Suprema Corte di Cassazione,
Sezione V
Sentenza 24 luglio 2015, n. 32666
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 7 aprile 2014 la Corte di Appello di Milano ha confermato la pronunzia di primo grado emessa dal Tribunale di Como, con la quale T.L. era stata condannata per il reato previsto dagli artt. 81, comma secondo, e 615 ter commi 1 e 2 cod. pen. perché, con più azioni esecutive di un disegno criminoso, nella sua qualità di assistente tributario dell’Agenzia delle Entrate presso l’ufficio di Como, abusivamente si introduceva con tre diversi accessi nel sistema informatico dell’Agenzia delle Entrate protetto da misure di sicurezza, al fine di effettuare un’arbitraria riduzione di imposta a favore del contribuente R.A. (fatto commesso dal (omissis) ).Con la stessa pronunzia l’imputata veniva condannata al risarcimento dei danni in favore della parte civile M.G. , collega della T. e delle cui credenziali si era avvalso chi aveva effettuato l’ultimo accesso al sistema informativo.
2. Propone ricorso l’imputata, con atto sottoscritto dal suo difensore, denunziando violazione di legge e vizi motivazionali.
La ricorrente si duole del fatto che la Corte territoriale non abbia tenuto adeguatamente conto delle censure mosse con l’atto di appello in ordine alla insussistenza di prove sufficienti per affermare che gli accessi al sistema informativo siano stati da lei effettuati, tenuto conto che era emerso che il suo computer era stato in più occasioni utilizzato anche da altri soggetti. Peraltro, secondo la ricorrente non era stato considerato che non v’era prova che ella conoscesse le credenziali del collega M. e che il teste P. era stato assolto dal reato di falsa testimonianza, del quale era stato imputato per aver reso in dibattimento dichiarazioni favorevoli all’imputata e ritenute dal giudice di primo grado non veritiere.
Considerato in diritto
1. Va in primo luogo evidenziato che non può essere dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione perché l’imputata vi ha rinunziato ai sensi dell’art. 157, comma 7, cod. pen..
È noto che in ordine all’interpretazione di tale norma vi è stato un contrasto della giurisprudenza di legittimità e di merito.
In questi casi è proprio il titolo legittimante l’accesso e la permanenza nel sistema che risulta violato: il soggetto agente opera illegittimamente, in quanto il titolare del sistema medesimo lo ha ammesso solo a ben determinate condizioni, in assenza o attraverso la violazione delle quali le operazioni compiute non possono ritenersi assentite dall’autorizzazione ricevuta. Il dissenso tacito del dominus loci non viene desunto dalla finalità (quale che sia) che anima la condotta dell’agente, bensì dall’oggettiva violazione delle disposizioni del titolare in ordine all’uso del sistema. Irrilevanti devono considerarsi gli eventuali fatti successivi: questi, se seguiranno, saranno frutto di nuovi atti volitivi e pertanto, se illeciti, saranno sanzionati con riguardo ad altro titolo di reato (rientrando, ad esempio, nelle previsioni di cui agli artt. 326, 618, 621 e 622 c.p.).
In conclusione le Sezioni Unite hanno stabilito il principio di diritto secondo il quale integra la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto, prevista dall’art. 615 ter cod. pen., la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da soggetto, che pur essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso. Non hanno rilievo, invece, per la configurazione del reato, gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l’ingresso nel sistema.
Si evince dalla ricostruzione dei fatti che la T. aveva ammesso di aver effettuato i primi due accessi a seguito di una richiesta del collega P.S. , il quale doveva procedere alla stipulazione con il R. di una polizza fideiussoria da allegarsi alla richiesta di rateizzazione dei suoi debiti erariali.
È pur vero che, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, il giudice di merito non ha l’obbligo di soffermarsi a dare conto di ogni singolo elemento indiziario o probatorio acquisito in atti, potendo egli invece limitarsi a porre in luce quelli che, in base al giudizio effettuato, risultano gli elementi essenziali ai fini del decidere, purché tale valutazione risulti logicamente coerente. (Sez. 5, n. 2459 del 17/04/2000, PM in proc. Garasto L, Rv. 216367). È anche incontroverso, però, che il dovere di motivazione della sentenza è adempiuto, ad opera del giudice del merito, solo attraverso la valutazione globale delle deduzioni delle parti e delle risultanze processuali e devono essere spiegate le ragioni che hanno determinato il convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo (Sez. 6, n. 20092 del 04/05/2011, Schowick, Rv. 250105; Sez. 4, n. 1149 del 24/10/2005, Mirabilia, Rv. 233187; Sez. 4, n. 36757 del 04/06/2004, Perino, Rv. 229688).
P.Q.M.
La Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Milano.
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