Suprema Corte di Cassazione
sezione V penale
sentenza 2 aprile 2012, n. 12252
RILEVATO IN FATTO
B. D., C. A., D. A., C. M., G. B., L. C., M. A., R. D., S. A., S. V., T. M. furono riconosciuti colpevoli, in primo grado (sentenza Corte di assise di Milano del 13.6.2009), del delitto di cui agli artt. 306 commi primo, secondo, terzo, in relazione all’articolo 270 bis cp (associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, denominata Partito Comunista Politico Militare, PCPM, mediante costituzione di banda armata (capo A), S. S.: del delitto di concorso esterno nel delitto sopra indicato (capo B), B., G., G., L., S., T.: del delitto di cui agli articoli 81 cpv, 110 numero 1 cp, 10,12 legge 497/1974, 1 e 21 legge 110/1975, per avere, fino a febbraio 2007, con piú azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, in tempi diversi, in concorso tra loro e con R. V. e con altre persone non identificate, occultato un numero imprecisato di armi da guerra e comuni da sparo, clandestine (Kalashikov, Uzi, mitraglietta Skorpion, revolver, carabina ecc.), di parti di esse, il relativo munizionamento, nonché vario materiale esplodente ciò allo scopo di utilizzare le dette armi per le finalità proprie del sodalizio sovversivo di cui sopra (capo E), gli stessi: del delitto di ricettazione di cui all’articolo 648 cp (capo F) con riferimento alle suddette armi, B., L., G. e T..: del delitto di tentato furto pluriaggravato (artt. 110, 56,61 n. 5,624,625 nn. 2,3, 5,7 cp, in concorso tra loro e con altre persone non ancora identificate, per aver compiuto atti idonei, diretti in modo non equivoco, ad impossessarsi delle banconote contenute nel bancomat della banca Antonveneta, agenzia di Albignasego (capo G), gli stessi: del delitto di furto pluriaggravato di due autovetture Fiat “Uno” e di alcune targhe di autovetture, utilizzate allo scopo di commettere il delitto di cui al capo che precede (capi H ed I), L., S., B., D., S.: del delitto ex artt. 81 cpv, 110, 112, 468 cp, utilizzando la carta di identità intestata a S. che ne aveva falsamente denunciato lo smarrimento, contraffacendola e, in particolare, apponendovi la foto di D. (capo M), G., L., S., B., D.: del medesimo reato di cui al capo che precede, per avere utilizzato, in tempi diversi, fotocopie di carte d’identità che G., approfittando delle sue mansioni di archivista presso la società Italease, sottraeva da varie pratiche ivi giacenti (capo N).
Tutti i predetti delitti sono contestati come aggravati ai sensi dell’articolo 1 L. 15/1980.
I suddetti imputati furono, in ragione di quanto sopra, condannati alla pena ritenuta di giustizia, nonché in solido al risarcimento del danno in favore delle costituite PP.CC. I. P. (E 100.000) e Presidenza del consiglio dei ministri (E 1.000.000).
La Corte di assise di appello di Milano, con la sentenza di cui in epigrafe, decidendo su appello degli imputati, in parziale riforma della pronunzia di primo grado, ha assolto B., G., G., L., S. e T. dei reati di cui ai capi E) ed F), limitatamente a quanto contestato in relazione alla detenzione di alcune specifiche parti di armi e/o munizioni, ha dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti dei predetti, in relazione ai capi sopraindicati, limitatamente alla detenzione di alcune cartucce per arma comune da sparo, esclusa l’aggravante di cui alla L. 15/1980, ha parzialmente riqualificato il capo E) con riferimento ad una partita di munizioni ritenute per arma comune da sparo e ha rideterminato più favorevolmente la pena degli imputati sopra indicati, confermando nel resto la sentenza impugnata a carico di costoro e ,integralmente, a carico degli altri appellanti, condannando questi ultimi al pagamento delle spese processuali; ha confermato le statuizioni civili, condannando gli imputati al ristoro delle spese sostenute dalle parti civili nel secondo grado di giudizio.
Nel corso delle indagini preliminari, vennero svolti accertamenti tecnici non ripetibili (su armi, materiale biologico ecc.), fu analizzato, con la procedura dell’incidente probatorio, materiale informatico caduto in sequestro, fu trascritto il testo di numerose conversazioni intercettate.
In detta fase procedimentale il co-indagato R. V. decise di collaborare con gli inquirenti, rilasciando dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie.
I giudici del merito, invero, hanno fondato il loro convincimento, tanto sulle dichiarazioni del collaborante R. (giudicato separatamente), quanto sul contenuto delle conversazioni intercettate, quanto sull’esito dell’attività di perquisizione, sequestro, pedinamento, osservazione, operati dalla polizia giudiziaria, quanto, ovviamente, sull’analisi del materiale acquisto agli atti.
In particolare, risultano cadute in sequestro le armi, le munizioni, i caricatori, le parti di ricambio di cui al sopra indicato capo E), documenti informatici, filmati, nonché alcune copie del giornale clandestino “Aurora”, espressione della ideologia e dei propositi strategici del gruppo politico al quale gli imputati non hanno nascosto di appartenere.
Ricorrono per cassazione, tramite i difensori, gli imputati e deducono:
Il difensore di R. (avv. C.):
1) inosservanza, ovvero erronea applicazione dell’articolo 270 bis e dell’articolo 306 cp, mancanza illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico.
I giudici del merito non hanno dimostrato l’effettivo inserimento di questo imputato nella struttura organizzata, attraverso l’ indicazione di condotte sintomatiche, consistenti nello svolgimento di attività preparatorie rispetto all’esecuzione del programma comune, né hanno dimostrato l’assunzione di un ruolo concreto nell’organigramma criminale. Il delitto di cui all’articolo 270 bis cp presuppone il dolo specifico, nel quale la consapevolezza della volontà del fatto di reato deve essere indirizzata al perseguimento della finalità di terrorismo, vale a dire, l’intenzione di spargere terrore tra la popolazione o di costringere i poteri costituiti, nazionali o internazionali, a compiere o ad astenersi dal compiere determinati atti; alternativamente la volontà deve essere diretta a destabilizzare gravemente o a distruggere le strutture politiche fondamentali di un paese. Detto elemento psicologico, quindi, non può essere ravvisato nella mera adesione (inconsapevole o involontaria) ad una qualche iniziativa presa da altri. R. è accusato di aver preso parte ad alcune attività del sodalizio, ma non vi è prova che egli fosse a conoscenza di dette attività, né degli scopi cui esse miravano e neppure dell’esistenza dell’associazione ritenuta sovversiva.
2) inosservanza e disapplicazione della legge penale per erronea qualificazione giuridica del fatto in relazione alla configurazione dei reati di cui agli articoli 270 bis, 360, in luogo dell’articolo 270 ter cp.
Anche a concedere che sia corretta l’interpretazione che si legge in sentenza sulla formulazione del capo di imputazione in relazione al delitto di cui al capo A), va considerato che la contestazione, come concretamente articolata, al più, integrerebbe il delitto di assistenza agli associati di cui all’articolo 270 ter cp.
3) mancata assunzione di prova decisiva, atteso che non è stato acquisito il verbale d’interrogatorio del R. in data 17 settembre 2007, innanzi al PM milanese, né i giudici del merito hanno motivato tale mancata assunzione. In detto verbale si legge che R. ha protestato la sua assoluta estraneità, ha chiarito di conoscere solo alcuni dei pretesi associati, ha respinto l’uso della violenza per fini politici. Sempre da detto verbale, si evince che L. esprimeva perplessità sulla figura del R.. Anche a voler accettare che questo imputato abbia favorito il rientro in Italia di D., ospitandolo, è da notare che costui aveva scelto una sorta di latitanza volontaria, ma non era ricercato.
Il difensore di S., S. e S. (avv. G.) articola sei di motivi comuni ed alcuni motivi relativi alle singole posizioni dei predetti imputati.
Motivi comuni:
4) violazione del combinato disposto degli articoli 525 cpp e 26 L. 287/51 in relazione agli articoli 178,179 cpp, atteso che in primo grado il presidente aveva esonerato dall’incarico di giudice popolare ben tre dei componenti della corte. I tre provvedimenti sono privi di motivazione e le richieste sono basate su motivi assolutamente generici. L’eccezione di nullità fu proposta tanto al giudice di primo, quanto a quello di secondo grado, ma essa fu respinta sulla base di una antica sentenza della corte di cassazione. In realtà, come è noto, qualsiasi provvedimento giurisdizionale deve essere motivato; è dunque errata la convinzione espressa nella sentenza che si impugna, in base alla quale il provvedimento in questione non avrebbe bisogno di alcuna particolare motivazione. Peraltro, ai sensi dell’art. 10 del decreto legislativo 273/89, che, secondo alcuni, ha implicitamente abrogato gli ultimi tre commi dell’articolo 26 sopra richiamato, l’impedimento di uno dei giudici componenti del collegio avrebbe dovuto imporre la sospensione del dibattimento. Non avendo così operato, il giudice di primo grado ha violato il principio in base al quale la sentenza deve essere deliberata dalle stesse persone fisiche che hanno composto, sin dall’inizio, l’organo giudicante.
5) violazione di legge in ordine alla mancata declaratoria di nullità dell’ordinanza del giudice di primo grado del 22 gennaio 2009, per violazione dell’articolo 178 c) cpp e dell’articolo 6 comma terzo lettera b) CEDU. Invero, nell’udienza del 22 gennaio 2009 fu arbitrariamente espletato il controesame del collaboratore di giustizia R.. Infatti, a conclusione della precedente udienza, il presidente aveva disposto che gli imputati non fossero allontanati da Milano, preannunciando che non avrebbe concesso il nullaosta per il loro trasferimento in altre carceri. Viceversa, gli imputati ricorrenti furono tradotti in un carcere in provincia di Catanzaro. Ciò ha reso nella pratica impossibile l’esercizio della diritto della difesa, attesa la distanza che è stata arbitrariamente posta dall’amministrazione penitenziaria, violando l’indicazione presidenziale, tra i difensori e gli imputati. è noto che il ricordato articolo 6 dispone che ogni accusato ha diritto a disporre del tempo e della possibilità necessari per preparare la sua difesa. La condotta dell’amministrazione penitenziaria ha finito per violare anche l’articolo 85 dell’ordinamento penitenziario, che prevede il trasferimento dei detenuti solo per gravi e comprovati motivi di sicurezza e comunque previo nullaosta dell’autorità giudiziaria. In merito, la risposta del giudice d’appello è stata del tutto irrazionale e insoddisfacente, in quanto si è articolata attraverso il richiamo ad un precedente giurisprudenziale assolutamente non in termini.
6) Violazione degli articoli 470 e 178 lettera c) cpp e dell’articolo 6 CEDU, nonché dell’articolo 111 della Costituzione, in relazione alla mancata declaratoria di nullità dell’ordinanza della corte d’assise del 18 luglio 2008, con la quale è stato consentito alla teste T.F. di deporre e di essere sottoposta a controesame, essendo visibile solo per la Corte. Il provvedimento appare sostanzialmente immotivato e comunque assunto fuori dei casi previsti dalla legge, atteso che la deposizione della teste è avvenuta senza che le difese ne abbiano potuto vedere le fattezze e l’espressione. La sentenza impugnata, pur ammettendo che non ricorreva alcuna delle situazioni previste dall’ordinamento, ha rilevato che la teste, così come non era visibile per le difese, non era visibile per il PM, dimenticando che la stessa era già stata ascoltata dall’Organo dell’accusa nel chiuso del suo ufficio, nel corso delle indagini preliminari.
7) violazione di legge per mancata declaratoria di incompetenza territoriale e dunque erronea applicazione degli articoli 8 e 9 cpp. La corte d’assise d’appello ha respinto l’eccezione, già tempestivamente sollevata in primo grado, assumendo che la competenza per territorio si radica nel momento della costituzione delle parti, essendo irrilevanti le successive emergenze dibattimentali. In realtà, i giudici dell’appello hanno dimenticato che le pretese sopravvenienze, emerse nel corso del dibattimento altro non erano che conferma della tesi dell’ incompetenza per territorio. In tema di delitto associativo, la giurisprudenza chiarisce che, per individuare il luogo di consumazione del reato, in difetto di elementi storicamente certi, può farsi ricorso a criteri presuntivi, tenendo presente il luogo in cui sodalizio si è manifestato per la prima volta, o quello in cui si concretino i primi segni della sua operatività; solo nel caso in cui ciò non sia possibile, si fa ricorso ai criteri sussidiari e presuntivi di cui all’articolo 9 del codice di rito. Tra questi criteri, desumibili dai reati fine, vi è quello dei primi segni di vitalità del sodalizio. Ebbene, nel caso di specie, l’associazione è contestata come costituita in Milano tra il 2003 e il 2004; si chiarisce però che detta associazione aveva articolazioni in Veneto e in Piemonte. Al proposito, i giudici del merito, da un lato, hanno ammesso che deve farsi luogo ai criteri presuntivi e quindi deve farsi riferimento alla località nella quale si sono concretizzati i primi segni della operatività dell’associazione, dall’altro, tuttavia, fanno esplicito riferimento alla intensificazione e sistematicità di contatti che vengono datati all’estate del 2005, spostando – in tal modo- in avanti di ben due anni la data di effettiva costituzione della presunta associazione. Ne è senza rilievo che gli unici episodi concreti attribuiti agli associati si sono verificati in Veneto e che di origine veneta sono la maggior parte degli imputati.
8) mancata declaratoria della inammissibilità della costituzione di parte civile di I. P., atteso che i giudici del merito hanno completamente trascurato la giurisprudenza di legittimità, per la quale, in presenza di reato associativo, la persona offesa non può essere che lo Stato italiano. Secondo la corte d’assise d’appello, i reati associativi contestati hanno natura plurioffensiva e dunque hanno inciso anche nella sfera dell’I.; ma l’assunto è errato per il motivo sopraindicato.
9) Violazione di legge in ordine all’entità del risarcimento riconosciuto alle parti civili, atteso che in sentenza si fa genericamente riferimento alla sussistenza degli elementi della
condotta, del danno e del nesso causale; tutto ciò non spiega affatto perché il risarcimento sia stato determinato nella misura esorbitante indicata in sentenza.
10) Per quanto riguarda specificamente la posizione di S., il difensore deduce violazione di legge e carenza dell’apparato motivazionale, nonché inosservanza dell’applicazione degli articoli 110, 306 comma secondo, 270 bis cp. La sentenza in questione è dotata di motivazione solo apparente, atteso che nessuna dimostrazione è in effetti fornita circa la consapevolezza di questo imputato dell’esistenza del gruppo associato; di talché non si vede come lo stesso potesse esserne concorrente esterno. La giurisprudenza di legittimità, ovviamente, pretende che, per rispondere di concorso esterno, il soggetto abbia chiara cognizione dell’esistenza della struttura associativa. Tautologicamente si afferma in sentenza che S. avrebbe fornito, in maniera non occasionale, un apporto consapevole, volontario e concreto. In realtà egli ha contatti solamente con G. ed un solo, insignificante incontro con L.. La sentenza non chiarisce quali comportamenti dell’ imputato si sarebbero posti in correlazione causale con la vita dell’associazione, in quale misura ciò sarebbe avvenuto, quali altri eventuali condotte possono costituire l’obiettiva espressione di una partecipazione alla banda armata. In realtà, le motivazioni che muovevano S. erano riferibili all’ambiente della delinquenza comune e nulla avevano di politico. Le stesse conversazioni intercettate non contengono alcun accenno a questioni politiche. Paradossalmente, poi, questo imputato è stato assolto dagli episodi relativi alle armi, ma condannato come concorrente esterno per aver fornito armi al sodalizio. La contraddizione, puntualmente rappresentata al giudice d’appello, è stata superata con una non condivisibile argomentazione, priva di qualsiasi fondamento logico.
11) Per quanto riguarda specificamente la posizione di S., il difensore deduce violazione di legge e carenze dell’apparato motivazionale per erronea applicazione degli articoli 110, 306 comma secondo 270 bis cp, atteso che a questo imputato (capo M) è addebitato, tra l’altro, di aver messo a disposizione la sua carta d’identità per favorire il rientro clandestino in Italia di D., nonché la partecipazione ad un corso di informatica, tenutosi a Zurigo. Ebbene, quanto alla carta d’identità, è assolutamente inconcepibile che uno degli associati si esponga personalmente, mettendo a disposizione il suo documento, per favorire altro associato. Gli stessi inquirenti della polizia giudiziaria, richiesti sul punto, hanno manifestato la loro meraviglia per un simile modus procedendi. Si vuole attribuire a S. la condotta sopradescritta sulla base di confuse, oscure, equivoche parole captate nel corso di una intercettazione. La Corte di appello ignora volutamente, per altro, che la carta d’identità smarrita era del tipo elettronico e quindi non falsificabile e che a casa dell’imputato è stata trovata una carta identità scaduta ma regolare; la stessa Corte, per altro, ammettere che in precedenza S. aveva denunciato lo smarrimento di altra carta di identità. Quanto al corso di informatica, la partecipazione di questo imputato non è nemmeno stata provata con certezza, atteso lo stesso non è stato visto scendere dal treno a Zurigo. Si tratta dunque di elementi neutri o non provati. Sul computer di questo imputato non è stata trovata traccia di articoli pubblicati sul giornale “Aurora”; S., poi è raggiunto da accuse vaghe e generiche da parte del collaboratore di giustizia, né viene messo in evidenza che gli avrebbe adottato particolari precauzioni per non essere pedinato. Peraltro, la sentenza si sottrae completamente all’esame dell’elemento psicologico e, invero, ammesso e non concesso che sia stato utilizzato il documento in questione, manca la prova della consapevolezza che questo ricorrente avrebbe dovuto necessariamente avere del fatto che detta carta serviva al D., persona che egli non conosceva affatto.
