SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE V
SENTENZA 4 marzo 2016, n.9186
Ritenuto in fatto
Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di L’Aquila, in parziale riforma della sentenza resa dal Tribunale di L’Aquila appellata da P.M. e da I.E. , concesse a quest’ultimo le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, aveva rideterminato la pena nella misura di quattro anni e sei mesi di reclusione quanto a P.M. e nella misura di anni tre di reclusione quanto a I.E. , confermando nel resto l’impugnata sentenza per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale e bancarotta societaria.
In particolare, al P. è stato addebitato il reato di cui agli artt. 216, comma 1, nn. 1 e 2, 219, comma 1, e comma 2, n.1 e 223 l. fall. (Capo A); quello di cui agli artt. 223 comma 2 n. 1 l. fall., con riferimento all’art. 2621 c.c. (Capo B); il reato ex artt. 216, comma 1, n. 2, 219, comma 1 e comma 2, e 223 l. fall. (Capo D); il reato ex artt. 224 n. 1, con riferimento all’art. 217 n. 4, e 2 l. fall. (Capo E); e allo I. sono stati addebitati quelli di cui agli artt. 216, comma 1, n. 1, 219, comma 1 e 2 n. 1, e 223 l. fall. (Capo C); il reato ex artt. 216, comma 1, n. 2, 219, comma 1 e comma 2, e 223 l. fall. (Capo D); il reato ex artt. 224 n. 1, con riferimento all’art. 217 n. 4, e 2 l. fall. (Capo E).
1.1 Avverso la sentenza ricorrono entrambi gli imputati, affidando le loro impugnative a diversi motivi di doglianza.
1.2 Il ricorso proposto dall’Avv. Antonio Valentini nell’interesse di P.M. deduce un unico motivo.
1.21 Si duole la parte ricorrente dell’erroneità della sentenza impugnata in quanto quest’ultima non aveva adeguatamente considerato la circostanza dell’aver egli ricorrente lasciato la gestione della società fallita da oltre un anno e che per la sola mala gestio, ammesso che ricorresse nel caso di specie, non era egli penalmente imputabile per i diversi fatti di bancarotta fraudolenta; lamenta infine l’erronea valutazione da parte del giudice d’appello della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato in quanto, per la sua integrazione, occorre anche la consapevolezza che il fatto distrattivo sia commesso in danno dei creditori.
1.3 Propone ricorso per cassazione anche l’Avv. Fabrizio Giancarli sempre per conto dell’imputato P. , deducendo violazione di legge processuale.
1.3.1 Evidenzia la parte ricorrente che aveva dapprima eletto domicilio presso il proprio difensore di fiducia e che, con atto ritualmente depositato presso la cancelleria del Tribunale di L’Aquila, aveva revocato in data 6.2.2103 la predetta elezione di domicilio, e ciò dopo la sentenza di condanna resa in primo grado; denunzia così l’invalidità della notificazione del decreto di citazione a giudizio e dell’estratto contumaciale della sentenza di secondo grado, notificazioni erroneamente eseguite presso il predetto domicilio, e cioè presso lo studio dell’Avv. Giancarli, con ciò evidenziando l’esistenza di una nullità assoluta ed insanabile.
1.4 Propone ricorso, per mezzo dei suoi avvocati, anche l’imputato I. , affidando la sua impugnativa a quattro motivi di doglianza.
1.4.1 Con il primo motivo lamenta il ricorrente la mancata assunzione di prove decisive. Osserva che, nonostante il Tribunale avesse ammesso quale prova anche l’esame degli imputati, non aveva proceduto successivamente a tale incombenza processuale e che pertanto anche la motivazione resa dalla Corte distrettuale in risposta al motivo di gravame all’uopo avanzato era errata, giacché la circostanza che gli imputati fossero rimasti contumaci non precludeva la possibilità che gli stessi fossero citati in giudizio per rendere o negare il consenso all’esame dibattimentale; rileva inoltre il ricorrente che tale decisione era vieppiù errata in ragione del fatto che la Corte distrettuale non aveva considerato che l’istanza di esame degli imputati era inoltre propedeutica alla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria giudiziale ai sensi dell’art. 603 c.p.p..
1.4.2 Con il secondo motivo di doglianza la parte ricorrente denunzia il vizio di ‘travisamento degli atti’ e la conseguente mancanza di motivazione. Si duole il ricorrente dell’erroneità nella valutazione della prova testimoniale (teste F. ) là dove la stessa era stata fraintesa dai giudici di merito come dimostrativa del suo ruolo di amministratore di fatto della società fallita; deduce che in tal senso erano state fraintese le testimonianze rese anche dagli altri testi in ordine alla sua riconducibilità alla società fallita quale amministratore di fatto, con la sola esclusione del teste Bizzarri che effettivamente, quale medico sociale, era stato assunto come dipendente della società.
1.4.3 Con il terzo motivo il ricorrente I. denunzia l’erronea qualificazione delle sue condotte come riconducibili alla figura dell’amministratore di fatto. Deduce il ricorrente che gli elementi fattuali – presi in considerazione dalla Corte di merito per ritenere qualificabile la sua figura come quella dell’amministratore di fatto – non erano invece significativi in tal senso, e ciò con particolare riferimento a quanto stabilito nel verbale assembleare del 31 ottobre 2003 (ove si dava atto dell’intervenuto passaggio delle quote sociali dal P. a lui ricorrente), alla sua attività di controllo del bilancio (e di cui si dava atto nel detto verbale assembleare), alla sua identificazione anche all’esterno come Presidente, alla sottoscrizione di un importante contratto di sponsorizzazione della società sportiva, all’incarico conferito all’Avv. Stincardini.
