condotta dello stesso pubblico ufficiale, per lo sviamento dell’esercizio di autorità rispetto allo scopo per cui la stessa è conferita o per le modalità di attuazione, risulta oggettivamente illegittima, non essendo di contro necessario che il soggetto abbia consapevolezza dell’illiceità della propria condotta diretta a commettere un arbitrio in danno del privato
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
SENTENZA 12 dicembre 2016, n. 52558
Ritenuto in fatto e considerato in diritto
Il difensore di fiducia di G.M. ricorre per cassazione avverso la sentenza in data 11.02.2015, con cui la Corte d’appello di Milano ha confermato la condanna alla pena di mesi quattro di reclusione, irrogata alla sua assistita dal Tribunale di Vigevano in relazione al reato di cui all’art. 337 cod. pen., commesso dalla prevenuta (con le modalità violente descritte nel capo d’accusa) nei confronti dei Carabinieri sopraggiunti presso il locale notturno ‘Il Gringo’, all’esterno del quale la M. si trovava, ‘in evidente stato di alterazione psicofisica’.
Deduce in proposito il legale ricorrente – ribadendo le censure già portate all’attenzione del giudice d’appello, ma dallo stesso asseritamente eluse – che, essendo stata posta in essere la condotta incriminata all’interno dell’abitacolo dell’auto di servizio su cui la donna era stata fatta salire e, quindi, nei locali dell’ospedale, ove era stata condotta dai militari, la condotta medesima doveva reputarsi penalmente irrilevante, essendosi trattato di una legittima reazione all’operato dei Carabinieri che, pur in perfetta buona fede, avevano agito al di fuori delle loro mansioni, atteso che lo stesso brig. G., componente della pattuglia intervenuta, nel corso della sua deposizione testimoniale aveva dato atto che ‘la ragazza stava bene … era solo agitata … l’abbiamo portata in auto per la sua sicurezza’.
Il proposto ricorso va senz’altro dichiarato inammissibile, con ogni conseguente statuizione, come da dispositivo.
La presente vicenda ripropone, di fatto, il tema dell’arbitrarietà degli atti commessi dal pubblico ufficiale, in funzione dell’applicazione della peculiare causa di non punibilità codificata all’art. 393 bis cod. pen. (con cui è stata reintrodotta nell’ordinamento la disposizione già prevista dall’art. 4 d. lgs. lgt. 24.09.1944 n. 288).
Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, ‘Presupposto necessario per l’applicazione della causa di giustificazione prevista dall’art. 4 del D.Lgt. 14 settembre 1944, n. 288, è un’attività ingiustamente persecutoria del pubblico ufficiale, il cui comportamento fuoriesca del tutto dalle ordinarie modalità di esplicazione dell’azione di controllo e prevenzione demandatagli nei confronti del privato destinatario’ (così, da ultimo, Cass. Sez. 6, sent. n. 16101 del 18.03.2016, Rv. 266535). Con la puntualizzazione ulteriore, secondo l’interpretazione più attenta, che ‘L’esimente della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale (art. 4 del D. Lgt n. 288 del 1944) è integrata ogni qual volta la condotta dello stesso pubblico ufficiale, per lo sviamento dell’esercizio di autorità rispetto allo scopo per cui la stessa è conferita o per le modalità di attuazione, risulta oggettivamente illegittima, non essendo di contro necessario che il soggetto abbia consapevolezza dell’illiceità della propria condotta diretta a commettere un arbitrio in danno del privato’ (cfr. Sez. 6, sent. n. 7928 del 13.01.2012, Rv. 252175).
Tanto premesso in punto di diritto, sul piano della ricostruzione fattuale la sentenza impugnata è chiara nel rappresentare: che i Carabinieri intervennero presso il menzionato locale, a seguito della segnalazione del comportamento molesto posto in essere da una donna, anche a causa dello stato di ubriachezza in cui versava; che i militari, una volta giunti in loco, vi trovarono l’odierna imputata – tale poi identificata – seduta all’esterno del locale ed in preda ad una crisi di pianto, per cui decisero di chiamare il 118; che, prima che l’ambulanza giungesse, la donna si diresse verso la porta d’ingresso del locale, al chiaro scopo di ingaggiare una lite con altri avventori; che, a tal punto, onde evitare che la situazione potesse degenerare, i militari fecero salire la M. sull’auto di servizio, per condurla essi stessi direttamente in ospedale; che durante il tragitto la prevenuta ebbe a sferrare calci nell’abitacolo ed a proferire insulti; che, una volta giunti a destinazione, nel mentre i Carabinieri G. e M. aiutavano la M. a sedere sulla sedia a rotella messa a disposizione dal Pronto Soccorso, la stessa li schiaffeggiò e li colpì con sputi.
Prosegue, quindi, la motivazione del censurato provvedimento nel significare la correttezza del comportamento dei militari, che, intervenuti per porre fine alle molestie arrecate dalla prevenuta, da un lato impedirono che la stessa proseguisse nella propria condotta e, dall’altro, in ragione delle peculiari condizioni in cui versava, alla luce della ‘sua manifesta ubriachezza’ e della ‘crisi di pianto’, ritennero opportunamente di non condurla immediatamente in caserma per l’identificazione formale, bensì in ospedale, perché le fossero innanzi tutto apprestate le opportune cure mediche.
4.1 A fronte di tanto, il ricorso in esame, attraverso la trascrizione di singole frasi estrapolate dalla deposizione del già citato teste G., si propone di accreditare una diversa ricostruzione della vicenda, nel senso della totale gratuità della decisione assunta dai militari, pur in buona fede, di far entrare la M. nell’auto di servizio e di condurla nel più vicino nosocomio, così indebitamente sottoponendola ad una limitazione della sua libertà personale: il che si risolve, in concreto, nella denuncia di un vizio di travisamento della prova, formulata tuttavia in modo non consentito, giacché la riproduzione di selezionati passaggi della deposizione, oggetto della pretesa esegesi fuorviante, non consente, in realtà, di apprezzare in alcun modo la fondatezza o meno del vizio dedotto, per l’effetto non sottraendosi ad un assorbente rilievo di genericità del motivo di cui trattasi.
Logico corollario di quanto precede è la declaratoria d’inammissibilità della proposta impugnazione, cui segue la condanna dell’imputata al pagamento delle spese processuali e della congrua somma indicata in dispositivo, a beneficio della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di 1.500,00 euro alla Cassa delle ammende.
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