Per guanto specificamente riguarda la posizione di T., il difensore deduce:
12) violazione di legge carenza dell’apparato argomentativo in relazione agli artt.110, 306 comma secondo e 270 bis cp, atteso che la sentenza esibisce una preoccupante mancanza di effettiva motivazione. Quanto ai tentativo di svaligiamento del bancomat, secondo i giudici del merito, il coinvolgimento del T. si evidenzierebbe dal fatto che, attraverso l’impianto GPS, sarebbe stata segnalata più volte la presenza della sua vettura nella zona dove poi avvenne il fatto criminoso. Altro elemento ritenuto indiziante è una sua conversazione (intercettata) con la signora N.; altri elementi vengono indicati nel fatto che, la notte dell’azione, egli sarebbe stato assente da casa e nel fatto che avrebbe frequentato un locale pubblico in quella stessa notte. Tutto ciò alla corte d’assise d’appello basta per ritenere che questo imputato avrebbe partecipato alle azioni preparatorie del tentativo di furto. In realtà si tratta di condotte assolutamente neutre, dalle quali nullo si può dedurre. Né il pentito R. ha fornito indicazioni concludenti, atteso che gli stessi giudicanti non gli credono quando egli accusa T. di aver preso parte al furto. Nessuna valida motivazione poi viene esibita per porre nel nulla le dichiarazioni dei testi della difesa, S. e C.. Con riferimento al primo, la Corte erra nel ritenerlo non credibile, con riferimento a quanto egli ebbe a dire circa la condotta dell’imputato nella notte del tentato furto, atteso che al T. non è addebitata l’azione tipica, ma l’azione preparatoria svoltasi nei giorni precedenti; quanto alla seconda, paradossalmente, la Corte non le crede perché troppo precisa.
Quanto alla esercitazione con le armi, che si sarebbe svolta in località Scolo Tron, i giudici di merito pretendono di dedurre dal fatto che questo imputato ha eseguito alcune passeggiate nella zona una condotta etichettata come “sopralluogo”, ovviamente finalizzato a rendere possibile la successiva sparatoria. Al proposito, viene data piena credibilità al teste R., il quale tuttavia ha affermato di aver riconosciuto l’imputato solo successivamente (“dalle occasioni che si erano poi presentate di studiarne meglio le fattezze”), pur avendo ammesso l’ottima conoscenza del T. stesso, ancor prima di quella sera.
La mancanza di motivazione, infine, è palese in relazione alle varie questioni proposte con l’atto di appello, questioni relative alla impossibilità di un riconoscimento in loco, atteso che l’azione di fuoco si sarebbe svolta nel buio più assoluto, alla palese inattendibilità delle dichiarazioni accusatorie del collaboratore di giustizia, all’ambivalenza di alcune frasi intercettate, in base ai quali non è consentito individuare nel T. “il più giovane” del gruppo, alla mancata conoscenza tra il ricorrente e il G., all’assoluta equivocità dell’ indizio consistente nel ritrovamento di un bigliettino, con annotazione di alcuni numeri di targa, al fatto che il ricorrente, pur indicato come responsabile del “settore giovanile”, nulla sapeva del viaggio in Svizzera di S. (assolto) e M..
Il difensore di B., C., D., C., L., M. e S. (avv. P.) articola motivi comuni e motivi “specifici” per taluni dei predetti imputati.
Motivi comuni:
13) vengono, innanzitutto, richiamate e condivise le censure -sopra illustrate- relative alla pubblicità del dibattimento, alle modalità di audizione della teste T., all’illegittimo trasferimento degli imputati nel carcere di Siano-Catanzaro, alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, sesto e settimo comma della legge 14/2006 (vedasi sub. 47)
Altri motivi comuni
14) inosservanza degli artt. 36 cpp, 111 Cost. e 6 CEDU. Alla prima udienza innanzi al giudice di appello, era stata rappresentata al presidente l’opportunità di una sua astensione ai sensi di quanto previsto dall’articolo 36 n. 1 lettera h) cpp, vale a dire per gravi ragioni di convenienza. Il presidente infatti aveva precedentemente prestato servizio nella Procura della Repubblica presso il tribunale di Milano con funzioni di procuratore aggiunto. Orbene, anche se il passaggio dalla funzione requirente a quella giudicante era avvenuto pochi mesi prima dell’entrata in vigore della norma che tale passaggio vieta nell’ambito dello stesso distretto, nondimeno, si manifestava la assoluta esigenza di evitare che il presidente della corte d’assise d’appello fosse gravato da un pregiudizio colpevolista nei confronti degli imputati, dovendo detto presidente giudicare sugli esiti dell’indagine compiuta dal suo precedente Ufficio. A ciò è da aggiungere che il sostituto Procuratore generale di udienza, fino al 2007, aveva prestato servizio come sostituto Procuratore della Repubblica nello stesso ufficio nel quale il presidente della corte aveva, come detto, esercitato la funzione di Procuratore aggiunto. Peraltro il medesimo presidente, negli anni ’80, aveva fatto parte, sempre nell’ufficio requirente di cui sopra, del cosiddetto pool antiterrorismo. Le gravi ragioni di convenienza attenevano, tanto l’imparzialità, quanto all’apparenza di imparzialità del giudice, di talché la motivazione con la quale il predetto magistrato ha rifiutato la sua astensione non è coerente con la finalità sopraindicata, atteso che, in detta motivazione, si fa riferimento alla mancanza di incompatibilità, a norma della legge all’epoca vigente, tra le due funzioni. Il principio di terzietà del giudice, come evidenziato da sentenze della Corte costituzionale e della Corte europea, si articola, per così dire, in un versante oggettivo e in uno soggettivo, consistendo Quest’ultimo nella fiducia che la figura del giudice deve ispirare agli imputati, fiducia che non può che derivare dalla consapevolezza della sua assoluta equidistanza tra le parti in causa. È dunque evidente che rientrano nelle gravi ragioni di convenienza di cui alla lettera h) dell’articolo 36 del codice di rito tutte quelle situazioni che possono dare spazio al sospetto della non imparzialità del giudicante e quindi alla violazione del principio del giusto processo come stabilito in Costituzione; ciò anche perché la predetta causa di astensione non può dar luogo a ricusazione, con la conseguenza che, in caso di inottemperanza da parte del giudice al suo obbligo di astensione, la parte è priva di immediato mezzo di tutela.
15) inosservanza degli artt. 416, 178 comma primo lettera c) cpp e mancanza di motivazione. Al giudice di secondo grado era stata rappresentata, come già in primo grado, la circostanza che il PM non aveva depositato tempestivamente, ai sensi dell’art. 415 bis del codice di rito, tutto il materiale raccolto nel corso delle indagini. Una parte di detto materiale, infatti, era stato depositato successivamente, con avviso ai sensi dell’art. 430 cpp. Ebbene, la Corte costituzionale, con la sentenza 145 del 1991, ha chiarito, con pronuncia interpretativa di rigetto, che la legittimità del predetto articolo 416 deve essere affermata sulla base del presupposto che l’Organo dell’accusa non può selezionare gli atti da rimettere al giudice dell’udienza preliminare. Anche i lavori preparatori del codice militano in tal senso, dovendo il PM procedere ad una piena discovery fin dall’udienza preliminare. Secondo la corte d’assise d’appello, i riferimenti della difesa erano generici. Si tratta di un assunto infondato, atteso che era stato fornito l’elenco dettagliato dei numerosi atti di indagine compiuti prima dell’avviso di cui all’articolo 415 bis cpp ma che in esso non sono ricompresi.
16) inosservanza degli artt. 415 bis, 416 cpp, 2 L. 742/69, 2 lett. a) della convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, ratificata con L. 146/2006 e mancanza di motivazione. Già in primo grado, si era sostenuto che i reati per i quali si procede non possono essere qualificati fatti di criminalità organizzata, con la conseguenza che per essi non vige la deroga al principio della sospensione feriale dei termini e con l’ulteriore conseguenza che non poteva non essere dichiarata la nullità ai sensi dell’art. 416 cpp, della richiesta di rinvio a giudizio, poiché non preceduta da valido avviso ai sensi dell’art. 415 bis e di tutti gli atti conseguenti. Invero il termine di cui al predetto articolo, anziché ispirare 1115 settembre 2007, avrebbe dovuto cominciare a decorrere dal 16 settembre.
La Corte d’assise d’appello, travisando il senso delle pronunzie giurisprudenziali citate e ignorando l’evoluzione legislativa degli ultimi anni, ha affermato che il concetto di criminalità organizzata abbraccia anche la cosiddetta criminalità terroristica. Al proposito, basta riflettere sul fatto che il legislatore ha sentito l’esigenza, allo scopo di estendere taluni istituti -sostanziali e processuali- anche alla normativa antiterroristica, di operare specifici richiami e significative aggiunte alla normativa previdente, di talché se tali richiami e aggiunte non fossero stati effettuati, detta normativa avrebbe continuato ad essere in vigore solo per i cosiddetti reati di mafia. Ne consegue che, se è stato necessario, di volta in volta, affiancare alle norme confezionate per combattere la criminalità mafiosa “aggiunte normative”, utili per estendere al contrasto al terrorismo i predetti istituti, è di tutta evidenza che proprio tale duplicazione di produzione normativa sta a significare che, nel concetto di criminalità organizzata, non poteva, e non può, farsi rientrare il fenomeno della criminalità terroristica. D’altra parte, la convenzione di Palermo e i conseguenti protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’assemblea generale il 15 novembre 2000 e il 31 maggio 2001 e ratificati con L. 146/2000, definiscono il gruppo criminale organizzato come un aggregato umano composto da persone che agiscono al fine di commettere uno o più reati, diretti ad ottenere un vantaggio finanziario o un altro vantaggio materiale. Orbene, la finalità di ottenimento di vantaggi materiali o finanziari è esclusa dagli stessi capi di imputazione, che individuano esclusivamente la finalità di cui all’articolo uno L. 15/1980.
17) inosservanza degli artt. 525, 178, 179 cpp, 26 L. 287/1951, 25 Costituzione e 6 CEDU, con riferimento alla ordinanza con la quale in primo grado si provvide alla sostituzione di un giudice popolare. Secondo i giudici di merito, trattasi di provvedimento che non ha necessità di motivazione, in quanto il fatto stesso che si provveda alla sostituzione dimostra l’avvenuta realizzazione di una delle condizioni previste dalla legge. Tale motivazione è radicalmente illogica, in quanto pretende di trarre la prova della sussistenza delle condizioni necessarie per il corretto verificarsi del fatto, dall’essersi verificato il fatto; in realtà, il ricordato articolo 26 parifica i vari motivi di impedimento a quelli di astensione e di ricusazione. E’ noto che, per la giurisprudenza di legittimità, la sostituzione non è più ammessa dopo la chiusura del dibattimento. Ebbene, nel caso in esame, la sostituzione è avvenuta successivamente alla ultimazione della discussione e immediatamente prima della successiva udienza, fissata unicamente per le dichiarazioni di alcuni imputati. Dunque, al di là di ogni sterile formalismo, non si può che ipotizzare che, nel lasso di tempo intercorrente tra il termine della discussione e l’udienza fissata per l’ingresso in camera di consiglio, le opinioni dei giudici componenti il Collegio siano emerse. Ne consegue l’assoluta illegittimità della sostituzione. Invero, la ratio della norma è quella di evitare che il presidente, avendo compreso l’orientamento dei giudici popolari, possa provvedere a sostituire coloro che abbiano manifestato un’opinione dissonante dalla sua. Peraltro, emerge con assoluta evidenza, nel caso di specie, la natura pretestuosa della sostituzione, atteso che il giudice popolare lamentava un trauma contusivo alla caviglia, che certo non poteva costituire un impedimento assoluto allo svolgimento della funzione. Il provvedimento (“visto si esonera”) manifesta un’evidente mancanza di motivazione. Anche l’esonero del giudice supplente viene giustificato in maniera apodittica (“visto si esonera”), atteso che il predetto aveva semplicemente addotto motivi familiari.
18) inosservanza degli artt. 475, 178, 179 cpp, 24, 111 Costituzione, 6 convenzione europea sopra ricordata, con riferimento all’allontanamento dell’imputato G.. Nell’udienza del 23 gennaio 2009, il presidente disponeva l’allontanamento dall’aula di tutti gli imputati, delegando alla polizia penitenziaria la individuazione di coloro che effettivamente avevano tenuto una condotta incompatibile con l’udienza. Alla ripresa, i difensori rilevavano la illegittimità dell’espulsione indiscriminata e obiettavano che il potere di individuazione era stato arbitrariamente delegato dal presidente agli agenti di custodia. Conseguentemente, obiettavano circa la assenza degli imputati dall’aula e quindi circa l’assenza degli stessi in udienza, con conseguente motivo di nullità assoluta; veniva pertanto chiesta la revoca immediata dei provvedimento. Il presidente non accedeva alla richiesta e disponeva che il controesame del teste I. avvenisse in quelle condizioni; e in effetti il PM procedeva a detto controesame. Alla successiva ripresa, il caposcorta chiariva che G. non aveva tenuto alcuna condotta irriguardosa nei confronti della corte, non avendo aperto bocca. Conseguentemente, il presidente revocava l’ordinanza di allontanamento dall’aula nei confronti del predetto. Resta il fatto che parte dell’udienza è stata celebrata in assenza di quest’ imputato, immotivatamente e ingiustamente allontanato. Investita della questione, la Corte d’assise d’appello l’ha risolta con una motivazione apparente e del tutto tautologica, facendo riferimento ai poteri presidenziali e non esaminando in concreto la vicenda sottoposta alla sua attenzione. Viceversa, avrebbero dovuto essere singolarmente individuati gli imputati disturbatori e solo essi avrebbero dovuto essere allontanati dall’aula. D’altra parte, l’ordinanza in questione è stata, per quel che riguarda G., revocata e ciò sta a significare che se ne è riconosciuta la illegittimità. Non si è in presenza, dunque, di un provvedimento di riammissione, ma di revoca con tutte le inevitabili conseguenze del caso.
19) inosservanza degli artt. 191, 581, 585 cpp e mancanza di motivazione ovvero sua illogicità o contraddittorietà. Con i motivi di appello, era stato rappresentato il fatto che gran parte della sentenza di primo grado (pagg. 12-328) era stata redatta facendo uso di atti inutilizzabili, vale a dire le relazioni di servizio, adoperate dall’estensore per redigere la cosiddetta “cronologia dell’emergenza”. Al proposito la Corte di secondo grado ha respinto l’eccezione, qualificando l’atto d’appello come generico, sul punto, e apodittico e rilevando che la Corte di primo grado, con apposita ordinanza, aveva disposto l’esclusione delle annotazioni relative alle attività di indagine e alle informative di polizia giudiziaria. Ha sostenuto il giudice di secondo grado, inoltre, che il richiamo, operato dal difensore nel corso della discussione orale della questione sopra indicata aveva costituito la espressione di motivi nuovi, enunciati fuori termine.
È di tutta evidenza, viceversa, da un lato, che l’ordinanza della Corte d’assise ha natura programmatica, ma non garantisce che effettivamente quel giudice l’abbia osservata. Era dunque necessaria una verifica in concreto della fondatezza della doglianza articolata con i motivi di appello. Né può essere considerato rilevante il fatto che si sia svolta un’istruttoria dibattimentale ampia, atteso che ciò che rileva, alla luce dell’atto d’appello, è il controllo da esercitarsi sull’impianto della sentenza, per verificare se esso sia stato basato su prove non utilizzabili. Contraddittorio e illogico poi è l’assunto della corte di secondo grado in base al quale la illustrazione, nel corso della discussione orale, anche con esempi, delle ragioni poste alla base dell’atto d’impugnazione, costituirebbe motivo nuovo. In realtà la Corte d’assise d’appello evidenzia di non potere prendere in esame la corposa mole degli atti solo in sede di conclusioni orali. Ma, così argomentando, il giudice di secondo grado attesta di non avere esaminato -come avrebbe dovuto, alla luce dei motivi d’appello- in un momento precedente, gli atti a sua disposizione. Opinare diversamente vorrebbe dire togliere ogni senso ed ogni funzione alla discussione orale.
20) inosservanza dell’articolo 191 cpp con conseguente inutilizzabilità dei decreti del GIP, autorizzativi delle intercettazioni telefoniche e ambientali, conseguente contraddittorietà della motivazione. Secondo le doglianze della difesa, l’attività di intercettazione aveva avuto inizio sulla base di informazioni ricevute dal Sisde. Trattandosi di informazioni confidenziali, la cui fonte non è stata rivelata, esse non potevano essere utilizzate per avviare l’attività d intercettazione. Secondo i giudici del merito, la censura sarebbe infondata in quanto dette informazioni provenienti dal Sisde avrebbero costituito lo spunto per attività investigativo operata dalla Digos. Ma quale in concreto sia stata questa attività investigativo non è chiarito e non è dato sapere. Alla polizia giudiziaria era nota la pretesa esistenza del cosiddetto gruppo milanese, mentre l’ingresso nelle indagini di persone come S., B. e D. è conseguenza unicamente delle segnalazioni operate dal Sisde. Le attività di indagine che la corte indica come autonomamente svolte dalla Digos si riferiscono ad una pregressa perquisizione effettuata al D. a Parigi nel 2003, in esecuzione di rogatoria della Procura della Repubblica presso il tribunale di Napoli e a non meglio indicate pregresse attività di indagini riguardanti L., G. e G..