1.4.4 Con il quarto motivo lo I. denunzia l’inutilizzabilità ovvero la nullità della perizia contabile acquisita al fascicolo del dibattimento in quanto tale acquisizione documentale non era stata preceduta dal necessario esame del perito, nonostante quest’ultimo fosse stato ascoltato in sede di incidente probatorio.
Considerato in diritto
Oltre a doversi osservare che il ricorso di P. non sembra rappresentare motivi fondati per quello che si dirà di seguito, si è ritenuto, comunque, necessario rilevare che tra i reati contestati allo stesso P. , e per il quale è intervenuta condanna, vi è anche quello previsto e punito dal combinato disposto degli artt. 223, 2 comma n. 1, l. fall. e 2621 c.c. (cfr. Capi B e D della rubrica), sulla cui possibile parziale abrogazione sopravvenuta è in atto un contrasto giurisprudenziale.
Più in particolare va precisato che nel capo di imputazione vi è, tra le altre, anche la contestazione all’imputato P. della falsa informazione sociale relativa all’intervenuta ricostituzione del, capitale sociale della società fallita per un importo pari ad euro 1.217.675 attraverso il fittizio utilizzo anche delle somme già indicate contabilmente come ‘anticipazione soci’ negli esercizi 2001, 2002 e 2003 per un ammontare complessivo di euro 288.217,2, e ciò attraverso l’artifizio consistito nel far figurare i pagamenti meglio descritti nel capo D2 della rubrica come ‘anticipazione soci’ e non già come risorse finanziarie effettivamente percepite a titolo di pagamento di crediti per contratti di sponsorizzazione e per altre operazioni diversamente effettuate.
2.1 Va aggiunto che nella sentenza qui impugnata si ricostruiscono compiutamente le condotte oggetto di contestazione a titolo di bancarotta societaria, evidenziando che era emersa dalla istruttoria dibattimentale che il P. aveva annotato nel bilancio di esercizio 2003 alla voce ‘costi di produzione’ costi fittizi pari ad euro 513.674. Ma emerge dalla motivazione della sentenza resa dalla Corte di merito anche l’accertamento della natura fraudolenta dell’aumento di capitale sociale della fallita, e ciò attraverso l’utilizzo di somme pervenute da pagamenti di debitori e di somme già falsamente contabilizzate come ‘anticipazione soci’.
2.2 Osserva, cioè, il Collegio che le anomalie riscontrate nella contestata utilizzazione del conto ‘soci c/ anticipazioni temporanee’ e attraverso le quali si è consentito di evitare l’adozione delle necessarie deliberazioni di messa in liquidazione e scioglimento della società debitrice poi fallita involgono, con evidenza, anche la problematica questione della abrogazione o meno, dopo l’ultima novella riformatrice del reato in esame, del cd. falso valutativo: una questione che, comportando, in ipotesi, la eventualità della rilevazione di una causa di esclusione del reato, immediatamente apprezzabile da questa Corte ai sensi dell’art. 129 cpp, così come di una tematica destinata ad emergere comunque in sede di esecuzione della pronuncia di condanna in esame, ai sensi e per gli effetti dell’art. 673 c.p.p., sembra improcrastinabile rassegnare all’esame delle Sezioni unite, in ragione dell’insanabile e perseverante contrasto giurisprudenziale che su di essa si è aperto, tenuto conto altresì dei gravi effetti secondari di una giurisprudenza altalenante sul punto.
In realtà, appare in crisi la stessa definizione della nozione di ‘falso valutativo’, potendo la stessa essere fatta afferire tanto al concetto – estremo – di apprezzamento, in sé, di valore fortemente difforme dalla verità legale, quanto quello ben più ampio, e assommante categorie anche eterogenee solo ‘basate’ su apprezzamenti valutativi, come quelle dell’abuso di criteri di appostazione – che sarebbe il caso in esame- o di rappresentazioni dai fatti materiali basati, appunto,su un processo accertativo di tipo valutativo.
Si è venuto a determinare, invero, un contrasto interpretativo, da parte della giurisprudenza di legittimità, nell’esegesi della norma dettata dall’art. 2621 c.c., così come di recente novellata proprio dalla l. 27 maggio 2015, n. 69.
In estrema sintesi, occorre subito evidenziare che, in ordine alla tematica in esame, il primo approdo interpretativo di questa Corte di legittimità è rappresentato dalla sentenza n. 33774/2015 (meglio conosciuta come sentenza Crespi) la quale aveva ritenuto l’intervenuta abrogazione da parte della novella del falso valutativo o estimativo.
In una secondo pronuncia (Cass. pen. n. 890/2016, ric. Giovagnoli), la Corte ha operato un sostanziale revirement, argomentando che le parole ‘ancorché oggetto di valutazioni’ nulla aggiungessero al concetto di ‘fatto materiale’ e che pertanto la loro soppressione non avessero avuto alcun effetto abrogativo.
Con una terza e recentissima pronuncia (Cass., sent. n. 6916/2016, ric. Banca Popolare dell’Alto ADIGE soc. coop.,), il giudice di legittimità è nuovamente tornato sul tema in discussione, aderendo alle linee argomentative della sentenza cd. Crespi.
3.1.1 Va osservato che il nuovo assetto dei reati di false comunicazioni sociali – a seguito dell’entrata in vigore della l. 27 maggio 2015, n. 69 – è costituito da due fattispecie incriminatrici (artt. 2621 e 2622 c.c.), caratterizzate entrambe come reati di pericolo e differenziate alla luce della tipologia societaria, e da due norme (artt. 2621 bis c.c. e 2621 ter c.c.) riferite solo all’art. 2621 e contenenti una cornice di pena più mite per i fatti di ‘lieve entità’ e una causa di non punibilità per la loro ‘particolare tenuità’.
È stata pertanto confermata l’architettura a ‘piramide punitiva’ degli illeciti in materia di false comunicazioni sociali, ma la struttura dell’impianto è fondata da soli delitti, essendosi abbandonato il modello contravvenzionale che caratterizzava la previgente incriminazione contenuta nell’art. 2621 cod. civ. per le società non quotate in borsa, nonché l’illecito amministrativo introdotto nel 2005 all’interno delle figure in questione (l. n. 262 del 2005).
La condotta del ‘nuovo’ art. 2621 cod. civ. consiste nell’esporre ‘nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, (…) fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero’ o nell’omettere ‘fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore’.
In sintesi, può affermarsi che i ‘fatti materiali’, non ulteriormente qualificati, sono l’oggetto tipico della sola condotta di esposizione contemplata dall’art. 2622 cod. civ.; diversamente i ‘fatti materiali rilevanti’ costituiscono l’oggetto tipico dell’omessa esposizione nel medesimo art. 2622 cod. civ. e rappresentano anche l’oggetto della condotta tipica – sia nella forma commissiva, sia nella forma omissiva – nell’art. 2621 cod. civ..
Dunque, in posizione centrale, nelle condotte tipiche vi è ancora il concetto di ‘fatti materiali’, ma, a differenza della previgente formulazione è venuto meno – come meglio si dirà nel prosieguo – l’inciso ‘ancorché oggetto di valutazioni’. I ‘fatti materiali’ – oggetto, nei tre veicoli (bilanci, relazioni, comunicazioni sociali), della falsità nella forma commissiva od omissiva – devono essere connotati altresì sul piano oggettivo della tipicità dal requisito della ‘idoneità a indurre in errore’, e sul piano soggettivo della tipicità, dal requisito della ‘consapevolezza’ e dalla finalità di conseguire un ‘ingiusto profitto’ (così, sempre Cass. 6916/2016, cit.).
3.1.2 Per quanto qui di interesse, occorre dunque evidenziare che una delle modifiche introdotte dalla legge sopra menzionata con riguardo alla condotta del reato, è senza dubbio quella – che qui interessa – che ha investito la modalità oggettuale relativa ai fatti sui quali deve cadere la falsità penalmente rilevante. Ed invero, come anticipato, la precedente formulazione della norma individuava la condotta attiva nell’esposizione di ‘fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni’, e la condotta omissiva nella mancata indicazione di ‘informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge’.
Ebbene, per effetto della riforma, la condotta rileva ora in quanto concernente, per la condotta attiva, ‘fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero’, e per quella omissiva ‘fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge’.
Ne discende che le diversità testuali fra le due versioni sono evidenti: la modalità omissiva della condotta è stata uniformata a quella attiva nell’essere indirizzata su ‘fatti materiali’, e non più su ‘informazioni’; per entrambe le modalità esecutive è stato introdotto il requisito della rilevanza dei fatti sui quali incide il falso; e, per la modalità attiva, si registra la completa espunzione della qualificazione dei fatti come ‘ancorché oggetto di valutazioni’ (cfr. sempre Cass. 6916/2016, cit.).
In realtà, è proprio l’ultimo degli aspetti indicati, ossia la soppressione del riferimento alle valutazioni, che ha attirato l’attenzione dei primi commentatori della riforma.
Sul punto, giova ricordare che sia prima che dopo la definitiva deliberazione della norma in esame, allorché la stessa aveva assunto la forma attuale nel corso dei lavori parlamentari, l’eliminazione dell’espressione indicata era stata letta da taluni commentatori nel senso della privazione di rilevanza penale delle falsità ricadenti su valutazioni estimative, con un effetto sostanzialmente abrogativo di una parte consistente della fattispecie incriminatrice.
Altri, in senso opposto, avevano osservato che alla resecazione dal testo normativo dell’espressione di cui qui si discute non sarebbe possibile attribuire un effetto abrogativo della portata di quello descritto, in quanto diretta su una parte di quel testo che già in precedenza era stata ritenuta sostanzialmente superflua. Si è affermato che il predetto inciso rappresentava un’inutile superfetazione, in realtà, finalizzata unicamente a rimarcare l’esito di un lungo dibattito, iniziato già sotto la vigenza della formulazione dell’art. 2621 c.c. precedente alla modifica del 2002, nel senso dell’inclusione dei fatti valutativi fra quelli la cui esposizione, in quanto connotata da difformità dal vero, integrava la fattispecie incriminatrice.