La Corte costituzionale, con la sentenza 410 dei 1998, ha chiarito che una prova illegittimamente raccolta non può essere posta a base di successiva attività di indagine. Il caso riguardava atti di indagine compiuti sulla base di fonti di prova coperte dal segreto di, Stato e, come tali, inutilizzabili. Nel caso in esame, è identico il rapporto tra fonti di intelligence, inutilizzabili, e i risultati delle indagini successive.
21) inesistenza e comunque inutilizzabilità delle trascrizioni delle intercettazioni ambientai per inosservanza degli artt. 221, 222 223 cpp, motivazione illogica e contraddittoria. Le trascrizioni sono avvenute attraverso l’ascolto di registrazioni non originarie, in quanto periti hanno avuto a disposizione supporti magnetici sui quali, ad opera di personale non ausiliario, era stato riversato il contenuto del supporto originario. Tanto premesso, incomprensibile l’argomentazione della Corte in base alla quale la duplicazione sarebbe stata un’operazione meramente meccanica, che non comporta alcuna attività di carattere valutativa su base tecnico-scientifica. Infatti, se è vero che la trascrizione non costituisce prova della conversazione, ma va considerata solo come un’operazione rappresentativa in forma grafica del contenuto di prove acquisite mediante la registrazione fonica, è altrettanto vero che la trascrizione peritale è, a sua volta, rappresentativa, appunto, in forma grafica del contenuta di supporti magnetici, che, nel caso in esame, sono cosa diversa da quello sul quale furono originariamente registrate le conversazioni intercettate. Si è così interrotto il rapporto, che dovrebbe essere inscindibile, della trascrizione con la registrazione originale e tale interruzione, per di più, è avvenuta ad opera di un soggetto sfornito di qualsivoglia investitura.
22) inosservanza dei principi in tema di prova con riferimento al contenuto delle intercettazioni, contraddittorietà e illogicità della motivazione. Era stata lamentata l’assoluta inattendibilità della trascrizione delle intercettazioni e i giudici del merito furono, a suo tempo, invitati ad ascoltare le stesse in udienza. In primo grado ciò non avvenne; in seconda grado la Corte ha argomentato sostenendo che l’ascolto non doveva necessariamente avvenire nel contraddittorio delle parti e che esso poteva anche avvenire in camera di consiglio; sta di fatto che non risulta che detto ascolto sia avvenuto in camera di consiglio. In particolare lo intercettazione del 9 dicembre 2006, per come evidenziato dalle difese, appare di difficile intelligenza, in considerazione della pessima qualità della registrazione. In essa, secondo la
tesi d’accusa, gli imputati si sarebbero accordati per uccidere il prof. I.. Con riferimento a tale intercettazione, la stessa Corte di assise d’appello ha dovuto ammettere che essa non può ritenersi concludente, appunto perché sostanzialmente non intelligibile. Per tale ragione, la Corte stessa ha ritenuto che il risultato della intercettazione in questione non raggiungesse i necessari requisiti di certezza; ad analoga conclusione è giunta anche con riferimento alle ulteriori citazioni relative all’I.. E’ dunque da chiedersi come abbia fatto la corte a soprassedere all’ascolto di tutte le intercettazioni, considerandole, nel resto, attendibili, vale a dire considerando fedele il complesso delle trascrizioni, senza averle in alcun modo verificate. Al proposito, la difesa aveva articolato alcuni esempi ed aveva anche chiesto che fosse chiarito come mai la conversazione tra B. e L., che si sarebbe svolta in località Raveo, con inizio alle 15,40 sia indicata in trascrizione come iniziata molte decine di minuti prima. In merito a ciò, la Corte non ha saputo argomentare se non che evidentemente si tratta di un errore materiale.
23) inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 40 e 185 cp, 74 cpp con conseguente mancanza o illogicità di motivazione. La Corte d’assise d’appello ha ritenuto che il delitto di cui all’articolo 270 bis abbia natura plurioffensiva, con la conseguenza che esso mette in pericolo, sia la vita e l’ incolumità delle vittime, sia la personalità dello Stato. Tuttavia non è dato sapere quale specifico riferimento sarebbe stato fatto al prof. I. e alla sua qualità di eventuale obiettivo di atti di violenza dell’associazione. Al massimo, emergerebbe l’intenzione offensiva da parte di un unico soggetto, ma tale intenzione non si è concretizzata neanche in un effettivo atto preparatorio (anche in considerazione di quanto precedentemente detto circa la non intelligibilità della intercettazione nella quale si fa parola dell’eventuale attentato in danno dell’I.). Dunque, da un lato, viene coinvolto in tale pretesa manifestazione di volontà anche chi non si è minimamente espresso in merito (venendo individuato come responsabile, solo in base alla sua partecipazione ai reato associativo), dall’altro, non si vede come I. possa essere stato considerato persona offesa, con tutte le conseguenze del caso.
24) errata applicazione dell’articolo 270 bis cp e conseguente mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità di motivazione. Secondo la Corte di appello, vi sarebbe esatta corrispondenza tra le fattispecie contestate e i fatti accertati. Così argomentando, il giudice di secondo grado ignora e trascura l’elaborazione giurisprudenziale, in base alla quale, per la sussistenza del reato di cui all’articolo 270 bis cp, occorre l’esistenza di un programma attuale, concreto, estrinsecantesi di atti di violenza per fini terroristici o di eversione e occorre una struttura organizzata, stabile, permanente, che presenti un grado di effettività tale da rendere possibile l’attuazione del programma eversivo-rivoluzionario. In altre parole, bisogna che l’aggregazione abbia caratteristiche tali da rappresentare un’insidia per il bene protetto. In ordine a tale problematica, la motivazione della sentenza che si impugna è gravemente carente, né può essere indicato, nello scritto del giudice di appello, un “luogo fisico” in cui si manifesti tale carenza, atteso che il vizio denunciato non può che emerge dalla complessiva lettura della sentenza. Secondo la sentenza impugnata, il gruppo avrebbe avuto una cassa unica e un’organizzazione che prevedeva che ogni cellula potesse fornire alle altre supporto logistico, di armi e di uomini; sarebbe stato individuato il vertice ideologico-operativo e sarebbero state individuate anche precise modalità esecutive per gestire gli incontri tra gli associati e per assicurare la segretezza del gruppo.
Orbene, per quanto riguarda le tre cellule (Torino, Milano, Padova), è da notare che a Torino risulta presente il solo imputato S.; quanto al coordinamento delle azioni materiali, non ne risulta alcuna che sia consona ad un programma eversivo. Invero, il tentativo di furto al bancomat e la pretesa esercitazione con armi in località Scolo Tron non possono costituire prova di procedure precise, mirate ad assicurare la segretezza del gruppo. Né valore sintomatico può avere il contatto con un gruppo politico in Svizzera, trattandosi di un’associazione comunista del tutto legale, fornita anche di sito web. Quanto al foglio clandestino, che avrebbe dovuto propagandare l’ideologia in stretta sinergia con la propaganda armata, la Corte non è in grado di indicare il compimento di alcuna azione di propaganda armata. Peraltro, è lo stesso giudice di secondo grado che premette che la semplice adesione ad un’ideologia, anche se eversiva, non può integrare un’ipotesi di reato, qualora non si traduca nella realizzazione di una struttura organizzativa o in concreti atti di violenza. Ebbene, gli atti concretamente posti a carico degli imputati consistono nella partecipazione a corsi di informatica in Svizzera e nelle pretese, “inchieste”, che poi, a ben vedere, altro non sono che l’annotazione di indirizzi, quasi sempre desunti dall’elenco del telefono. E’ evidente, quindi, che la Corte d’assise d’appello si pone in contrasto con le sue stesse premesse. D’altra parte, la denominazione Partito Comunista Politico Militare, come chiarito agli stessi imputati, più che un nome, rappresenta un obiettivo sostanziale da raggiungere. Nelle intercettazioni si afferma che occorre creare una sinergia tra “Aurora” e la propaganda armata. Dunque, se occorre creare tale sinergia, essa, evidentemente, ancora non sussiste. E, d’altra parte, in altre intercettazioni, i colloquianti si lamentano del fatto di essere fermi e di non avere avuto possibilità di far proseliti e così, in altre intercettazioni, emerge chiaramente che essi sono in fase di individuazione e definizione di obiettivi, mentre devono essere ancora risolti i problemi economici e logistici; emerge che, in sostanza, nessun atto concretamente esecutivo era stato ancora posto in essere. E di tutta evidenza che, per dimostrare la esistenza della ipotesi associativa contestata, è necessario ancorarsi a precisi dati di realtà, atteso che la sussistenza di una organizzazione -effettiva ed efficiente- non può che risultare dai fatti e non deve essere presunta in base alla mera ideologia dei soggetti che si aggregano. Peraltro, più che di progetti, sembra potersi parlare di mere ipotesi, atteso che nessun atto concretamente preparatorio è stato posto in essere. E appena il caso di ricordare, ad esempio, che la cosiddetta “inchiesta” sul dirigente della Breda, V. S., non si è minimamente sviluppata, atteso che, sulla base di una ricerca eseguita semplicemente sulla guida del telefono, lo stesso fu erroneamente individuato in un omonimo benzinaio con esercizio in viale Monza. Anche altre iniziative sono rimaste allo stato embrionale: così quella sul cosiddetto “sportello Biagi” o quella relativa al magazzino Alcor.
25) inosservanza dell’articolo 270 sexies cp e della decisione quadro del consiglio dell’Unione Europea 13. 6. 2002, della convenzione di New York per la repressione dei finanziamenti al terrorismo, resa esecutiva con L. 7/2003 e conseguente carenza dell’apparato motivazionale. La finalità di terrorismo è normativamente individuata nelle condotte che, per loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad una Organizzazione internazionale. E quindi necessaria la idoneità offensiva della condotta in questione perché la finalità di terrorismo si deve comunque concretizzare in un’oggettiva possibilità delle condotte a raggiungere lo scopo cui sono dirette, essendo in ogni caso necessario, per la sussistenza del delitto de quo, che sia messo in pericolo il bene protetto; né può ritenersi che detto requisito attenga solo alla finalità di terrorismo e non anche a quella di eversione dell’ordine democratico, poiché la figura criminosa in questione prevede quelle condotte destinate precipuamente allo scopo di destabilizzare e/o distruggere le strutture politiche fondamentali di un Paese. La Corte milanese, citando giurisprudenza della Corte di cassazione, si rifà alla convenzione di New York sopraindicata, per la quale -tuttavia- atto di terrorismo, come premesso, è quello diretto a causare la morte o gravi lesioni fisiche a civili o a qualsiasi altra persona, che non ha parte attiva in situazioni di conflitto armato, ovvero quello destinato a intimidire una popolazione e/o ad obbligare un governo o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere qualcosa. Ne consegue che qualsiasi partecipe, per essere ritenuto tale, deve dare un effettivo contributo all’azione della struttura criminale cui è accusato di appartenere. Di tutto ciò non è traccia nelle astratte argomentazioni del giudice di secondo grado.
26) inosservanza dell’articolo 2 L. 85/2006, che ha novellato l’articolo 270 cp, e mancanza di motivazione. Invero, l’articolo 270 sexies cp ha riunificato finalità di terrorismo e finalità di eversione, inserendo nella finalità di terrorismo quella di distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese. Ebbene, questa dizione è equivalente a quella che si legge nell’articolo 270, come novellato, vale a dire che essa descrive il sovvertimento violento degli ordinamenti economici e sociali costituiti nello Stato; si tratta di una operazione diretta a sopprimere -sempre con violenza- l’ordinamento politico-giuridico dello Stato. Ne consegue che, per quanto riguarda le condotte associative realizzate nel territorio dello Stato, non può che farsi riferimento all’articolo 270, mentre l’articolo 270 bis trova applicazione solo per le condotte associative mosse da finalità rivolte contro uno Stato estero o un’organizzazione internazionale. Ciò evidentemente anche in ragione dell’articolo 2 cp.
27) errata applicazione dell’articolo 306 cp e mancanza di motivazione. Sulla sussistenza dei requisiti per l’applicabilità dell’articolo 306 la Corte di appello non spende una sola parola, ma si limita a richiamare la giurisprudenza di legittimità, che pone in evidenza come, per la sua sussistenza, non sia necessaria la prova della esistenza di una gerarchia interna di tipo militare, burocraticamente concepita; il che sta comunque a significare, sia pure implicitamente, che si ravvisa la necessità di un qualche tipo di gerarchia. Viceversa, proprio sulla sussistenza dei rapporti gerarchici tra i pretesi membri del sodalizio, la Corte di merito nulla dice; in proposito, per altro, la giurisprudenza di legittimità pretende che i singoli appartenenti alla struttura criminosa abbiano concreta possibilità di utilizzazione delle armi. Le risultanze offerte nel corso del processo, viceversa, lasciano ipotizzare la possibilità di utilizzazione di armi, circoscritta solo ad alcuni, laddove anche la dottrina si è orientata nel senso che la distribuzione delle armi ai singoli componenti deve essere effettiva e non meramente potenziale. Per quanto poi riguarda l’indispensabile reato-fine del delitto di cui all’articolo 306 cp, il capo d’imputazione prevede esclusivamente quello di cui all’articolo 270 bis cp. In realtà, perché possa ritenersi sussistente il delitto di banda armata, deve sussistere in concreto la finalità di commissione del delitto di cui all’articolo 270 bis; e ciò al momento della formazione della banda. Deve quindi essere provato che l’associazione non è stata formata antecedentemente alla costituzione della banda e che, pertanto, essa può rappresentare il reato-fine, da realizzarsi con l’attività della banda stessa. Viceversa, nella sentenza impugnata, il reato di cui all’articolo 270 bis rappresenta il presupposto logico e cronologico di quello di cui all’articolo 306.
28) inosservanza dell’articolo 18 L. 152/1975 e mancanza di motivazione. E’ noto che perché sussista la fattispecie associativa, deve realizzarsi un quid pluris rispetto al concorso di persone nel reato. Orbene, l’articolo 18 sopraindicato, con riferimento agli atti preparatori, prevede l’applicazione di misure di prevenzione per le persone che operano in gruppi o isolatamente e che pongono in essere detti atti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello
Stato. Ne consegue che, se gli atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato con la commissione dei reati specificamente indicati, ovvero diretti alla commissione di reati con finalità di terrorismo, costituiscono elementi giustificativi dell’applicazione della misura di prevenzione, essi non possono costituire, al contempo, “il nocciolo” del delitto previsto dall’articolo 270 bis cp.
29) erronea applicazione dell’art. 1 L. 15/1980 e dell’art. 306 cp e mancanza di motivazione. Elemento costitutivo del delitto di banda armata è il fine di commettere il delitto di cui all’articolo 270 bis cp. Invero, in mancanza della finalità di commettere uno dei delitti indicati nell’articolo 302 cp, non può in alcun modo essere integrata la fattispecie dell’articolo 306. Pertanto, se il delitto in questione, così come contestato gli imputati, esiste solo in quanto si realizza il fine di commettere il delitto di cui all’articolo 270 bis, non può essere contestata anche l’aggravante di cui all’art. 1 della predetta legge.
30) inosservanza dell’art. 2 della convenzione di New York sopraindicata e inosservanza della decisione quadro 13/6/2002 con conseguente mancanza di motivazione. Anche per quel che riguarda le imputazioni specifiche, per le ragioni sopraddette, non poteva essere applicata l’aggravante prima indicata. Si è già detto come sia stato operata l’unificazione tra finalità di terrorismo e di eversione; orbene la decisione quadro procede alla elencazione dei reati terroristici, indicandone la finalizzazione, atteso che essi, per la loro natura o per il contesto, devono essere in grado di arrecare grave danno a un Paese o a un’organizzazione internazionale. Già questo esclude l’applicabilità dell’aggravante sopraindicata. La convenzione di New York fornisce una definizione di terrorismo nella sua globalità, anche mediante il rinvio a precedenti convenzioni. Essa contiene una clausola finale di chiusura che stabilisce, come anticipato, che costituisce atto terroristico qualsiasi altro atto destinato a cagionare morte o lesioni personali gravi ad un civile o a qualsiasi altra persona, che non partecipi attivamente alle ostilità. Ora, è evidente che nessuna delle condotte specifiche contestate agli imputati può rientrare nella previsione della citata convenzione. Sul punto, in ogni caso, la corte d’assise d’appello nulla scrive.
31) inosservanza dell’articolo 311 cp e mancanza di motivazione. La mancanza di idoneità offensiva e la inesistenza di un programma attuale e concreto avrebbero dovuto rendere applicabile l’attenuante sopraindicata. Viceversa, la Corte apoditticamente esclude che i fatti accertati siano di modesta entità. Così argomentando, peraltro, essa tiene conto solo dei fatti ma non, come richiede la norma, anche del danno e del pericolo, danno e pericolo che, di fatto, non si sono concretizzati.
32) inosservanza dell’articolo 62 bis cp e mancanza di motivazione. La Corte motiva in ordine alla inapplicabilità dell’attenuante di cui al numero 1 dell’art. 62 cp, nulla aggiungendo circa il riconoscimento di eventuali attenuanti generiche; sul punto, quindi, vi è carenza di motivazione. Vanno viceversa considerate a favore degli imputati la evidente assenza di interesse personale, la volontà di modificare in senso più giusto gli equilibri politico-economici, l’intenzione di istituire una società nella quale non vi sia più sfruttamento, il proposito di giungere ad una diversa organizzazione del lavoro, all’insegna, non della ricerca del profitto, ma della sicurezza di chi lavora. Erano tutti motivi da considerare in vista dell’eventuale riconoscimento delle attenuanti invocate, che avrebbero consentito al giudice un adeguato intervento correttivo, per mitigare l’asprezza della pena astrattamente prevista dalla legge.