3.2 In tale contesto ricostruttivo, si colloca invero il contrasto interpretativo sopra menzionato.
3.2.1 Secondo il primo orientamento tra quelli sopra accennati (cfr. sent. n. 33774 del 16/06/2015, dep. 30/07/2015, Crespi e altri, Rv. 264868; Cass. 6916/2016) ‘in tema di bancarotta fraudolenta impropria ‘da reato societario’, di cui all’art. 223, secondo comma, n. 1, R.D. 16 marzo 1942 n. 267, la nuova formulazione degli artt. 2621 e 2622 cod. civ., introdotta dalla L. 27 maggio 2015, n. 69, ha determinato – eliminando l’inciso ‘ancorché oggetto di valutazioni’, ed inserendo il riferimento, quale oggetto anche della condotta omissiva, ai ‘fatti materiali non rispondenti al vero’ – una successione di leggi con effetto abrogativo, peraltro limitato alle condotte di errata valutazione di una realtà effettivamente sussistente’.
Orbene, nel primo di tali interventi, la Corte ha rilevato che ‘il dato testuale e il confronto con la previgente formulazione degli artt. 2621 e 2622, come si è visto in una disarmonia con il diritto penale tributario e con l’art. 2638 cod. civ., sono elementi indicativi della reale volontà legislativa di far venir meno la punibilità dei falsi valutativi’.
A fondamento di tale affermazione, si è ritenuto che il legislatore del 2015 ha ripreso la formula utilizzata dal legislatore del 2002 ‘fatti materiali’, diversa da quella ‘fatti’ contenuta nell’originario art. 2621 cod. civ., per circoscrivere l’oggetto della condotta attiva, privandola tuttavia del riferimento alle valutazioni e provvedendo contestualmente a replicarla anche nella definizione di quello della condotta omissiva, in relazione alla quale il testo previgente faceva invece riferimento, come detto, alle ‘informazioni’.
È stato altresì argomentato che il disegno di legge n. 19 prevedeva di attribuire, in un primo momento, rilevanza alle ‘informazioni’ false, adottando così un’espressione lessicale idonea a ricomprendere le valutazioni, sicché proprio tale mutamento sarebbe espressivo della intenzione del legislatore di escludere la rilevanza penale del c.d. falso valutativo.
Inoltre si è aggiunto che l’espressione ‘fatti materiali’ era stata già utilizzata dalla legge n. 154 del 1991 per circoscrivere l’oggetto del reato di frode fiscale di cui all’art. 4 lett. f) della legge n. 516 del 1982, con il chiaro intento di escludere dall’incriminazione le valutazioni relative alle componenti attive e passive del reddito dichiarato. Invero, il citato art. 4, lett. f), puniva l’utilizzazione di ‘documenti attestanti fatti materiali non corrispondenti al vero’, nonché il compimento di ‘comportamenti fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento di fatti materiali’.
È stato pertanto osservato che ‘pacificamente una tale formulazione del dato normativo comportava l’irrilevanza penale di qualsiasi valutazione recepita nella dichiarazione dei redditi, in quanto ciò fu conseguenza di una scelta legislativa ben esplicitata nel disegno di legge e con la quale si vollero evitare conseguenze penali da valutazioni inadeguate o comunque in qualche modo discutibili alla luce della complessa normativa tributaria’.
È stato anche osservato nel precedente in esame, che i testi riformati degli artt. 2621 e 2622 cod. civ. si inseriscono in un contesto normativo che vede ancora un esplicito riferimento alle valutazioni nell’art. 2638 cod. civ. (‘Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza’). Tale disposizione continua invero a punire i medesimi soggetti attivi (‘gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società….’) dei reati di cui agli artt. 2621 e 2622 che, nelle comunicazioni dirette alle autorità pubbliche di vigilanza, ‘espongono fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni’. Secondo tale esegesi ‘una lettura ancorata al canone interpretativo ‘ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit’ non può trascurare la circostanza dell’inserimento di modifiche normative in un sistema che riguarda la rilevanza penale delle attività societarie con una non giustificata differenziazione dell’estensione della condotta tipizzata in paralleli ambiti operativi, quali sono quelli degli articoli 2621 e 2622 cod. civ., da una parte, e art. 2638 cod. civ., dall’altra, norme che, sebbene tutelino beni giuridici diversi, sono tutte finalizzate a sanzionare la frode nell’adempimento dei doveri informativi’.
3.2.2 Sulla stessa linea, anche il terzo pronunciamento intervenuto in ordine temporale tra quelli sopra ricordati (Cass. 6916/2016, cit.), ha evidenziato, in aderenza alla tesi interpretativa accolta dalla sentenza cd. Crespi, che due sono le argomentazioni sulle quali occorre concentrare l’attenzione degli interpreti per riaffermare il principio sopra ricordato in massima (Cass. 6916/2016, cit.).
Il primo di essi attiene a quella che può essere definita come l’emersione di un dato testuale che, nella precedente formulazione della norma, era ritenuto in qualche modo depotenziato dall’inciso soppresso con la riforma. Si tratta dell’attributo ‘materiali’, che già con la modifica legislativa del 2002 era stato associato ai fatti la cui falsa esposizione o omissione integrava il falso punibile; e, segnatamente, al significato di esclusione delle valutazioni, riferibile a tale attributo.
Secondo tale arresto giurisprudenziale, la stessa locuzione ‘fatti materiali non rispondenti al vero’ era stata utilizzata dal legislatore della riforma del 2002, il quale, pure ricorrendo in maniera equivoca alla congiunzione ‘ancorché’, aveva espressamente precisato che oggetto dei ‘fatti materiali’ potessero essere anche le valutazioni, sostanzialmente recependo la consolidata interpretazione giurisprudenziale e dottrinaria del termine ‘fatti’ contenuto nell’originaria formulazione dell’art. 2621 c.c..
Espresso riferimento alle ‘valutazioni estimative’, poi, si era fatto prevedendo le soglie di punibilità di cui al comma quarto dell’art. 2621 e al comma ottavo dell’art. 2622.
Ne consegue che l’adozione dello stesso riferimento ai ‘fatti materiali non rispondenti al vero’, senza alcun richiamo alle valutazioni, e il dispiegamento della formula citata anche nell’ambito della descrizione della condotta omissiva, consentirebbe di ritenere ridotto l’ambito di operatività delle due nuove fattispecie di false comunicazioni sociali, con esclusione dei cosiddetti ‘falsi valutativi’. Ed invero, il significato di esclusione delle valutazioni era evidentemente eliso dall’espressa indicazione di rilevanza penale delle valutazioni e una volta che quest’ultima è venuta a cadere, la previsione di necessaria materialità dei fatti riprenderebbe pertanto il proprio valore limitativo della punibilità ai fatti oggettivi, lasciando fuori dall’incriminazione le rappresentazioni valutative delle realtà economiche e finanziarie della società.
Il secondo ordine di considerazioni riguarda invece un profilo di natura sistematica e cioè quello derivante dalla analisi comparata del nuovo testo dell’art. 2621 c.c. con quello dell’art. 2638 c.c., già sopra evocato.
Anche nella sentenza n. 6916/2016 si è posto l’accento sul fatto che l’intervento legislativo, eliminando il più volte citato riferimento alle valutazioni dalla fattispecie dell’art. 2621 c.c., lo ha invece lasciato inalterato in quella di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, prevista dall’art. 2638, 1 co., c.c., che, contemplava una condotta in larga parte coincidente con quella dell’art. 2621 c.c. nella precedente versione, contrasto, peraltro, ancor più marcato attualmente quando la mancata previsione di soglie di punibilità, che già caratterizzava l’art. 2638 c.c., connota ora anche l’art. 2621 c.c..
Ebbene, si è così affermato che la circostanza secondo cui la stessa espressione sia stata cancellata dal testo di quest’ultima norma e invece mantenuta in quello dell’art. 2638 c.c. è chiaramente dimostrativo di un intento legislativo mirato ad escludere gli effetti sostanziali dell’espressione, in termini di definizione della fattispecie incriminatrice, con specifico ed esclusivo riguardo al reato di false comunicazioni sociali e dunque a sottrarre a tale incriminazione i fatti valutativi.
In conclusione, nella sentenza n. 6916/2016 si è sostenuto che la discussione relativa all’effettiva incidenza della recente riforma sulla punibilità dei falsi valutativi non possa prescindere dal dato certo e ineludibile dell’eliminazione dal testo normativo del preesistente riferimento alle valutazioni.
Invero, ritenere questo dato irrilevante presuppone necessariamente che quel riferimento possa essere considerato come sostanzialmente superfluo nel complessivo significato della previgente formulazione della norma.
È stato così affermato che ciò impone tuttavia di verificare quale fosse l’esatto contenuto da attribuire a quel testo nel suo richiamo ai ‘fatti materiali ancorché oggetto di valutazioni’ e segnatamente, all’effetto combinato dei predicati ‘materiali’ e ‘oggetto di valutazioni’ sulla definizione dell’estensione denotativa di un termine, quello di ‘fatti’, che compariva isolatamente nella ancora precedente formulazione della norma incriminatrice, ed alla funzione svolta a questi fini dalla locuzione ‘ancorché’.
Sul punto, non era stata attribuita, tutto sommato, particolare rilevanza nella individuazione delle condotte punibili in base alla normativa previgente.
E ciò è stata ritenuta, secondo il medesimo arresto, la migliore dimostrazione della generalizzata consapevolezza di una sostanziale elisione reciproca dei due predicati, per effetto della quale l’identificazione del riferimento oggettuale di tali condotte rimaneva conclusivamente affidato al più ampio significato del concetto di ‘fatti’, comprendente anche le valutazioni. Ne discende che, sempre secondo tale impostazione, al predicato della ‘materialità’ dei fatti occorrerebbe conferire valenza opposta a quella dell’inclusione delle ‘valutazioni’ fra i fatti stessi, operazione ermeneutica quest’ultima, peraltro, non incoerente con la significazione letterale del termine ‘materiale’. Ed invero, quest’ultimo, in effetti, non sarebbe leggibile solo come contrario a quello di ‘immateriale’, ma conterrebbe anche un’accezione riconducibile all’oggettività dei fatti, in quanto tale estranea ai risultati valutativi. Peraltro, si è notato in detta sentenza, che nei primi commenti alla riforma del 2002, era stato evidenziato come la previsione di materialità avrebbe di per sé escluso le valutazioni dai fatti punibili, se il successivo e per certi aspetti contraddittorio accenno normativo alle valutazioni stesse non le avesse espressamente reintrodotte nell’ambito operativo della condotta.
D’altra parte, la diversa opzione interpretativa del termine ‘materiale’ quale sinonimo di ‘rilevante’, tratta dalla realtà anglosassone, trova un ostacolo difficilmente superabile proprio nella riforma qui esaminata, e in particolare nella precisazione per la quale la condotta deve riguardare ‘fatti’, oltre che ‘materiali’, anche ‘rilevanti’. Ne consegue che la detta precisazione sarebbe superflua ove quest’ultimo fosse il senso da assegnare all’attributo della materialità.