33) violazione dell’articolo 133 cp e motivazione mancante, atteso che la Corte d’appello si è limitata ad una generica affermazione di adeguatezza della pena come determinata in primo grado senza nulla aggiungere e senza dare risposta alle censure formulate con l’atto d’appello.
34) Mancanza di motivazione in ordine alla affermata attendibilità di R. V.. Invero, gli stessi giudici del merito affermano che non possono negarsi alcune contraddizioni e una certa natura altalenante nelle dichiarazioni di questo collaboratore di giustizia. Tuttavia, fondano la credibilità del R. essenzialmente sul fatto che egli avrebbe consentito il ritrovamento delle armi nascoste in località Arzercavalli. Secondo la Corte, le sue dichiarazioni troverebbero riscontro nelle emergenze processuali. Così argomentando, tuttavia, la Corte d’appello mostra di ignorare l’esito del controesame condotto nei confronti di questo soggetto. E il caso di ricordare come il “pentito” abbia mantenuto nella sua casa una pistola Taurus e alcuni bossoli 9 x 21 e come abbia negato che essi fossero stati forniti da tale P., circostanza -viceversa- emersa in corso di causa. In realtà, i predetti bossoli sono compatibili anche col mitragliatore Uzi e ciò avrebbe potuto portare sostegno alla tesi della “gestione diretta” del nascondiglio delle armi da parte del R.. In realtà, R. non è credibile quando afferma di essere stato scelto come custode delle armi, perché ormai non più attivo nel centro sociale Gramigna, atteso che, viceversa, l’arrivo delle prime armi viene retrodatato almeno al 1997, epoca in cui il collaboratore era ancora attivo all’interno del predetto centro sociale. Ancor meno credibile è il R. quando afferma che i proiettili 7,65 trovati in suo possesso egli li avrebbe custoditi per ricordo. Invero, è risultato che lo stesso deteneva centinaia di proiettili calibro 38; ciò costituisce ulteriore prova del suo diretto utilizzo delle armi. Peraltro, è emerso incontrovertibilmente che R. ha appreso solo dall’ordinanza di custodia cautelare il fatto che i Kalashnikov, gli Uzi e la Skorpion furono trasferiti da Milano. Altre imprecisioni e contraddizioni si rinvengono nelle sue dichiarazioni, sia con riferimento alla ricerca di un luogo alternativo nel quale effettuare esercitazioni con le armi, sia circa l’orario nel quale avrebbe nuovamente nascosto le armi, dopo il loro utilizzo. Emerge allora con chiarezza l’interesse di R. a coprire sue responsabilità. Né può essere trascurata la doppiezza della sua natura: egli si è dichiarato obiettore di coscienza, ma poi custodisce armi di ogni tipo, nonché pubblicazioni sulle armi e abbigliamento militare; egli era dotato di metal-detector, evidentemente utilizzato per la ricerca di armi nascoste, in tempo di guerra, dai partigiani. R. si è contraddetto anche per quel che riguarda le modalità di apertura dei pannelli della sua auto Kangoo, operazione che sarebbe stata posta in essere per recuperare l’arma asseritamente nascosta nella vettura in vista del trasferimento. Ebbene, di tutto ciò non vi è traccia in motivazione; anche per quel che riguarda il ritrovamento delle armi, in realtà, la versione non è univoca, atteso che sono stati acquisite agli atti due annotazioni della Digos, dal contenuto contrastante. Nella seconda il collaboratore di giustizia non riveste alcun ruolo, né dà alcun contributo al ritrovamento delle stesse. Né la corte ha sciolto il “mistero” circa il ritrovamento della pistola Sigsauer, arma che figura nella banca dati delle armi sequestrate, sin dagli anni 80. I dirigenti della Digos non hanno saputo spiegare tale inquietante circostanza e la Corte d’assise d’appello altro non ha saputo fare che parlare genericamente di un errore, atteso che agli atti dell’epoca sarebbe mancato uno specifico verbale di sequestro dell’arma predetta. Sta di fatto, tuttavia, che essa comunque risulta inserita nella banca dati e dunque non si comprende come possa essere stata poi ritrovata tra le armi del nascondiglio del R. nel 2007.
Motivi specifici relativi a B., L., S., G.:
35) illogicità di motivazione e sua contraddittorietà con particolare riferimento alla responsabilità degli altri punti del capo E), correlato al capo F), violazione dei principi in tema di prova. Emerge dalla stessa sentenza che nel cosiddetto Parco dei Fontanili in Rho non fu trovata alcuna arma; né in quella località alcuno tra gli imputati è stato visto gestire depositi di armi. Ciò ad onta dei pedinamenti e della telecamera installata nel parco. Non si capisce dunque quale sia la logica dell’affermazione della responsabilità dei predetti imputati. Per quanto specificamente riguarda il G., e in particolare il suo ruolo di custode delle armi, non vi è alcuna prova del preteso trasporto di tale “materiale” a Padova e del coinvolgimento del G.. Si è già detto come R. abbia appreso quale fosse la località di provenienza delle armi solo in base alla lettura dell’ordinanza cautelare. Lo stesso deve dirsi per quel che riguarda l’esplosivo C4 e il fucile mitragliatore M 16, nonché la mitraglietta M 12. Il contenuto delle intercettazioni, per altro, dovrebbe costituire tema di prova e non una prova in sé del possesso delle armi.
Quanto al S., non si comprendere perché debba rispondere delle armi trovate in provincia di Milano e di Padova, così come non si capisce perché gli altri debbano rispondere delle armi trovate in provincia di Torino. Circa il preteso rapporto di S. con il Kalashnikov trovato nell’orto da lui coltivato, la Corte milanese propone una motivazione, in realtà, paradossale per quel che riguarda la presenza di un capello della moglie di questo imputato su uno degli involucri contenenti le armi. Invero, il giudice di appello sostiene che non vi è motivo di dubitare del fatto che gli operanti abbiano adoperato le normali precauzioni per evitare una involontaria contaminazione, ma tali precauzioni risultano essere state assunte con riferimento alle armi recuperate a Bovolenta, non per le armi addebitate direttamente al S. La Corte neanche ha chiarito per qual motivo queste armi siano giunte al laboratorio di Roma, non direttamente da Torino, ma “passando” per gli uffici della Digos di Padova. Infine, con riferimento alla considerazione, formulata dalla difesa, che, nel predetto fondo anche altri avrebbero potuto accedere, la Corte sostiene che non vi è alcun motivo perché qualcuno andasse a nascondere un’arma nell’orto dell’imputato. Ma questa evidentemente non è una motivazione degna di tal nome. Inoltre, questo imputato è stato visto sotterrare e dissotterrare documenti, ma mai nascondere armi e ciò nonostante il fatto che fosse stata installata una telecamera per controllare l’orto. Va infine notato che l’arma, secondo la tesi d’accusa, sarebbe stata consegnata a S. da S., ma, per tale fatto, quest’ultimo è stato assolto.
Motivi specifici relativi al M. e C.:
36) violazione dei principi in tema di prova, mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione in ordine all’affermazione di responsabilità per i reati associativi, inosservanza dell’articolo 42 cp, erronea applicazione dell’articolo 306 cp. E’ noto che la prova della partecipazione ad associazioni terroristiche non può essere desunta solo con riferimento all’adesione psicologica o ideologica al programma della predetta associazione; occorre, viceversa, la dimostrazione dell’effettivo inserimento nella struttura organizzata, attraverso condotte inequivocamente sintomatiche. Orbene, per quel che riguarda questi due imputati, la Corte non è in grado di indicare alcuna circostanza che comprovi l’effettivo inserimento non è in grado di indicare alcuna condotta concreta, relativa alle cosiddette attività preparatorie, rispetto all’esecuzione del programma o all’assunzione di un ruolo concreto nella struttura. Dal contesto delle intercettazioni, al più, si può evincere che i due imputati sarebbero stati collocati nell’ambito giovanile, con l’eventuale compito di fare proselitismo in ambito universitario. Ma, appunto, si tratta di attività meramente progettate, meglio ancora: immaginate, e non certamente poste in essere anche perché, dopo qualche mese dalla conversazione intercettata, gli imputati furono tratti in arresto. La sentenza si basa essenzialmente sul fatto della pretesa integrazione di questi due imputati nel gruppo milanese ma, a parte il fatto, che ciò che altri dichiarano nel corso del loro dialoghi non può essere posto a base di un’affermazione di condanna della persona che nominano in detti dialoghi, resta il fatto che, a carico di questi due imputati, non emergono neanche labili indizi, perché indizio deve avere quale presupposto un fatto e non un giudizio. Neanche sono emerse circostanze che facciano ritenere che i due abbiano posto in essere particolari accorgimenti per non essere pedinati o identificati dalle forze di polizia. Al proposito sono significative le dichiarazioni del teste D.C..
C. e M., dunque, non operavano in clandestinità. Quanto alla partecipazione del M. al corso di informatica che si svolse in Svizzera, la sua posizione appare analoga a quella dell’imputato S., assolto in primo grado. Vi è traccia di un primo viaggio in Svizzera, ma non vi è prova del fatto che questo imputato sia poi “sceso” alla stazione di Zurigo, né è chiarito perché M. (vale a dire, sulla base di quelle conoscenze pregresse) avrebbe dovuto partecipare a corsi di tal genere. Altro elemento valorizzato dalla sentenza di secondo grado è quello della partecipazione alle cosiddette “inchieste”, delle quali si è già fatto cenno, ma sta di fatto che gli indirizzi che M. avrebbe acquisito erano ben noti, come emerge dalle dichiarazioni dei teste S., nell’ambito della sinistra extraparlamentare milanese. D’altra parte, al centro sociale Gramigna, tali inchieste costituivano già prassi da parte dei frequentatori e degli attivisti .Trattasi, infatti, in genere, di indirizzi relativi a sedi o a persone orbitanti nell’area dell’estrema destra. Altrettanto labile poi è la individuazione del M. come uno dei dialoganti nel corso di una conversazione intercettata, individuazione avvenuta solo attraverso l’ascolto della sua voce e il preteso accento veneto; al proposito va considerato che molti degli imputati sono originari di quella regione. Né è significativo il fatto che lo stesso abbia telefonato da una cabina nei pressi dell’università Bocconi (e quindi, secondo la sentenza, nei pressi di un ritrovo di giovani aderenti a organizzazioni di destra), atteso che proprio nella biblioteca dell’Università egli lavorava.
Secondo la sentenza impugnata, peraltro, questi imputati avrebbero avuto un ruolo specifico vale a dire quello di svolgere propaganda in ambito universitario. Al proposito, però, nulla si legge in motivazione circa le testimonianze fornite da P., G. e M., i quali hanno descritto la loro normale attività di studenti politicamente impegnati. Quanto al ritrovamento di alcuni articoli pubblicati sul giornale “Aurora” nell’abitazione di M., non può certo parlarsi di elementi probanti di un inserimento nell’associazione. In sintesi, manca la indicazione di una qualsiasi condotta sintomatica dell’ intraneità di questi soggetti alla struttura criminosa ipotizzata; nulla peraltro viene detto circa l’elemento soggettivo.
Per quanto riguarda le armi, è fuori discussione che questi due imputati non hanno mai avuto nulla a che fare con esse, dal momento che non risulta in alcun modo che essi neanche ne sospettassero l’esistenza. Quanto al fatto che essi avrebbero svolto il ruolo di agenti di collegamento tra la cellula milanese e quella padovana, si tratta di una mera asserzione, sfornita di qualsiasi riscontro probatorio, atteso che in motivazione non se ne indica alcuno.
Motivi specifici relativi al solo G.:
37) mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione, in ordine all’affermazione di responsabilità per reati associativi e inosservanza dell’articolo 42 cp. La corte milanese riconosce che questo imputato ha avuto contatti solo con L. e, tuttavia, gli addebita la partecipazione al reato associativo. A ben vedere, le conversazioni tra G. e S. attestano, senz’ombra di dubbio, la estraneità del primo alla struttura criminoso di cui al capo A). Lo stesso L., in occasione dell’organizzazione della pretesa esercitazione con le armi in località Scolo Tron, si riferisce alla G. come “amico” (“che ha procurata la roba”) e non certo come associato.
38) motivazione contraddittoria e mancante in ordine alla responsabilità, in relazione al punto 6 del capo E) ed al correlato capo F); inosservanza dell’articolo 530 n. 2 cpp. La sentenza, come si è detto, attribuisce piena credibilità al R., il quale, però, non riconosce in fotografia il G.. Tuttavia, proprio R., secondo la Corte territoriale, sarebbe colui che ha portato le armi per il tentativo di furto al bancomat e per le esercitazioni a fuoco di cui sopra. Né la sentenza chiarisce perché proprio quando parla di G. questo collaboratore di giustizia non sarebbe attendibile. Peraltro, dalle dichiarazioni degli appartenenti alla Digos – B. e C.- si evince che essi, in occasione della c.d. “prova delle armi”, non furono in grado di individuare, a bordo della Ford Ka, altre persone, oltre al guidatore e dunque non individuarono affatto il G. e altri. Ne consegue che costui avrebbe dovuto essere assolto, quantomeno ai sensi del comma secondo dell’art. 530 cpp. Meno che mai, poi, viene chiarito perché questo imputato dovrebbe essere chiamato a rispondere della detenzione di armi, che si trovano in luogo diverso da quello nel quale egli abitualmente dimorava, essendo custodite da R. in località Arzercavalli.
39) motivazione mancante in ordine all’affermazione della responsabilità del G. in ordine al tentativo di furto al bancomat e ai presupposti reati di porto, detenzione ricettazione di armi impiegate. Questo ricorrente sarebbe stato individuato nel corso di un pregresso sopralluogo in data 17 dicembre 2006 e in occasione del successivo tentativo di furto. In realtà, tra i vari testi che lo nominano solo uno, B., dichiara di averlo conosciuto in precedenza. Gli altri ammettono di non averlo mai visto, ma sostengono di aver poi ricollegato la fisionomia del predetto alle immagini fotografiche mostrate loro successivamente. Sulla base di tali emergenze probatorie, non si vede come la corte possa aver affermato che il G. sia stato riconosciuto con certezza. Quanto al reperimento di tracce del dna di questo imputato su di un giubbotto antiproiettile, asseritamente utilizzato durante il tentativo di furto, la Corte cita le dichiarazioni del consulente tecnico La Rosa, ma la citazione è incompleta, atteso che detto consulente ebbe a chiarire che solamente le tracce di saliva, sangue e sperma sono rilevanti in campo forense. Tanto premesso, non trattandosi di tracce riconoscibili dei predetti liquidi, non si vede come la Corte abbia potuto motivare assumendo la sicura riconducibilità al G. della traccia biologica riscontrata sul giubbotto.
40) illogicità e mancanza di motivazione a proposito del diniego del riconoscimento del vincolo della continuazione tra i delitti oggetto del procedimento in corso e quelli di cui alle precedenti condanne. La Corte d’assise d’appello traccia un profilo dell’imputato come emerge dalle parole del teste S., appartenente alla Digos; un profilo relativo ad un soggetto coerente nel suo progetto attuale, rispetto a quello in precedenza posto in essere. E tuttavia i giudici di appello negano che possa riconoscersi la continuazione, anche in considerazione del fatto che, nelle conclusioni orali, il difensore avrebbe abbandonato la richiesta formulata con l’atto di appello. Così operando, però, la Corte non distingue tra motivi principali e subordinati e principalmente entra in contraddizione con se stessa, per quel che riguarda la descrizione dei precedenti e della vita anteatta del G.. Invero non si vede come non sia stata riconosciuta l’ identità del disegno politico, la medesimezza del progetto ideale e la compatibilità delle azioni poste in essere per portarlo ad esecuzione.
G. B., in aggiunta al ricorso presentato al difensore, ha personalmente redatto ulteriori motivi evidenziando che:
41) innanzitutto, l’origine della presunta associazione sovversiva, costituita in banda armata, appare temporalmente indefinita, atteso che l’opuscolo “Aurora” sembra essere stato pubblicato nel 2002. In realtà si fa riferimento a un documento il febbraio 2001, ma egli è stato scarcerato nel maggio 2001. Fa poi presente che gli esplosivi non sono mai stati ritrovati, mentre, per alcune armi, risulta accerta la provenienza da precedenti gruppi eversivi; per la appartenenza a tali gruppi egli ha riportato precedenti condanne e, dunque, non vi è motivo di non ritenere la continuazione tra le dette condanne e i fatti oggetto del presente procedimento; l’imputato si riconosce anche autore di un documento, nel quale ammette la sua precedente adesione alla pratica politica rivoluzionaria delle brigate rosse, motivo in più per ritenere i fatti per i quali si procede una mera prosecuzione della precedente attività politica.
Ulteriore ricorso nell’interesse di C. (avv.ti B. e P.), con esso si deduce:
42) violazione degli articoli 8 e 16 cpp in relazione al rigetto dell’eccezione di incompetenza per territorio. Detta eccezione fu ritualmente sollevata in sede di udienza preliminare e riproposta, ai sensi dell’articolo 491 del codice di rito, innanzi alla Corte d’assise, in primo grado. Detta eccezione è stata riproposta con i motivi d’appello. La Corte di assise d’appello l’ha rigettata sostenendo che, essendo il reato più grave quello di cui all’articolo 270 bis cp, detto reato è contestato come commesso negli anni 2003-2004 in Milano (capo A). Tanto premesso, la Corte ha ritenuto di non poter “allargare” la contestazione agli anni 2001-2002, come richiesto dalla difesa, poiché ciò avrebbe comportato mutamento dell’accusa. Sta di fatto, tuttavia, che, al capo C), è contestato a T. A. il concorso esterno nei reati di cui agli articoli 306-270 bis cp, per aver fornito un apporto all’associazione, concretizzatosi, tra l’altro, in una condotta, tenuta tra il 2001 e il 2002, condotta consistente nell’aver trasferito armi da un nascondiglio sito in Padova fino all’abitazione del R..