Pertanto, secondo tale opzione ermeneutica il senso complessivo del previgente riferimento normativo all’esposizione di ‘fatti materiali, ancorché oggetto di valutazioni’ sarebbe dunque tutt’altro che contraddittorio. Detto altrimenti, quello che si voleva intendere era che il falso punibile potesse ricadere anche su dati contabili costituenti il risultato di valutazioni, purché le stesse fossero state svolte partendo da fatti materiali, riferiti a realtà economiche oggettivamente determinate.
Ne consegue che, seguendo tale interpretazione, la tesi della superfluità dell’accenno normativo alle ‘valutazioni’ non sarebbe pertanto più sostenibile.
È stato altresì osservato, richiamando la dottrina sul punto, che la detta tesi presupporrebbe, in buona sostanza, una diversa ricostruzione del contesto applicativo della norma, nella quale i fatti materiali si pongono ‘a valle’ delle valutazioni, quali risultati delle stesse. Ed invero, in questa prospettiva è stato detto che ben poco avrebbe aggiunto l’espresso richiamo alle valutazioni, laddove la condotta sarebbe stata comunque riferita ai fatti contabili, a prescindere dalla loro origine. Tuttavia, tanto si sarebbe potuto fondatamente sostenere, se la norma avesse indicato i fatti materiali come ‘risultato delle valutazioni’. Nel momento in cui, invece, il dato letterale colloca i fatti materiali ‘a monte’ delle valutazioni, designandoli quali oggetto delle stesse, l’espressa previsione di rilevanza penale di queste ultime era viceversa determinante nell’estendere la portata della norma incriminatrice alle registrazioni contabili non direttamente afferenti a fatti materiali, ma riconducibili agli stessi per il tramite delle valutazioni che le giustificano.
Ne discende, pertanto, che, secondo la opzione ermeneutica in esame, la soppressione di quel riferimento normativo avrebbe effettivamente ridotto l’estensione incriminatrice della norma alle appostazioni contabili che attingono fatti economici materiali, escludendone quelle prodotte da valutazioni, pur se moventi da dati oggettivi.
Si è infine sottolineato che coerente con questa finalità legislativa è proprio la circostanza che l’iniziale richiamo dell’art. 4 del disegno di legge 15.3.2013, n. 19, all’esposizione di ‘informazioni false’, espressione tale da ricomprendere semanticamente anche i risultati di valutazioni, sia stato sostituito nel corso dei lavori parlamentari con il ripristino della precedente formulazione in termini di ‘fatti materiali’.
3.3 n secondo e contrapposto orientamento è rappresentato dalla sopra richiamata sent. n. 890/2016.
La Corte, dopo aver ricordato in premessa che occorre aver riguardo all’interpretazione del dato normativo attuale nella sua pregnante significazione e alla voluntas legis quale obiettivizzata e ‘storicizzata’ nel testo vigente, abbondando pertanto indagini retrospettive dal valore marginale e associando l’interpretazione testuale con il canone esegetico logico – sistematico e con quello teleologico, osserva che la rimozione dal testo previgente della locuzione ‘ancorché oggetto di valutazione’ non possa assumere alcuna valenza decisiva.
Ha rilevato quel Collegio che la congiunzione ‘ancorché’ riveste una finalità ancillare, meramente esplicativa e chiarificatrice del nucleo sostanziale della proposizione principale, con la conseguenza che il suo significato si coglie in funzione della precisazione – ritenuta opportuna per fugare dubbi interpretativi – che nei ‘fatti materiali’ – oggetto di esposizione nei bilanci, nelle relazioni e nelle altre comunicazioni sociali – siano da intendersi ricompresi anche quelli che sottendono attività valutative.
Ne consegue che, secondo questa tesi, la predetta proposizione concessiva avrebbe solo una funzione prettamente esegetica e sicuramente non additiva.
3.3.1 Seguendo poi un’interpretazione logico-sistematica, la Corte passa ad esaminare il significato della locuzione ‘fatti materiali rilevanti’, osservando che i termini ‘materiali rilevanti’ sono di natura squisitamente tecnica, frutto di una trasposizione letterale di formule lessicali in uso nelle scienze economiche anglo-americane e nella legislazione comunitaria. Ne discende che la qualificazione ‘materiale’ si connetterebbe, sempre secondo questa opzione esegetica, al concetto tecnico di ‘materialità’ (o ‘materiality’) che da tempo è stato adottato dagli economisti anglo-americani come criterio di redazione dei bilanci di esercizio e di revisione. Si evidenzia pertanto che il termine in esame va qualificato come sinonimo di ‘essenzialità’, e ciò nel senso che nel bilancio devono entrare solo dati informativi ‘essenziali’ ai fini dell’informazione, restandone fuori tutti i profili marginali e secondari, in aderenza a quanto stabilito dalla legislazione comunitaria (art. 2, comma terzo, della IV direttiva CEE sul bilancio di esercizio e art. 16, comma terzo, della VII Direttiva CEE sul bilancio consolidato) e dalla legislazione nazionale all’art. 2423 c.c..
Allo stesso modo ritiene la Corte, nella sentenza qui richiamata, che l’aggettivo ‘rilevante’ è di stretta derivazione dal lessico della normativa comunitaria, riconnettendosi al concetto di rilevanza sancito dall’art. 2, punto 16, della direttiva 2013/34/UE, e realizzandosi ‘quando la omissione o errata indicazione del fatto rilevante potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli utilizzatori sulla base del bilancio di impresa’. Con la precisazione tuttavia che la ‘rilevanza delle singole voci è giudicata nel contesto di altre voci analoghe’ e con la ulteriore conseguenza che deve ritenersi pertanto normativamente introdotto nel nostro ordinamento un nuovo principio di redazione del bilancio, e cioè proprio quello della rilevanza.
Ne consegue ancora che ‘materialità’ e ‘rilevanza’ dei fatti economici da rappresentare in bilancio costituirebbero facce della stessa medaglia, postulando un’indicazione di indefettibile ‘corretta’ informazione e che le aggettivazioni ‘materiali’ e rilevanti’, lungi dal costituire una ridondante endiadi, dovrebbero trovare senso compiuto nella loro genesi, connessa come tale alla funzione di corretti veicoli di informazioni capaci di orientare le scelte operative e le decisioni strategiche dei destinatari.
3.3.2 Pertanto, in tale contesto ermeneutico – secondo l’arresto da ultimo ricordato – anche il lemma ‘fatto’ non potrebbe essere inteso nel significato comune, ossia come fatto/evento fenomenologico, quanto piuttosto nella sua accezione tecnica più lata, di dato informativo della realtà che i bilanci e le altre comunicazioni sono destinati a proiettare all’esterno, con la conseguente irrilevanza, sul piano della interpretazione sistematica della norma, della soppressione – intervenuta nel corso dei lavori preparatori – del termine ‘informazioni’ e del rispristino dell’originario lemma ‘fatti’.
3.3.3 Peraltro, la Corte – in questo pronunciamento – ritiene quanto mai significativo il riferimento alle norme di cui ai nuovi artt. 2621-bis c.c. (‘Fatti di lieve entità’), che prevede una diminuzione di pena ove i fatti di cui all’art. 2621 c.c. siano di lieve entità, ‘tenuto conto della natura e delle dimensioni della società e delle modalità o degli effetti della condotta’ e nel caso in cui i fatti di cui all’art. 2621 riguardino società che non superino i limiti indicati dal secondo comma dell’art. 1 r.d. 16 marzo 1942, n. 267, ai fini della fallibilità; e 2621-ter c.c. (‘Non punibilità per particolare tenuità’), che stabilisce che, ai fini dell’applicabilità, in materia, della causa di non punibilità per particolare tenuità di cui all’art. 131 bis cod. pen., il giudice deve considerare ‘in modo prevalente,… l’entità dell’eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori conseguente ai fatti di cui agli artt. 2621 e 2621 bis’. Argomenta così la Corte che l’utilizzo del criterio della rilevanza fa da contrappeso all’eliminazione delle soglie di punibilità e del riferimento esplicito alle valutazioni estimative che figurava nella precedente formulazione degli artt. 2621 e 2622 cod. civ. e riafferma il potere discrezionale del giudice in materia di accertamento del coefficiente di significatività della falsa rappresentazione, da apprezzarsi in concreto al di là di ogni predeterminazione positiva in termini quantitativi.
Conclude pertanto la Corte che nella nozione di rappresentazione di fatti materiali e rilevanti non possano non ricomprendersi anche le valutazioni, giacché le valutazioni espresse in bilancio non sono il frutto di mere congetture od arbitrari giudizi di valore, ma devono uniformarsi a criteri valutativi positivamente determinati dalla disciplina civilistica (art. 2426 c.c.), dalle direttive e regolamenti di diritto comunitario o da prassi contabili generalmente accettate. Con la conseguenza che il mancato rispetto di tali parametri comporta la falsità della rappresentazione valutativa, ancor’oggi punibile ai sensi del nuovo art. 2621 cod. civ., nonostante la soppressione dell’inutile inciso ‘ancorché oggetto di valutazione’.
Peraltro, osserva ulteriormente la Corte, per la ricerca di momenti di conferma del principio affermato, in chiave di interpretazione teleologica, che anche l’inserimento sistematico delle nuove false comunicazioni sociali in un testo normativo ‘anticorruzione’ deporrebbe nel senso di rendere irragionevole l’esclusione dall’alveo dei falsi punibili anche quelli valutativi, perché, diversamente opinando, verrebbe sfrustrata la finalità complessiva della legge. Chiarisce inoltre che – in ragione della circostanza che la stragrande maggioranza delle voci in bilancio è frutto di una qualche valutazione – una diversa esegesi del dato normativo si risolverebbe in una interpretatio abrogans della fattispecie penale in esame.
3.3.4 Nella sentenza Giovagnoli si contrasta esplicitamente anche l’argomento tratto, dalle altre sentenze, dal testo dell’art. 2638 c.c. nel quale è mantenuto il sintagma ‘ancorché oggetto di valutazioni’, con riferimento ai fatti materiali non rispondenti al vero, oggetto delle comunicazioni di legge alle autorità pubbliche di vigilanza, testo da quelle valutato alla stregua del canone interpretativo ‘ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit’.
Ha rilevato cioè la Corte che il ricorso a criteri logici di comparazione può aspirare ad un obiettivo di ragionevole affidabilità solo in presenza di identità delle fattispecie di riferimento, ove invece quelle in esame (rispettivamente previste dagli artt. 2621 e 2638 cod. civ.) hanno natura ed obiettività giuridiche diverse e perseguono finalità radicalmente differenti.