Ebbene è evidente che si tratta di un reato di pari gravità di quello di cui al capo A), reato commesso antecedentemente. Pertanto, ai sensi del primo comma dell’articolo 16 cpp, la competenza per territorio per procedimenti connessi, rispetto ai quali più giudici sono ugualmente competenti per materia, va individuata in capo al giudice competente -in caso di reati di pari gravità- con riferimento al primo (in senso cronologico) reato. La competenza dunque spettava all’autorità giudiziaria di Padova. E pur vero che il reato di cui al capo C) è contestato “fino all’anno 2007” (senza indicazione, dunque, della data di inizio), ma l’episodio sopra illustrato viene collocato, come premesso, tra il 2001 e il 2002. Dunque, poiché si deve far riferimento alla contestazione come in concreto operata, non è dubbio che il reato contestato al T. è stato commesso antecedentemente a quello di cui al capo A) e che, pertanto, esso è atto a radicare la competenza. Evidentemente, poiché la questione sulla competenza territoriale può essere proposta solamente dopo il compimento della formalità di apertura del dibattimento, essa non può che fare riferimento al capo di imputazione come formulato dal PM.
43) violazione degli artt. 597 e 649 cpp, nonché contraddittorietà e manifesta illogicità di motivazione. Alla C. è contestato il ruolo di partecipe nell’associazione di cui al capo A); le viene attribuita la funzione di garantire le comunicazioni tra i vertici della cellula milanese e di quella padovana. Per tale ragione, ella si sarebbe trasferita appositamente a Milano, vale a dire per iscriversi all’università, anche allo scopo di avviare un’opera di proselitismo in quell’ambiente, nel quale avrebbe dovuto diffondere il foglio di propaganda “Aurora”. Su tali contestazioni, in primo grado, la difesa ha esercitato il proprio diritto alla prova. Il giudice di primo grado, nel condannare l’imputata, ha fatto riferimento soltanto all’opera di proselitismo che costei avrebbe posto in essere tra gli studenti universitari. Delle ulteriori condotte non è più traccia nella sentenza di primo grado. Deve quindi ritenersi che la contestazione sia stata riformulata e ridotta e che sulle condotte non più addebitate alla C. si sia formato il giudicato; il giudicato invero deve essere considerato come un’entità dinamica e non statica; esso, per la giurisprudenza di legittimità, si costituisce in relazione a tutte le disposizioni non annullate, né a queste inscindibilmente connesse. AI proposito, viene in rilievo la differenza tra capo e punto della decisione, atteso che al primo corrispondono una pluralità di punti, oggetto di deliberazione, ognuno dei quali segna un passaggio obbligato per la completa definizione di ciascuna imputazione. Ebbene, sui singoli punti tralasciati dalla sentenza di primo grado si è evidentemente formato giudicato in senso favorevole alla ricorrente; vale a dire che il giudice di primo grado ha escluso che sussistesse per C. prova delle condotte non rientranti nell’opera di proselitismo in ambienti universitario. La Corte d’assise d’appello, viceversa, ha addebitato alla C. anche le condotte non rientranti nella predetta opera di proselitismo e ciò ha comportato la violazione degli articoli sopra indicati.
Per quanto specificamente riguarda il preteso ruolo di trait de union della ricorrente, va detto che proprio attraverso l’esame delle intercettazioni, è possibile ricostruire puntualmente i movimenti dell’imputata nel periodo antecedente all’arresto. Ebbene, effettivamente ella risulta essersi spostata da Padova a Milano, ma, più di una volta, per partecipare a manifestazioni di piazza, una seconda, volta per aiutare il L. nel trasloco. Altri spostamenti avvengono per motivi vari (partecipazione a manifestazioni in altre città, vacanze estive, visite ad amici ammalati, ecc.). Solo l’intercettazione del 2 novembre 2006 testimonia il trasferimento della C. a Milano per motivi di lavoro. La funzione di agente di collegamento che viene attribuita alla ricorrente è per altro smentita, se solo si fa riferimento alla frequenza degli incontri diretti tra il padovano B. e il milanese L.. è stato provato che, tra settembre 2006 e gennaio 2007, essi si incontrano direttamente ben sedici volte, mentre nello stesso periodo tra C. e B. si contano cinque incontri. Non si vede, dunque, perché l’imputata avrebbe dovuto svolgere questo ruolo, visto che i due pretesi capi delle due cosiddette cellule avevano la possibilità di incontrarsi e di fatto si incontravano senza mediazione alcuna. Va inoltre rilevato che, dal momento del suo trasferimento a Milano, non risultano incontri tra l’imputata e il L.. Ciò basta per riconoscere il vizio di illogicità dell’assunto fatto proprio dai giudici del merito; a ciò va aggiunto che le persone sentite come testi hanno escluso categoricamente qualsiasi ruolo di proselitismo o propaganda della C. all’interno dell’università.
Come premesso, alla stessa viene anche addebitata (in secondo grado) la condotta relativa alle inchieste su potenziali obiettivi. Di ciò sarebbe traccia nelle intercettazioni del 31 agosto, dei 1 ottobre, del 19 ottobre 2006. Al proposito, va innanzitutto chiarito che la disciplina delle intercettazioni non si sottrae al dettato dell’articolo 192 cpp, di talché le intercettazioni relative a conversazioni intercorse tra altre persone non possono che avere valenza indiziaria. Ebbene, dall’esame delle predette conversazioni intercettate [che la ricorrente trascrive nel suo ricorso], altro non si può evincere se non che i dialoganti (tra i quali non figura mai C.) manifestano l’intenzione di affidare a costei determinati compiti. Si tratta, quindi, di progetti che la riguardano e in relazione ai quali non si sa se l’imputata avrebbe prestato la sua adesione; si tratta cioè di colloqui nel corso dei quali altre persone ipotizzano di affidarle determinati compiti; si tratta di valutazioni e giudizi che terze persone formulano su questa imputata. Ne consegue che, nel momento storico in cui avvengono le conversazioni in questione, la ricorrente non può certamente essere qualificata come partecipe di un’associazione. Né va trascurato che, al momento dell’arresto della C., fu operato sequestro in suo danno. Tra le altre cose, furono sequestrati tre filmati: il primo relativo ad un pranzo nel ristorante gestito dal padre del M., il secondo relativo ad una sede di Forza Nuova, in Padova (diversa da quella fatta oggetto di attentato), il terzo relativo ad un luogo di incontro in Milano, asseritamente frequentato da elementi di destra. Ebbene è evidente che, se detti filmati rappresentano il risultato di altrettante “inchieste”, esse non sono certamente attribuibili a C.. Inoltre, va evidenziato che sono stati trascurati dai giudicanti elementi che avrebbero dovuto essere valutati in favore dell’imputata. La stessa, invero, risulta esclusa da tutti i momenti significativi dell’attività del presunto sodalizio, la stessa non ha mai utilizzato tecniche di depistaggio, la stessa nulla sa delle armi, né dei documenti falsi, ella non ha preso parte all’esercitazione di tiro in località Scolo Tran, non ha preso parte al tentativo di furto in Albignasego (bancomat), non ha dato contributo al rientro in Italia del D.. Infine, non può essere privo di rilievo il fatto che il collaboratore di giustizia R. nulla dica della C..
Ulteriore ricorso nell’interesse di L. (avv. G.): con esso si deduce:
44) violazione del combinato disposto degli articoli 525 cpp e 26 L. 287/51 in relazione agli articoli 178,179 cpp, atteso che in primo grado il presidente aveva esonerato dall’incarico di giudice popolare ben tre dei componenti della corte.
Al proposito vengono dedotte censure identiche a quelle sopra sintetizzate sub 4).
45) violazione di legge in ordine alla mancata declaratoria di nullità dell’ordinanza del giudice di primo grado del 22 gennaio 2009, per violazione dell’articolo 178 c) cpp e dell’articolo 6 comma terzo lettera b) CEDU.
Al proposito vengono dedotte censure identiche a quelle sopra sintetizzate sub 5).
46) violazione degli articoli 470 e 178 lettera c) cpp e dell’articolo 6 CEDU, nonché dell’articolo 111 della Costituzione, in relazione alla mancata declaratoria di nullità dell’ordinanza della corte d’assise del 18 luglio 2008, con la quale è stato consentito alla teste Tonda Federica di deporre e di essere sottoposta a controesame, essendo visibile solo per la corte.
Al proposito vengono dedotte censure identiche a quelle sopra sintetizzate sub 6).
47) violazione dell’art. 9, sesto e settimo comma, L. 146/2006; mancata declaratoria della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale.
La questione è stata tempestivamente sollevata dinanzi ai giudici del merito, che tuttavia ne hanno ritenuto la manifesta infondatezza, con motivazione incongruente e tautologica. La L. 146/06 ratifica la convenzione Onu in tema di contrasto alla criminalità organizzata (approvata dall’assemblea generale in data 15 novembre 2000). Nell’ordinamento italiano, in applicazione di tale impegno internazionale, è stata introdotta, con l’articolo 9 della predetta legge, la possibilità della cosiddetta consegna controllata e, quando opportuno, l’ impiego di altre tecniche di investigazione “particolari”, quali la sorveglianza elettronica o di altro tipo e le operazioni cc.dd. “sotto copertura”; ciò allo scopo, appunto, di combattere efficacemente la criminalità organizzata. In particolare, la disciplina italiana prevede ipotesi in cui la polizia giudiziaria è facultata ad omettere o ritardare atti di propria competenza, dandone avviso, anche orale, al PM. II PM, a sua volta, ha facoltà di ritardare l’esecuzione di provvedimenti applicativi di misura cautelare, ovvero di ritardare il fermo, l’ordine di esecuzione di pene detentive o il sequestro. Egli deve, però, darne tempestiva notizia al Procuratore generale. Tali condotte sono autorizzate quando ricorra la necessità di acquisire rilevanti elementi probatori, ovvero di individuare o catturare i responsabili. Ebbene, è da rilevare che nessun termine finale è previsto per tali condotte omissive, vale a dire che la polizia giudiziaria, col consenso del PM, e quest’ultimo, dandone avviso procuratore generale, possono, ad libitum e sine die, procrastinare l’esecuzione dei provvedimenti che loro competono.
Nel presente procedimento tale normativa è stata applicata in due occasioni. Una prima volta, la polizia giudiziaria è stata autorizzata dal PM (evidentemente oralmente, perché non se ne trova traccia in atti) a ritardare l’arresto degli indagati e il sequestro delle armi in occasione del collaudo delle stesse, avvenuto in località Scolo Tron; in tale occasione furono sequestrati solo alcuni bossoli, dopo la fine della sparatoria e l’allontanamento dei protagonisti dal locus delicti, una seconda volta, il PM ha consentito che coloro che avevano tentato di svaligiare il bancomat in Albignasego fossero messi in fuga dall’attivazione dell’allarme, senza essere tratti in arresto dalle forze di polizia, che pure, copertamente, erano appostate sul luogo.
Orbene, in merito a tale modus procedendi, si pongono alcune questioni formali e sostanziali. Innanzitutto, poiché gli inquirenti erano perfettamente al corrente, tanto del fatto che sarebbero state impiegate armi da guerra (episodio Scolo Tron), quanto del fatto che persone, dotate di armi da guerra, avrebbero tentato di svaligiare un bancomat, non si comprende quali altri rilevanti elementi probatori avrebbero potuto essere raccolti grazie all’omissione di una condotta imposta per legge, vale a dire l’arresto in flagranza di chi tali reati commetteva. Invero, non si comprende perché gli operanti si siano assunti la responsabilità di lasciare ad un gruppo di persone, per un tempo imprecisato (e quantomeno dal 19 novembre al 12 febbraio), la disponibilità di armi da guerra, a meno che non ritenessero che costoro erano persone di scarsa pericolosità; meno che mai si comprende perché sia stato consentito agli imputati di portarsi in un centro abitato e di tentare -essendo muniti di armi micidiali- di compiere un furto. Il grave reato di detenzione e porto in luogo pubblico di armi da guerra era, come premesso, già stato accertato (gli inquirenti sapevano che le armi sarebbero state portate e, in un caso, anche utilizzate per una prova), né si può ritenere che fosse legittimo ritardare l’intervento delle forze dell’ordine per accertare eventuali reati meno gravi. La questione dunque è duplice, atteso che, da un lato, vi è stata un’applicazione illegittima delle norme, dall’altro, sono state applicate norme di dubbia legittimità costituzionale, proprio per la mancanza di un termine finale al ritardo nel compimento di atti dovuti. La norma in questione (art. 9 L. 146/06), invero, si pone in contrasto con il principio del contraddittorio nella formazione della prova, con il principio di obbligatoria motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, e con la possibilità di tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione (artt. 111, 112,113 Costituzione).
48) violazione di legge per mancata declaratoria di incompetenza territoriale e dunque erronea applicazione degli articoli 8 e 9 cpp. Al proposito vengono dedotte censure identiche a quelle sopra sintetizzate sub 7).
49) insussistenza dei reati associativi ritenuti in sentenza, sia nel merito, che in ordine alla qualifica di capo, organizzatore, costitutore, promotore.
I giudici del merito non hanno considerato che, nel caso di specie, difettava la caratteristica fondamentale del reato di banda armata, vale a dire la dotazione di armi adeguata allo scopo e il rapporto di proporzionalità alla destinazione prefissata, sia per assicurare la vita stessa della banda, che per rendere attuabile il perseguimento dei fini. Secondo quanto si legge in sentenza, gli imputati avrebbero costituito una banda armata per realizzare gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 270 bis cp. Tale norma, tuttavia, è dotata di una certa individualità e di precise caratteristiche, le quali non possono assurgere al ruolo di mero scopo di un altro reato; invero ciò che è “più grande” non può essere contenuto in ciò che è “più piccolo”, atteso che il contenente deve essere naturalmente più ampio del contenuto.
L., inoltre, è stato ritenuto capo della banda, vale a dire gli sono state attribuite le caratteristiche di una figura carismatica, in un’accezione verticistica, inconciliabile con l’ideologia egualitaria che certamente caratterizza l’universo di valori degli imputati. Il capo è colui che esercita sui suoi sottoposti una supremazia indiscussa, è colui cui compete la direzione della struttura umana che da lui dipende, è colui che, con autorità, regola l’attività sul piano operativo del sodalizio strutturato gerarchicamente in una logica piramidale; tale non può certamente essere il ruolo del ricorrente.
50) mancata declaratoria della inammissibilità della costituzione di parte civile di I.P.. Al proposito vengono dedotte censure identiche a quelle sopra sintetizzate sub 8).
51) Violazione di legge in ordine all’entità del risarcimento riconosciuto le parti civili. Al proposito vengono dedotte censure identiche a quelle sopra sintetizzate sub 9). Il difensore di G. (avv. C.) deduce:
52) mancanza e/o contraddittorietà, ovvero illogicità della motivazione. La sentenza d’appello dà atto delle censure proposte dal difensore dell’imputato, ma non fornisce adeguata risposta ad esse. Il giudice di secondo grado si limita a ripetere che G. aveva compiti essenzialmente tecnici, quale la duplicazione di telecomandi per eseguire furti di autovetture, ovvero la valutazione della efficacia di una lancia termica per poter svaligiare i bancomat; veniva anche evidenziato che l’ imputato avrebbe messo a disposizione un suo appartamento per ospitare C. e M., che lo stesso avrebbe partecipato a un sopralluogo nei confronti di un esponente neofascista, che egli avrebbe collaborato con L. e G. per occultare armi nel Parco dei Fontanili. Infine la sentenza di appello ricorda che G. è stato trovato in possesso di materiale relativo al numero in corso di pubblicazione del giornale clandestino Aurora e che lo stesso ha sottoscritto un documento ideologico facente capo all’area politica del quale si assume faccia parte. Si tratta, in realtà, di affermazioni apodittiche e/o prive di riferimento probatorio. Quanto al cosiddetto ruolo tecnico, non si comprende quale finalità avrebbe avuto il ricorrente, atteso che agli imputati non è contestato il furto di alcuna autovettura; lo stesso deve dirsi per quel che riguarda la lancia termica, dal momento che non risulta essere stato utilizzato alcun attrezzo di tal tipo nel tentativo di furto al bancomat in Albignasego; aver messo a disposizione un appartamento, poi, è un fatto di per sé, neutro, e lo sarebbe anche se ciò l’imputato avesse fatto per favorire persone del suo stesso orientamento politico; la partecipazione a sopralluoghi e la schedatura di un neofascista è attività indimostrata e, comunque, non attinente all’ imputazione; lo partecipazione del G. all’attività di occultamento delle armi nel Parco dei Fontanili, d’altra parte, non è dimostrata; il rinvenimento del foglio “Aurora” non può essere, di per sé solo, considerato elemento probante della partecipazione del G. all’associazione sovversiva.
Invero, la sentenza impugnata sembra confondere atteggiamenti di tipo “antagonista” con condotte di natura eversiva, terroristica e rivoluzionaria, ma è pur vero che il confine tra sovversione sociale e cambiamento profondo dell’organizzazione sociale è difficile da individuare. La sentenza gravata, tuttavia, si limita a registrare l’apparenza di un fatto e non scende nell’analisi profonda delle modalità della sua manifestazione.
Ora è da ricordare che il legislatore ha graduato, in maniera chiara, le diverse fattispecie incriminanti la condotta capace di porre in pericolo la personalità dello Stato. Ebbene, i giudici del merito non hanno minimamente approfondito tale indagine ed hanno sommariamente attribuito al G. finalità, atteggiamenti, e condotte che lo stesso non ha mai tenuto.
53) inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 270 bis cp e dell’art. 306 cp, anche in relazione agli artt. 304, 305 cp.
Non è dubbio che le condotte addebitate agli imputati siano espressive di un pensiero e di un’azione connotate fortemente da una ben precisa ideologia. La sentenza della Corte d’assise d’appello, però, non ha ritenuto di affrontare la questione della corretta qualificazione di tali condotte e si è adagiata sulla indicazione normativa fornita dall’organo dell’accusa. è noto che il concetto di associazione presuppone una struttura gerarchica, per sua natura piramidale, una struttura che, per quanto semplificata, deve poter essere individuabile e descrivibile. Deve essere presente la figura del capo o del promotore, il quale deve essere gravato di tipici compiti di direzione, comando e disciplina e delle specifiche funzioni, deve esserci un organizzatore, devono essere, quindi, presenti semplici adepti, esecutori degli ordini; è necessario un patrimonio comune di mezzi, destinato al perseguimento dello scopo associativo e detto scopo deve essere chiaro e conosciuto, nonché condiviso, da tutti gli appartenenti, Quando tali elementi costitutivi non si ravvisino, l’agire comune di più persone non può che essere ricondotto allo schema dell’articolo 110 cp.
Per altro, l’obiettivo di realizzare un programma politico in contrasto con l’ordine costituito e lo scopo di instaurare una diversa organizzazione sociale, non sono di per sé illeciti, ma possono divenire tali, se illeciti sono gli strumenti che si adoperano. A questo proposito, è utile tracciare la differenza tra la norma incriminatrice di cui all’articolo 270 e quella di cui all’articolo 270 bis cp. Esse appaiono simili, ma -in realtà- sono significativamente diverse. La seconda, introdotta nell’ottobre 2001, ha quale finalità tipica il contrasto del terrorismo internazionale. L’articolo 270, viceversa, è applicabile a comportamenti sovversivi, posti in essere nel territorio italiano e volti a sopprimere violentemente gli ordinamenti politici, giuridici, economici, sociali, quali che essi siano. L’articolo 270 bis, insomma, non solo non soffre limiti geografici, ma qualifica la natura della violenza e l’obiettivo dell’eversione, richiedendo che l’azione sia finalizzata al terrorismo, ovvero all’eversione dell’ordine democratico. Ebbene, l’ordine democratico non è la stessa cosa dell’ordine costituito. Dunque: la violenza di cui all’articolo 270 è quella priva di fini terroristici, mentre la violenza di cui all’articolo 270 bis è solo quella che si connota per la finalità di terrorizzare indiscriminatamente i consociati. Il bene protetto dalla prima norma è l’ordinamento (politico, economico, sociale) esistente, vale a dire l’ordine costituito; il bene protetto dalla seconda norma è l’ordinamento degli Stati esteri, ovvero degli organi internazionali, ovvero, ancora l’ordine costituzionale democratico. Per tutelare tali assetti politico-sociali, il legislatore come si diceva, ha previsto una serie di figure criminose, graduate a seconda dell’intensità del vincolo che unisce i diversi soggetti operanti. Si va dalla cospirazione politica mediante accordo, di cui all’articolo 304 cp, alla cospirazione politica mediante associazione, di cui all’articolo 305 cp, fino alla fattispecie di cui all’articolo 306 cp (banda armata). Dunque, Ia volontà eversiva può esprimersi o attraverso il mero accordo cospiratorio, o attraverso Ia creazione di una struttura associativa, ovvero ancora attraverso la costituzione di una vera e propria banda armata. Tale ultima ipotesi criminosa rappresenta -ovviamente- la più strutturata tra le forme di collaborazione per finalità eversive. Essa necessita di alcuni requisiti tipici quali un contesto associativo organizzato in modo gerarchico, con distinzione di ruoli e funzioni, la disponibilità di armi in quantità e qualità adeguate ai fini che si propone la banda e -ovviamente- un comune fine politico. Per quanto specificamente riguarda le armi, esse dovranno essere idonee a spargere il terrore tra i consociati. Dovrà poi essere chiaro che ciascuno dei partecipi della banda dovrà essere in grado di armarsi e di disporre all’occorrenza di armi, il che non significa che sempre e comunque tutti dovranno essere armati, ma che, appunto, quando necessario, ciascun appartenente alla banda possa far conto su armi. In ciò la fattispecie di cui all’articolo 306 si differenzia da quella di cui all’articolo 284 cp (insurrezione armata contro i poteri dello Stato), atteso che tale seconda figura criminoso sussiste anche quando le armi sono tenute in luogo di deposito e sono dunque, per così dire, accessibili in maniera indiretta.
Tanto premesso, va ancora ricordato che il reato di cui all’articolo 270 bis cp è reato di pericolo indiretto, il che consente anche la punizione degli atti meramente preparatori, vale a dire di quelle condotte che, solitamente, devono ritenersi penalmente irrilevanti.
Nel caso in esame, l’elemento aggregante e, al contempo, la prova dell’esistenza in vita della supposta organizzazione terroristica è stato individuato nel foglio clandestino “Aurora”, di chiaro orientamento comunista e sovversivo. Ma detta pubblicazione altro non prova se non che gli imputati hanno condiviso, negli anni, un progetto politico, volto a realizzare il radicale cambiamento dell’ordinamento giuridico e della struttura sociale esistenti, vale a dire il modello capitalistico, per costruire un modello di società comunista. è evidente, allora, che ci si trova di fronte, a tutto voler concedere, all’ipotesi di cui all’articolo 304 cp, ossia cospirazione politica mediante accordo. La problematica non é stata minimamente trattata dalla sentenza contro la quale si propone ricorso. I giudici del merito, infatti, non si sono voluti rendere conto del fatto che non esisteva alcuna gerarchia, non vi erano soggetti pacificamente individuabili come capi o promotori, tali non potendo essere considerate quelle persone che, per età o per maggior esperienza politica, godevano, di fatto, di una certa autorevolezza all’ interno del gruppo.
Per venire alla specifica posizione del G., è da ricordare che in suo danno è stato operato un sequestro, ma che le cose oggetto del provvedimento ablativo sono di nessun significato (una bicicletta, una telecamera, apparecchiature elettroniche per riproduzioni di video, un canotto).
Come da tali insignificanti elementi si possa giungere ad ipotizzare il coinvolgimento di questo imputato nei fatti per i quali è processo la sentenza di appello non chiarisce. Neanche si chiarisce quale sarebbe il rapporto dei G. con le armi, atteso che, nel Parco dei Fontanili, armi non furono mai trovate, nonostante detta località sia stata oggetto, per circa quattro anni, del controllo da parte delle Forze di polizia. Il caposaldo del teorema accusatorio in danno di questo imputato, per quel che si legge in sentenza, risiede in una frase di una conversazione intercettata, frase attribuita G. (“non ho capito se questo ci serve per…per S.”). Ebbene, detta frase, nelle trascrizioni operate con il rito dell’incidente probatorio, non esiste più e, dunque, la posizione del G. avrebbe dovuto essere inevitabilmente ridimensionata, anche perché allo stesso non si contesta nulla di specifico, se non l’appartenenza alla presunta associazione sovversiva con finalità di terrorismo. Ma è assolutamente evidente che il semplice rapporto di sintonia politica, o eventualmente di azione politica, fosse anche sovversiva, non fa, di per sé, nascere un vincolo associativo -complesso e articolato- come quello richiesto da un’associazione sovversiva. La condivisione di un programma politico e strategico non è condotta che possa essere criminalizzata.
D’altra parte, si è già detto come il sodalizio al quale G. è accusato di aver appartenuto, non può che essere considerato un aggregato embrionale, connotato dalla comune volontà sovversiva; esso non ha rappresentato un pericolo concreto, atteso che la costituzione di un’associazione sovversiva era forse un obiettivo da inquadrarsi nel progetto politico degli imputati, ma un obiettivo nient’affatto raggiunto e verso il quale non erano stati compiuti ancora- significativi passi. In sintesi, non è dubbio che gli imputati siano qualificabili come persone partecipi di un’ ideologia sovversiva (cospiratori politici, secondo il legislatore fascista), i quali, nel contesto di un progetto non ancora definito, agivano, costruendo il naturale percorso rivoluzionario che passa attraverso una elaborazione politica e ideologica di acquisizione di consenso sociale, di sviluppo di un’adeguata organizzazione, capace di coalizzare forze -umane e materiali- che avrebbero dovuto costituire una struttura -in futuro- operativa. Siamo dunque ben lontani dalla figura della cospirazione politica mediante associazione e siamo ancora più lontani dalle ipotesi degli artt. 270, 270 bis, 306 cp.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Come è ovvio, vanno prima affrontate e risolte le questioni processuali di carattere generale; solo successivamente (ed eventualmente) le residue problematiche potranno essere affrontate.
Tra le questioni processuali devono poi avere precedenza quelle relative alla regolare composizione e alla competenza del collegio giudicante e dei suoi singoli componenti.
Vanno dunque preliminarmente affrontate la questioni sopra sintetizzate ai nn. 4), 17), 44), 14).
Le censure sub 4), 17) e 44) sono infondate.
Va innanzitutto chiarito che I’art. 10 del decreto legislativo 273/1989 non ha affatto implicitamente abrogato I’art. 26 della L. 287/1951, come modificato dall’art. 35 del DPR 449/1988.
Invero I’art. 10 del predetto decreto legislativo prevede la possibilità che al dibattimento innanzi alla Corte di assise assistano due “magistrati” aggiunti. Il termine “magistrato” è utilizzato dal Legislatore in senso tecnico e ristretto, vale a dire che esso va inteso secondo quanto previsto e disciplinato dall’art. 106 Cost.; prova ne è il fatto che il secondo comma del predetto art. 10 prevede qualifica e anzianità di carriera di tali magistrati supplenti.
La L. 287/51, come modificata dal DPR 449/88, fa riferimento, viceversa, ai “giudici popolari”, che, in base al vigente ordinamento giudiziario, integrano la Corte di assise e la Corte di assise di appello.
Ne consegue che, in caso di impedimento di uno dei magistrati componenti il collegio, trova applicazione il comma terzo del predetto art. 10 (sospensione del dibattimento ed eventuale, successiva, sostituzione -se l’impedimento si protrae per più di dieci giorni- del magistrato assente con uno dei magistrati aggiunti); in caso, viceversa, di impedimento di un giudice popolare, trova (continua a trovare) applicazione il comma secondo del ricordato art. 26 (immediata sostituzione -possibile sino alla chiusura del dibattimento- del giudice popolare impedito, senza alcuna sospensione del dibattimento stesso).
Tanto chiarito, va evidenziato che l’atto di sostituzione di un giudice popolare con un altro (che abbia assistito al dibattimento) non è certo espressione di jus dicere, ma di un mero potere di organizzazione riconosciuto al presidente.
In tal modo va inteso il “senso” della sentenza citata dal giudice di secondo grado (ASN 200400957-RV 228517) in ordine alla procedura “automatica” di sostituzione dei giudici popolari impediti e della conseguente mancanza di necessità di motivazione.
E invero è stato successivamente chiarito (ASN 200922736-RV 244450) che non determina violazione del principio di immutabilità del giudice la sostituzione, nel collegio di Corte d’assise, di un giudice popolare effettivo con un giudice popolare aggiunto (sempre si intende che abbia assistito al dibattimento, ai sensi del comma secondo dell’art. 26 sopra citato, e, in particolare, che abbia assistito alle udienze nelle quali sono avvenute l’ammissione e l’assunzione delle prove).
A ben vedere, non a caso è disposta -per i dibattimenti che si prevedono di lunga durata o, comunque, quando sembri opportuno- la nomina “cautelativa” di giudici popolari in soprannumero: lo scopo che il legislatore si prefigge è quello di garantire continuità e speditezza a processi particolarmente delicati, nei quali sono chiamati a integrare il collegio giudicante soggetti che non sono magistrati di professione. Neanche è casuale, poi, il fatto che essi vengano qualificati “aggiunti” e non certo “supplenti” (o altro termine equivalente). La loro presenza si aggiunge, appunto, a quella dei titolari; essi devono seguire il dibattimento e, se necessario, sostituire il giudice (popolare) effettivo, in caso di impedimenti o assenze (anche ingiustificate o ingiustificabili).
Tutto ciò a condizione che la sostituzione avvenga prima della chiusura del dibattimento. Il che è avvenuto nel caso in esame.
La censura sub 14) è manifestamente infondata e quindi inammissibile.
Lo stesso ricorrente chiarisce che la norma che avrebbe impedito alla d.ssa M.L. D. di presiedere la Corte di assise di appello (in quanto nel medesimo distretto la stessa aveva esercitato, in precedenza, funzioni requirenti) ancora non era presente nell’ordinamento. Nondimeno, a parere del medesimo ricorrente, il presidente si sarebbe dovuto astenere per gravi ragioni di convenienza, in quanto, per i suoi trascorsi professionali, ella avrebbe potuto apparire non imparziale.
Ebbene, al proposito, è agevole osservare che la censura, da un lato, prova troppo, dall’altro, è generica, fondandosi su di un presupposto arbitrario o, quantomeno, del tutto evanescente. Sotto il primo aspetto, va considerato che, evidentemente, il predetto magistrato, secondo la tesi del ricorrente, avrebbe dovuto astenersi dallo svolgere funzioni giudicanti in tutti i processi “contaminati” dall’operato della Procura della Repubblica presso il tribunale di Milano (non solo, dunque, in quello a carico del B. e altri). In tal modo, il suo trasferimento sarebbe stato effettuato inutiliter , e ciò, paradossalmente, in applicazione di una legge (al momento) inesistente, con violazione di principi costituzionali, normativi e, va da sé, di comune buon senso.
Sotto il secondo aspetto, non viene minimamente chiarito perché, per quel che riguarda il c.d. versante soggettivo (così qualificato dal ricorrente), la figura del presidente avrebbe dovuto essere compromessa, per il semplice fatto di avere esercitato in precedenza la funzione di Procuratore aggiunto e per essere stata -circa 20 anni prima- componente del pool antiterrorismo. Invero nel ricorso non si sostiene che il predetto magistrato abbia seguito o coordinato indagini a carico di qualcuno degli attuali imputati, nemmeno che si sia (ai tempi del suo inquadramento nel predetto pool) occupata di reati ascritti a soggetti appartenenti alla medesima area politica cui si richiamano gli attuali ricorrenti.
La censura sub 16) è manifestamente infondata.
Le SS.UU. di questa Corte, in due occasioni (sent. n. 17706 del 2005, ric. Petrarca e altri, RV 230895 e sent. n. 37501 del 2010, ric. Donadio, RV 247994) hanno avuto modo di chiarire che con l’espressione “criminalità organizzata” deve intendersi tanto la criminalità mafiosa e assimilata, quanto la criminalità che “si esprime” attraverso qualsiasi delitto associativo eventualmente anche previsto da norme incriminatrici speciali- quanto ancora qualsiasi tipo di associazione per delinquere, correlata alle attività criminose più diverse, con l’esclusione del mero concorso di persone nel reato, nel quale manca il requisito dell’organizzazione. Deve cioè intendersi come reato di criminalità organizzata quello che ha ad oggetto una qualsiasi fattispecie caratterizzata da una stabile organizzazione programmaticamente orientata alla commissione di più reati.
Entrambe le pronunzie delle SS. UU. sopra ricordate sono, per altro, posteriori alla ricordata (dal ricorrente) Convenzione di Palermo e, dunque, certamente non la ignorano. E’ del tutto evidente, d’altra parte, che nulla vietava (e vieta) al legislatore di ampliare, per fini interni, il concetto di criminalità organizzata.
D’altra parte, è principio ermeneutico pacifico quello in base al quale un’espressione testuale contenuta in un corpus normativo va interpretata secondo “il senso fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse e dalle intenzioni del legislatore” (ex art. 12 preleggi) a meno che non vi siano specifiche ragioni per accedere ad una dizione più ampia o più ristretta e, comunque, “particolare”.
Ora non è dubbio che l’accostamento tra il sostantivo “criminalità” e l’aggettivo “organizzata” non può che suggerire il concetto di un gruppo strutturato costituito, disciplinato e mantenuto in vita allo scopo di commettere reati.
Ed è esattamente per tale ragione che la giurisprudenza di questa Corte ha potuto inequivocamente affermare (ASN 200512136-RV 231229) che l’art 240 bis, comma secondo disp. att. cpp, che prevede che la sospensione feriale dei termini delle indagini preliminari non opera nei procedimenti per i reati di criminalità organizzata, si applica alle fattispecie criminose espressamente individuate nella disposizione di cui all’art. 407, comma secondo, lett. a) del medesimo codice; ebbene il detto articolo al n. 4 del comma secondo prevede, appunto, i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione.
Le censure sub 7), 42) e 48), tutte attinenti alla competenza territoriale, sono infondate.
Al proposito è da osservare che, per vero, la motivazione del giudice di secondo grado potrebbe, a prima vista, ingenerare qualche confusione. Infatti, dopo un accenno al criterio ex art. 8 cpp (giudice competente per il reato permanente è quello del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione), la Corte di assise di appello si dilunga ad analizzare i criteri suppletivi ex art. 9.
In realtà il primo criterio è pacificamente applicabile.
I giudici del merito chiariscono che non vi è motivo di dubitare che sia stata Milano la “sede centrale” della associazione, posto che proprio in quella città avvenivano gli incontri destinati alla programmazione della attività, a Milano operavano stabilmente L. (promotore-costitutore), G. e G. (organizzatori), a Milano vengono “trasferiti” C. e M. perché possano dedicarsi alle “inchieste” e all’attività di proselitismo in ambito universitario (e non va dimenticato che l’attività precipua del gruppo era la propaganda, sia pure armata).