D’altronde, prosegue, se non si dovesse tener ferma la diversità dei beni giuridici tutelati dalla richiamate fattispecie delittuose e fosse, viceversa, praticabile la tesi opposta, si avrebbe il risultato paradossale – e forse di dubbia costituzionalità – che la redazione di uno stesso bilancio, recante falsi valutativi, sarebbe penalmente irrilevante se diretto ai soci ed al pubblico e penalmente rilevante se rivolto alle autorità pubbliche di vigilanza.
Si è anche ricordato che questa Corte di legittimità, già in passato, ha avuto modo di statuire che il reato di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza è configurabile anche nel caso in cui la falsità sia contenuta in giudizi estimativi delle poste di bilancio, ‘atteso che dal novero dei ‘fatti materiali’, indicati dall’attuale norma incriminatrice come possibile oggetto della falsità, vanno escluse soltanto le previsioni o congetture prospettate come tali, vale a dire quali apprezzamenti di carattere squisitamente soggettivo, e l’espressione, riferita agli stessi fatti, ‘ancorché oggetto di valutazioni’, va intesa in senso concessivo, per cui, in ultima analisi, l’oggetto della vigente norma incriminatrice viene a corrispondere a quello della precedente, che prevedeva come reato la comunicazione all’autorità di vigilanza di ‘fatti non corrispondenti al vero’ (Sez. 5, n. 44702 del 28 settembre 2005, Rv 232535; nello stesso senso,recentemente, Sez. 5, n. 49362 del 7 dicembre 2012, Rv 254065).
Nell’occasione, questa Corte ha, dunque, statuito che l’espressione ‘fatti materiali, ancorché oggetto di valutazioni’ coincideva con quella ‘fatti non corrispondenti al vero’, cioè, sostanzialmente con il testo dell’originario art. 2621 cod. civ., così offrendo significativo riscontro all’interpretazione secondo cui il sintagma introdotto con la L. n. 61 del 2002 era mera superfetazione.
3.3.5 Nella medesima sentenza si sottolinea poi che, con riferimento al testo dell’art. 2621 c.c. antecedente alla riforma del 2002 – quello cioè plasmato dal legislatore del 1942 il quale non aveva fatto alcun riferimento esplicito alla nozione di ‘valutazioni’ – si era formata una giurisprudenza che nessun dubbio aveva rammostrato nel riconoscere la idoneità del precetto a coprire anche condotte riconducibili ad attività valutative: così Sez. 5, n. 234 del 16/12/1994, Rv. 200455, secondo cui in tema di false comunicazioni sociali, art. 2621 cod. civ., la veridicità o falsità delle componenti del bilancio va valutata in relazione alla loro corrispondenza ai criteri di legge e non alle enunciazioni ‘realistiche’ con le quali vengono indicate.
Si cita anche, nella medesima prospettiva, l’orientamento consolidato in tema di reati di falso, secondo cui anche la valutazione, quando non corrisponda al vero, può essere falsa (Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999, dep. 2000, Rv. 215744). In altri termini, nell’ambito di determinati contesti che implichino l’accettazione di parametri valutativi normativamente determinati o tecnicamente indiscussi le valutazioni formulate da soggetti cui la legge riconosce una determinata perizia possono non solo configurarsi come errate, ma possono rientrare altresì nella categoria della falsità: ciò in quanto, laddove il giudizio faccia riferimento a criteri predeterminati, esso è un modo di rappresentare la realtà analogo alla descrizione o alla constatazione (enunciati pacificamente falsificabili, quantunque, rispetto a tali categorie della conoscenza logica, esso dipende in maggior misura dal grado di specificità dei criteri di relazione). Ne consegue, pertanto, che può dirsi falso l’enunciato valutativo che contraddica criteri indiscussi o indiscutibili e sia fondato su premesse contenenti false attestazioni (Sez. 5, n. 3552 del 09/02/1999, Rv. 213366).
3.3.6 Non appare da trascurare infine il fatto che la dottrina, dopo un iniziale favore mostrato alla tesi poi rifluita nella sentenza Crespi, si è venuta in seguito attestando, in maggioranza, sulla tesi illustrata dall’opposto orientamento.
Va infine osservato, come anticipato, in ordine ai motivi di ricorso del P. , che le doglianze avanzate con il ricorso presentato dall’Avv. Valentini risultano formulate in modo generico e che quelle di carattere processuale avanzate con il ricorso a firma dell’Avv. Gincarli risultano essere infondate in ragione del fatto che l’eccepita nullità, rientrando tra quelle di ordine generale a regime intermedio (Cass., Sez. 4, n. 6211/2009, Rv. 246639), doveva essere eccepita tempestivamente innanzi alla Corte d’Appello e diventa dunque irricevibile in questa sede.
Per quanto concerne la posizione di I. , non toccato dalla tematica in discussione, i motivi sono ugualmente devoluti con l’esame della questione principale.
Ritiene pertanto questo Collegio che, stante la rilevanza della questione sopra prospettata e il contrasto interpretativo sopra rappresentato, occorra rimettere i ricorsi alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618 c.p.p. affinché le stesse si esprimano sul seguente quesito: ‘Se la modifica dell’art. 2621 c.c. per effetto dell’art. 9 L. n. 69/2015 nella parte in cui, disciplinando ‘Le false comunicazioni sociali’, non ha riportato l’inciso ‘ancorché oggetto di valutazioni’, abbia determinato o meno un effetto parzialmente abrogativo della fattispecie’.
P.Q.M.
Rimette i ricorsi alle sezioni Unite.
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