II fatto che vi fossero articolazioni territoriali (in Piemonte e in Veneto) è, sotto tale profilo, irrilevante, così come irrilevante è il fatto che in tale ultima regione si sia svolta gran parte della “attività armata” degli associati. Sta di fatto che detta attività, per quel che è dato leggere in sentenza, fu progettata e programmata altrove, vale a dire, proprio a Milano.
Va da sé, poi, che il concorso esterno in un reato associativo non può precedere la costituzione della associazione, ma deve necessariamente far seguito ad essa. Cosicché il delitto del capo C), ascritto a T. A. (non a caso, assolto) non può cronologicamente precedere quello del capo A), essendo la nascita della struttura associativa indicata tra il 2003 e il 2004, così come non Io precede quello del capo B), ascritto a S.. E se dunque si è -a suo tempo-ipotizzato che T. abbia, tra il 2001 e il 2002 (in concorso con B. e R.) trasportato armi da un nascondiglio, non meglio indicato, al garage-legnaia di questo ultimo, ciò deve necessariamente essere avvenuto -quantomeno dal punto di vista cronologico- al di fuori delle logiche associative, o almeno di quelle della associazione di cui al capo A), in quanto non si può “aiutare” una associazione che ancora non esiste.
Non si può ovviamente escludere che i tre avessero operato o in semplice concorso tra di loro, ovvero nell’ambito di altra e precedente associazione con finalità politico-militari, atteso che la struttura di cui al capo A), per quel che si legge in sentenza e per quanto di comune cognizione, non è né la prima né l’unica sorta in Italia.
La censura sub 15 è infondata.
Invero, fermo restando il richiamato insegnamento della Corte costituzionale, la giurisprudenza di questa Corte di legittimità (con sentenza successive a quella del Giudice delle leggi) ha chiarito che da un lato, la violazione dell’obbligo del PM di trasmettere al GIP l’intera documentazione raccolta nel corso delle indagini è sanzionata esclusivamente dall‘ inutilizzabilità degli atti non trasmessi, non essendo prevista un’autonoma sanzione di invalidità per il mancato deposito degli atti, indipendentemente dalla loro utilizzazione, dall’altro, che chi tale omissione lamenti ha l’onere di specificarne il contenuto al fine di consentire al giudice di valutarne la eventuale rilevanza (A5N 200333067-RV 226651, conf. A5N 200847497-RV 242762).
Va da sé, poi, che detta inutilizzabilità vige ai soli fini della valutazione dei presupposti per il rinvio a giudizio (ASN 201019511-RV 247192) e non è certo operativa nel dibattimento, atteso che, come è ovvio, una volta che il rinvio a giudizio sia intervenuto, il controllo di tutti i dati probatori (preesistenti e comunicati, preesistenti e resi palesi solo in dibattimento, acquisiti ai sensi dell’art. 430 cpp, acquisti direttamente in dibattimento) è pieno perché avviene in contraddittorio e innanzi al giudice terzo.
Le censure sub 6) e 46) sono infondate.
Trattasi di mera irregolarità, dalla quale non discende alcuna nullità o inutilizzabilità.
Invero: la irregolarità del quomodo non incide sull’ammissibilità.
Peraltro, va notato che il comma I bis dell’art. 147 bis disp. att. cpp prevede che l’esame dibattimentale degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria, che abbiano operato in attività sotto copertura ex art. 9 legge 146/2006, debba svolgersi con le cautele necessarie per garantire tutela e riservatezza della persona sottoposta all’esame e con modalità idonee ad evitare che il volto di tali persone sia visibile.
Ora, è pur vero che tale disposizione è stata introdotta con legge 136/2010, vale a dire dopo la celebrazione del dibattimento di primo grado, ma è altrettanto vero che l’esigenza che sta a suo fondamento era avvertita e presente anche prima, così come -evidentemente- è vero che il legislatore, cui compete il compito di bilanciare garanzie dell’imputato e tutela delle indagini (e delle persone che le espletano), ha ritenuto che l’adozione delle modalità sopra ricordate non leda né comprima l’esercizio del diritto di difesa.
La questione di costituzionalità di cui al punto 47) è manifestamente infondata e, comunque, irrilevante.
Innanzitutto, va osservato che sarebbe contrario al principio di ragionevolezza imporre, in via generale e astratta, “un termine finale” a una attività di controllo di una condotta contro legem, quando non si sa (e non si può sapere in anticipo) quando tale condotta avrà termine, o potrà essere utilmente interrotta dalle Forze di polizia.
In secondo luogo, va chiarito che le esigenze di indagine, per le quali può essere opportuno
ritardare l’intervento repressivo-cautelare delle Forze dell’ordine, non devono necessariamente consistere nella scoperta di “nuovi reati”, ma ben possono consistere nella individuazione di nuovi (nel senso di: fino a quel momento, sconosciuti) concorrenti in reati già accertati e/o consumati.
ritardare l’intervento repressivo-cautelare delle Forze dell’ordine, non devono necessariamente consistere nella scoperta di “nuovi reati”, ma ben possono consistere nella individuazione di nuovi (nel senso di: fino a quel momento, sconosciuti) concorrenti in reati già accertati e/o consumati.
In terzo luogo, non può essere il criterio della gerarchia della gravità dei reati a guidare e determinare i comportamenti degli inquirenti, atteso che tali comportamenti devono modellarsi dinamicamente sulle esigenze che, di volta in volta e imprevedibilmente, possano manifestarsi nel caso concreto.
Va da sé che tanto il PM, quanto la polizia giudiziaria assumono una elevata responsabilità quando autorizzano o portano a compimento tal genere di operazioni. Di eventuali errori, leggerezze, omissioni e danni essi saranno chiamati a rispondere, ma non si vede come perché eventuali errori di valutazione o di esecuzione dovrebbero trovare, poi, sanzione processuale, se essi non hanno determinato nullità o inutilizzabilità.
Infine, i ricorrenti non chiariscono (limitandosi a enunciarlo) in cosa consisterebbe il contrasto della norma in questione con i principi costituzionali del contraddittorio nella formazione della prova (che, come è noto, si forma in dibattimento), della obbligatoria motivazione dei procedimenti giurisdizionali (posto che si tratta di attività di polizia e non giurisdizionale) di garanzia di tutela contro gli atti della pubblica amministrazione (atteso che il controllo di una attività di polizia prodromica a un procedimento giurisdizionale, avviene, successivamente, nell’ambito del predetto procedimento).
La censura sub 19) è inammissibile per genericità.
Dato per scontato che la illustrazione, in sede di discussione, di questioni già proposte con l’atto di appello non può mai considerarsi (per la intrinseca contraddizione che ciò non consente) come introduzione di motivi nuovi, resterebbe, però, da chiarire per qual motivo sarebbe da ipotizzare che i giudici del merito avrebbero esposto la c.d. “cronologia” sulla base delle relazioni di servizio, piuttosto che delle dichiarazioni dibattimentali di chi quelle relazioni aveva redatto.
Il secondo comma dell’art. 514 cpp vieta, come è noto, la lettura in dibattimento dei verbali e degli altri documenti che rispecchiano le attività compiute dalla polizia giudiziaria; tuttavia, il teste (e dunque anche l’appartenente alla polizia giudiziaria) può essere autorizzato, ai sensi del quinto comma dell’art. 499 cpp, a consultare gli atti da lui redatti.
Si tratta, ovviamente, di una lettura che il teste fa “a se stesso” e per aiuto alla memoria, ma che gli consente, poi, di rispondere con precisione -appunto dopo aver letto il documento da lui redatto (o anche dal suo ufficio, purché egli abbia partecipato alle operazioni, cfr. ASN 200915056-RV 243406)- alle domande che gli vengono poste. Per altro, è stato ritenuto (ASN 200909202-RV 243542) che, quando la deposizione, “aiutata” dalla lettura, sia avvenuta in dibattimento -e dunque nel contraddittorio delle parti- i documenti letti siano anche acquisibili da parte del giudice.
Tutto ciò premesso, è da rilevare che, nel ricorso, non solo non si chiarisce, come anticipato, per qual ragione non sia credibile che la “cronologia” sia stata redatta sulla base delle dichiarazioni (per quanto eventualmente “corroborate” dalla lettura ex art. 499 comma quinto cpp), ma nemmeno si afferma che la detta documentazione sia stata irregolarmente acquisita, vale a dire nel mancato rispetto della procedura messa in evidenza dalla giurisprudenza sopra citata.
Le censure sub 5) e 45) sono manifestamente infondate per le ragioni illustrate dalla Corte di assise di appello, la quale ha richiamato giurisprudenza di questo giudice di legittimità (ASN 200534224-RV 232221), in base alla quale la detenzione in un istituto penitenziario prossimo al luogo di celebrazione del dibattimento non costituisce un diritto dell’imputato e neppure una situazione giuridicamente apprezzabile ai fini della regolarità del giudizio.
Il fatto che l’amministrazione penitenziaria non abbia assecondato la disposizione presidenziale non ha, ovviamente, alcun riflesso sulla regolarità del processo, ma potrebbe, al più, rilevare sul piano disciplinare.
Nel ricorso, tra l’altro, si evidenzia che l’art. 26 delle disposizioni di attuazione del codice previgente prevedeva che “se l’imputato si trova detenuto…in luogo diverso da quello in cui è convocata la Corte di assise o la Corte di assise di appello, il PM, dopo il deposito in cancelleria della sentenza di rinvio a giudizio,…provvede che sia tradotto nelle carceri del luogo del giudizio, dove rimarrà durante il decorso dei termini per le impugnazioni e per la presentazione dei motivi”.
Al proposito, è sin troppo facile evidenziare che ben altra era, all’epoca, la realtà dei mezzi di comunicazione e di trasporto, realtà che oggi è completamente mutata, di talché non costituisce un ostacolo per il concreto esercizio del diritto di difesa la distanza spaziale tra difeso e difensore. Unico ostacolo può essere -eventualmente- quello di natura economica, che, tuttavia, nei casi previsti, ben può essere superato con l’ammissione al gratuito patrocinio.
Infine, non impropriamente, il giudice di secondo grado ricorda come la “vicinanza fisica” tra imputato e difensore non sia un dato indiscutibile nel nostro sistema processuale, tanto che è certamente ammessa la possibilità dell’esame a distanza dell’imputato (ASN 200425662-RV 228129).
Le censure sub 20), 21) e 22) sono infondate.
Secondo quanto affermano gli stessi ricorrenti, alla polizia giudiziaria era già nota la esistenza del “gruppo milanese”. Quanto al D., lo stesso era stato oggetto di indagini ad opera della Procura napoletana.
Dunque, quantomeno con riguardo a questi imputati, non vi sarebbe stata necessità di alcun input da parte del Sisde, atteso che essi erano già noti alla polizia giudiziaria per la loro sospetta attività “antagonista”.
Orbene, è stato chiarito (ASN 200810051-RV 239458) che le informazioni confidenziali determinano l’ inutilizzabilità delle intercettazioni, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 267, comma primo bis e 203, comma primo bis cpp, soltanto quando esse abbiano costituito l’unico elemento oggetto di valutazione ai fini degli indizi di reità.
Quanto ai residui imputati, deve essere ricordata (e condivisa) quella giurisprudenza in base alla quale, in presenza di una prima intercettazione probatoriamente inutilizzabile, deve verificarsi se le successive possano trovare giustificazione nei dati pur irregolarmente acquisiti, atteso che, comunque, per il principio di conservazione degli atti, detti dati, ricorrendone i presupposti, ben possono costituire notitia criminis, in base alla quale, avviare successive indagini (e dunque autorizzare successive intercettazioni).
Invero, in tema di proroga non tempestiva dell’autorizzazione alle intercettazioni, è stato chiarito (ASN 201115818-RV 249980) che essa può legittimare le operazioni per il futuro, operando come una nuova autorizzazione.
Insomma, la proroga “tardiva”, se non può certo valere a legittimare ex post la mancanza di autorizzazione e a consentire l’utilizzazione delle intercettazioni svoltesi medio tempore, ha tuttavia efficacia per il futuro, alla stregua di nuova autorizzazione (ASN 200605061-RV 233231, contro ASN 200543971- RV 216664).
Ricorrendo la eadem ratio, non vi è ragione di non estendere il principio dalla proroga tardiva, alla proroga che intervenga dopo una attività di intercettazione inutilizzabile, ma in base a notitiae criminis proprio da tale intercettazione desumibili.
In sintesi: se il primo decreto fu emesso sulla base di presupposti che non lo avrebbero legittimato, non è dubbio che la relativa intercettazione sia inutilizzabile; ma, se le informazioni scaturenti dalla predetta inutilizzabile (a fini probatori) intercettazione, costituiscano valide notitiae criminis, non è, parimenti, dubbio che, sulla base delle stesse, possa avviarsi ulteriore attività di indagine e, dunque, se del caso, altre intercettazioni.
Alla stregua delle sentenze di legittimità appena citate, non vi è, pertanto, ragione di escludere che la proroga di un decreto illegittimamente emesso possa essere letta” come autorizzazione ex novo”. In fin dei conti, essa, per il solo fatto di far riferimento (in quanto avente, appunto, la forma della proroga) alle pregresse vicende processuali, deve considerarsi motivata per relationem, in quanto connotata dal relativo corredo documentale.
Né vale dire che la proroga di un atto emesso in violazione di legge dà, di per sé, luogo a una attività i cui risultati sono inutilizzabili, atteso che, come si è detto, l’atto invalido, in applicazione proprio del principio di conservazione, viene considerato, non in relazione al fine per il quale è stato (malamente) assunto (nel nostro caso, quale fonte di prova), ma, appunto, per la parte nella quale può trovare utilizzazione (notitia criminis).
Orbene, nel caso in questione, non è dubbio che l’attività di intercettazione abbia occupato un lungo arco temporale, con conseguente necessità di successive e reiterate proroghe.
Del tutto irrilevante é poi la circostanza consistente nel fatto che la duplicazione del contenuto delle conversazioni intercettate sia avvenuta ad opera, non di personale ausiliario del giudice, ma di dipendenti di una ditta privata.
Detta duplicazione è stata evidentemente effettuata per puro motivo di comodità e di prudenza, vale a dire per non operare direttamente sul disco “originario”; ciò non toglie che era solo detto disco che incorporava la prova e che ad esso avrebbero potuto, in ogni momento, accedere le parti (cfr. Corte cost. sentenza 336/2008), se avessero avuto dubbi circa la fedeltà della riproduzione.
Dubbi, tuttavia, a quanto si legge nella impugnata sentenza (fol. 101), non ne ebbero, atteso che nessuna osservazione fu fatta dalle Difese, che anzi seguirono esattamente la medesima metodica per estrarre e duplicare le conversazioni che ad esse interessavano.
D’altra parte, se per le operazioni puramente esecutive, il perito può avvalersi della collaborazione di un quivis de populo di sua fiducia, non nominato dal giudice (ASN 200426481-RV 228892), non si comprende per quale ragione tale facoltà non possa vale per un’opera di mera “ricopiatura” da un originale, che, fino a prova del contrario, rimane intatto. E’ poi assolutamente certo che il giudice possa ascoltare, se lo ritiene, le conversazioni intercettate, e che ciò può fare in camera di consiglio, piuttosto che in dibattimento (ASN 201006297-RV 246105), né si comprende sulla base di quali evidenze i ricorrenti sostengono che ciò non sia accaduto, atteso che il giudice non deve far certo redigere verbale che rispecchi una operazione di mera presa d’atto del contenuto di fonti di prova. Certamente, ad esempio, il giudicante non deve dare atto di aver letto in camera di consiglio le “carte processuali” che può utilizzare, ovvero di aver osservato le fotografie, regolarmente acquisite al fascicolo del dibattimento.
E’ poi, comunque, arbitraria la affermazione in base alla quale, poiché il contenuto di una (o di alcune) conversazioni intercettate era difficilmente comprensibile, tutte le conversazioni intercettate avevano tale caratteristica.
Per altro, in un processo di parti -natura che, nonostante tutto, ancora è riconoscibile nel vigente sistema processuale- nulla impedisce alle Difese di ascoltare le registrazioni e di segnalare quelle che ritiene scarsamente intelligibili.
Ciò invero, come si legge nei ricorsi, è stato fatto per la intercettazione che gli inquirenti ipotizzarono fosse relativa alla preparazione di un attentato al prof. I.; ebbene nulla impediva agli imputati di segnalare altre eventuali conversazioni “equivoche” o che, a loro parere, erano state malamente trascritte.
La censura sub 3) è inammissibile per genericità.
A parte il fatto che le dichiarazioni predibattimentali la cui mancata acquisizione il ricorrente lamenta, per quello che egli stesso riferisce, avevano contenuto di generica protesta di innocenza/estraneità ai fatti di causa, il ricorrente non chiarisce per qual ragione le riserve che L. avrebbe espresso sul conto di R. sarebbero atte a contrastare validamente quello che è emerso in corso di dibattimento, vale a dire la concreta condotta tenuta dal R. (cfr. infra), condotta che è stata interpretata -certo non illogicamente- come sintomatica della sua intraneità.
In sintesi: non si chiarisce la rilevanza della prova che si assume omessa.
Sgombrato il campo dalle questioni di natura processuale (tranne quella sub 18), si può ora passare ad esaminare le censure relative ai denunziati difetti di motivazione in ordine alla sussistenza dei fatti contestati e alla corretta qualificazione degli stessi.
Quanto alla materiale sussistenza dei fatti, le predette censure si presentano come infondate e, alcune, al limite della inammissibilità.
I giudici del merito, con motivazione diffusa, rigorosa e analitica, utilizzando il contenuto delle conversazioni intercettate, le dichiarazioni del collaboratore di giustizia R., l’esito delle attività di perquisizione e sequestro, le testimonianze degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, hanno dato conto del loro convincimento circa la sussistenza di una struttura operativa, sufficientemente gerarchizzata ai suo interno, ispirata da un ben preciso credo politico, tesa alla realizzazione di un programma “rivoluzionario” che prevedeva l’uso sistematico della violenza; a tale scopo, evidentemente, essa si era dotata di un considerevole quantitativo di armi micidiali.
Conviene subito affrontare la censura sub 34). Essa è infondata.
Non è dubbio che le dichiarazioni provenienti dal R. sono state ritenute, nella gran parte credibili.
Lo stesso era il custode dell’arsenale del gruppo e detto arsenale ha fatto ritrovare.
Le armi sotterrate in località Arzercavalli, come gli accertamenti balistici hanno consentito di affermare (cfr. sentenza di appello fol. 207), sono quelle utilizzate nella esercitazione in località Scolo Tron.
Correttamente i giudici del merito attribuiscono grande rilievo a tale circostanza, che contribuisce a conferire al “pentito” adeguata credibilità.
La stessa sentenza, tuttavia, mette in mostra come non sempre il predetto collaboratore abbia reso dichiarazioni precise e riscontrabili; ciò, tuttavia, non inficia, ovviamente -attesa la pacifica sussistenza del criterio della valutazione frazionata delle dichiarazioni- la complessiva solidità del nucleo essenziale del suo dictum.
In ogni caso, il convincimento dei giudicanti non si fonda unicamente (e nemmeno principalmente) sulla parola del R., quanto piuttosto sull’esito della attività di intercettazione e di indagine (pedinamenti, riprese video, sequestri ecc.).
Il giudice di secondo grado ha, poi, per parte sua, adeguatamente replicato alle censure mosse con i diversi atti di appello, ribadendo e meglio definendo i tratti costitutivi e le modalità operative della predetta struttura.
Essa, per quel che si legge in sentenza, aveva al suo vertice una sorta di quadrumvirato (D., L., B., S., cfr. fol. 133 della sentenza di appello), disponeva di una cassa comune, poteva decidere dove e come “impiegare” i suoi adepti, aveva una sede centrale (Milano) e articolazioni periferiche (Piemonte, Veneto), aveva individuato un “poligono di tiro” (Scolo Tron) ed un sicuro rifugio per il suo ideologo (R.), aveva un foglio di propaganda (Aurora), utilizzava timbri e documenti falsi, non disdegnava contatti con la criminalità comune (rapporti tra G. e S.), programmava reati contro il patrimonio per autofinanziarsi, raccoglieva informazioni sui possibili “obiettivi” da colpire, brigava per procurarsi false divise delle FF.00.
Come anticipato, i giudici del merito hanno attinto gli elementi posti alla base delle loro decisioni principalmente dalle conversazioni intercettate, dunque dalla stessa voce degli imputati.
Al proposito, vale la pena di chiarire che la conversazione intercettata ha (può avere) una sua valenza probatoria, tanto nei confronti dei colloquianti, quanto nei confronti delle persone cui il colloquio si riferisce. Ciò si dice con riferimento a tutti gli imputati, ma in particolare alla C..
Invero la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere (da ultimo ASN 201021878- RV 247447) che il contenuto di un’ intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno di terza persona, indicata come concorrente in un reato alla cui consumazione anche uno degli interlocutori dichiari di aver partecipato, non è equiparabile alla chiamata in correità e pertanto, se anch’ esso deve essere attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio, non è però soggetto, in tale valutazione, ai canoni di cui all’art. 192, comma terzo cpp.
Per altro, come anticipato, non poche volte il contenuto delle conversazioni intercettate ha trovato conferma e riscontro nelle operazioni e nei controlli di polizia attivati in relazione alle stesse.
In particolare, si deve osservare, per quanto riguarda la censura sub 1) (R.), che lo stesso appare, per quel che si legge in sentenza, fortemente coinvolto nella “operazione” diretta al rientro in Italia del D..
Il R. sostiene che non è stata fornita la prova della sua consapevolezza di stare operando nell’ambito e a favore di una societas contro legem, in quanto aver agevolato il, viaggio del D. non è condotta, di per sé, incriminabile.
Così argomentando, tuttavia, si trascura quanto espresso a chiare lettere nella sentenza impugnata: R.i e D. si tenevano in continuo contatto telefonico, chiamandosi con nomi di battesimo diversi da quelli che essi effettivamente hanno. In una conversazione intercettata in un ristorante, poi (colloquianti L., S., B.), proprio B. comunica agli altri, in relazione al viaggio del D., di aver chiarito a R. “tutta la situazione”. E in effetti, poi, B. e D. si incontrano, sfruttando la copertura del R. e fingendo un colloquio di lavoro. Né mancano colloqui diretti tra B. e R.. Viene dunque chiarito adeguatamente per qual motivo si è ritenuta la piena consapevolezza da parte di questo ricorrente.
La censura sub 1), dunque, nella parte in cui contesta la correttezza, coerenza e completezza della motivazione in ordine alla ricostruzione del fatto, è da rigettare.
Diversa sorte essa deve avere, come si vedrà, per quel che riguarda la sua qualificazione giuridica.
Quanto alla subordinata censura avanzata da R. (sub 2), in base alla quale, la sua condotta, al più sarebbe da inquadrare nello schema dell’art. 270 ter cp, va detto che anche essa è infondata. Invero, la condotta del R. è consistita, non solo nel dare ospitalità al D., ma, come anticipato, nell’averne favorito il rientro clandestino in Italia. Nel fare ciò, il ricorrente sapeva bene -come emerge dal compendio delle conversazioni intercettate- che non si stava prodigando a favore di un singolo, ma di una intera struttura criminale.
La censura sub 11) (S.) si fonda su di una ricostruzione “atomistica” dell’accaduto. E’ vero, per quel che si legge in sentenza e secondo quanto afferma il ricorrente, che egli denunziò lo smarrimento di una carta di identità del nuovo tipo (plastificata e con foto “incorporata”), ma è altrettanto vero che richiese e ottenne in sostituzione un documento cartaceo (carta di identità di vecchio tipo, ancora validamente in circolazione). Ebbene, proprio questo duplicato cartaceo fu trovato in casa dell’imputato, privo di foto e nello stesso cassetto nel quale si trovava la carta di identità denunziata (falsamente) come smarrita.
Di talché non peccano certo di illogicità i giudici del merito quando riconducono il contenuto di alcune conversazioni intercettate -nelle quali si parlava di un documento da fornire al D. – alla infondata denunzia di smarrimento della carta di identità da parte di S.. Per altro, questo imputato è nato nel 1964, mentre il D. è apprezzabilmente più anziano. Ebbene, il soggetto che avrebbe dovuto usufruire del documento falsificato avrebbe dovuto, secondo quanto affermano i colloquianti, curare particolarmente il suo aspetto per poter sembrare più giovane.
A completare il quadro, la Corte di secondo grado ricorda come questo imputato sia stato visto partire per la Svizzera insieme con M.. Scopo della “trasferta”, lo si evince sempre dalle intercettazioni, era quello di effettuare un corso di informatica presso dei compagni di fede di nazionalità elvetica; costoro avrebbero potuto insegnare agli italiani come lanciare anonimamente messaggi in Internet, vale a dire senza essere identificati, introducendosi in rete senza autorizzazione. E proprio il materiale informatico sequestrato presso questo imputato lo pone in relazione con B., il cui modem è stato installato con i driver trovati presso S..
La censura sub 12) (T.) anche tende alla “scomposizione” dei dati probatori, la cui valutazione integrata e complessiva, viceversa, consente alla Corte di secondo grado di confermare la colpevolezza di questo imputato.
Vengono innanzitutto evidenziati in sentenza i contatti con B. e con R., vengono poste in rilievo le sue frequenti assenze notturne da casa, le sue frequentazioni, sempre in ore notturne, con L., G. e (ancora) B.. Il tutto viene, non certo illogicamente, posto in relazione al tentativo di svaligiamento del bancomat in Albignasego. Vengono ricordate le parole del R., il quale ebbe a dichiarare che proprio il T. gli aveva fatto da “staffetta”. Viene sempre evidenziato come, ancora una volta, in compagnia di B., lo stesso si sia recato per ben due volte in località Scolo Tran, dove, qualche giorno dopo, avrà luogo la c.d. “prova delle armi”. Non è poi corretto affermare che lo stesso sarebbe stato riconosciuto solo da R., appartenete alla polizia giudiziaria, atteso che in sentenza si legge che anche P. e C. (anche essi poliziotti) lo individuarono. In ogni caso, in una delle due occasioni, per quel che si legge in sentenza, i due (T. e B.) vengono addirittura ripresi da una telecamera che gli inquirenti avevano installata in loco.
Per altro, la sentenza dà atto che proprio T. collaborò al trasporto delle armi per il loro utilizzo. Detto trasporto, infatti, avvenne con l’auto del R. (che ne conservava le tracce, vale a dire un certo danneggiamento) e previo uno scambio di vetture tra R. e B., al quale si accompagnava, appunto, T..
Dunque, non corrisponde a realtà quanto dedotto da questo ricorrente: essersi la Corte di assise di appello basata su elementi labili, equivoci, neutri.
Neanche è vero che il predetto giudice abbia ignorato le deposizioni dei testi della difesa S. e C., atteso che a pag. 195 e ss. si dà conto della scarsa credibilità e/o della irrilevanza di tali dichiarazioni.
Le censure sub 35), 37), 38), 39), 41), 49) (B., L., S., G.) non hanno fondamento.
Si è già detto come i primi tre si siano definiti (insieme con D.) -per bocca di L.- il vertice del PCPM. E tale “autodichiarazione” è la migliore risposta a quella argomentazione, contenuta in alcuni dei ricorsi, in base alla quale la stessa ideologia professata dagli imputati doveva escludere che tra i medesimi potesse instaurarsi una qualche forma di gerarchia. Come se non bastasse, la Corte di secondo grado ricorda che L., in una conversazione intercettata, parla di M. e C., come di due giovani fatti trasferire dal Veneto a Milano perché dovevano fare opera di propaganda-proselitismo in ambiente universitario. La Corte pone in evidenza la espressione usata, in base alla quale, gli stessi dovevano essere “mossi” all’interno del mondo universitario. Ebbene, il rapporto di subordinazione non potrebbe essere più chiaramente espresso, atteso che i due ragazzi, a quanto risulta, era destinati ad essere eterodiretti.
Nei confronti dei quattro ricorrenti sopra indicati la attività di intercettazione ha consentito ai giudici del merito di raccogliere e valutare copiosissimo materiale, a cominciare dalla intercettazione effettuato nel c.d. Parco dei Fontanili in Milano. Nel corso di essa si parla apertamente di armi da guerra, della opportunità di trovare un nascondiglio migliore, della necessità di procedere ad adeguata manutenzione. Hanno sostenuto gli inquirenti in dibattimento di avere nettamente percepito il rumore di uno scavo e di avere, comunque, una volta che gli imputati che essi sorvegliavano si erano allontanati dai luoghi, rilevato le tracce degli scavi.
Altre armi (oltre a materiale “ideologico”) sono state trovate nell’appezzamento di terra in Piemonte, nella disponibilità del S.. Si tratta di un fondo recintato, chiuso da un lucchetto, che questo imputato frequentava (come documentato da riprese tv) -singolarmente, visto che le attività agricole si svolgono, in genere, con la luce- anche in ore notturne. In due bidoni furono rinvenuti altrettanti AK 47, insieme con munizioni, 20 copie del giornale “Aurora” e documenti con la famigerata stella a cinque punte.
Proprio il S., che è perfettamente al corrente delle attività che si svolgono in località Scolo Tron, parla diffusamente di armi con L.. e B. (cfr. fon. 203 e 210 della sentenza). E questa è la più eloquente risposta a quelle censure in base alle quali l’imputato piemontese non dovrebbe rispondere delle armi trovate in Veneto o delle quali si parla in Lombardia (e viceversa). Se si afferma (fondatamente, per tutto quanto si è premesso e per quanto seguirà) che la associazione era unica, ma operava nelle tre regioni, se vi è prova che i predetti quattro imputati avevano piena cognizione di quel che facevano, in questo campo gli altri, se si sostiene che le numerose armi e le numerosissime munizioni fatte trovare dal R. costituivano l’arsenale del PCPM, è di palese evidenza che correttamente tutti sono stati chiamati a rispondere di tutte le armi; tutti:capi e gregari, che le abbiano maneggiate, oppure no.
Per incidens, va notato che le armi e munizioni nella diretta disponibilità del S. erano davvero in numero troppo elevato per una sola persona, di talché è correttamente ipotizzabile -come fanno i giudici del merito- che questo imputato non sia stato l’unico adepto attivo nella articolazione piemontese del PCPM.
Se dunque questo è il carico probatorio che riguarda il S., da un lato, è francamente quasi offensiva la considerazione della difesa in base alla quale anche altri avrebbero potuto, all’insaputa di questo imputato, sotterrare armi nel suo fondo (ma non documenti, atteso che egli è stato ripreso mentre li disseppelliva), dall’altro, è irrilevante, per l’evidente effetto dispiegato dalla c.d. “prova di resistenza”, il dubbio che viene avanzato circa la riconducibilità alla moglie del S. di una formazione pilifera trovata su alcuni reperti.
Per quanto specificamente riguarda B., va detto che, oltre a tutto ciò che si è anticipato sul suo conto, la sentenza impugnata pone in evidenza la significatività del materiale informatico rinvenuto e sequestrato nella sua disponibilità (pendrive con files contenenti programmi utili alla falsificazione di timbri comunali e documenti pubblici), oltre a materiale “ideologico” e propagandistico. B. partecipa certamente al sopralluogo al bancomat di Albignasego (così come L.), è presente (con T.) a Scolo Tron, si trova in auto, dopo la “prova delle armi”, con G. e L.. Quest’ultimo, a sua volta, come evidenzia la sentenza, vien intercettato mentre discorre delle capacità esplosive del C4, è presente agli “scavi” nel Parco dei Fontanili, ha, al pari di B., nel suo computer, files di timbri comunali; né torna utile ripetere quanto già evidenziato, al suo proposito, nelle pagine precedenti.
Compiutamente illustrata è anche la posizione del D., entrato in Italia grazie all’appoggio dei coimputati (e alla falsa carta di identità fornita da S.), ispiratore del numero zero di “Aurora”. La sua funzione di ideologo e “testa pensante” del gruppo, si legge in sentenza, è documentata dal fatto che, su di una “chiavetta” nella sua disponibilità, è stato rinvenuto lo schema grafico per i futuri numeri di “Aurora”.
Altro personaggio centrale che emerge dalle pagine della sentenza ricorsa è certamente il G.. Anche egli si dilunga, nelle conversazioni intercettate, sulle potenzialità del C4, esprime il proposito di sparare nelle gambe a tale S., manifesta l’intenzione di preparare un attentato al prof. I., mantiene, come si è anticipato (cfr. anche infra), i rapporti con S. per assicurare al PCPM fornitura di armi, discute con G. della possibilità di utilizzare una lancia termica per svaligiare il bancomat di Albignasego, è presente a Scolo Tron, discute con L. circa la necessità di spostare le armi dal Parco dei Fontanili, dove ha personalmente lavorato di vanga in un canale.
Quanto alle sue tracce corporali su di un giubbotto antiproiettile utilizzato ad Albignasego, la sentenza di appello pone in evidenza come le perplessità sollevate dalla scarsa concludenza della prova scientifica siano superate dalle parole stesse di questo imputato, che, nel rievocare l’episodio, afferma di avere, a un certo punto, indossato il “giubbotto”.
La censura sub 52) (G.) non merita, al pari delle altre sopra illustrate, accoglimento.
Questo imputato viene considerato “il tecnico” del gruppo.
Non è esatto quanto si sostiene in ordine alla duplicazione dei telecomandi per consumare furti di auto, vale a dire che tali reati non sarebbero stati consumati. In realtà, furti di auto e di targhe furono portati a compimento in vista della “operazione bancomat” di Albignasego. E proprio per il compimento di tale azione criminosa, come si è visto, G. interloquì circa la opportunità di utilizzare una lancia termica. Il suo pieno coinvolgimento, evidenzia la sentenza, si ricava anche dal fatto che viene indicato come colui che, per conto del L., deve ritirare ben 200 munizioni, come persona da incaricare per le “inchieste” (vale a dire accertamenti-pedinamenti per individuare possibili “obiettivi” studiandone abitudini e movimenti), come uno degli uomini che hanno scavato al Parco dei Fontanili.
Del pari infondate sono le censure sub 36) e 43) (M. e C.). Si tratta delle “pedine” che il vertice della struttura associativa vuole “muovere dentro l’università”; si tratta delle persone “trasferite” dal Veneto a Milano e che si debbono integrare nel gruppo meneghino, si tratta di soggetti che dovranno essere incaricati di “inchieste”.
Ovviamente il fatto che essi non siano ancora divenuti “operativi” (saranno tratti in arresto prima di passare all’azione) non incide sulla loro appartenenza alla struttura del PCPM. Il fatto che non abbiano avuto la possibilità di commettere reati-fine, infatti, non può rilevare ai fini dello prova dell’affectio societatis.
Né va dimenticato che alla C. sono stati sequestrati tre video, due dei quali ritraevano possibili “obiettivi” e che M. è stato visto partire per la Svizzera (con S.); la ragione di tale “trasferta” è ricostruita, sulla base delle conversazioni intercettate (cfr. sopra).
A fronte di una tale mole di elementi, possono avere davvero scarso rilievo le obiezioni sollevate con i motivi di ricorso (che tendono a negare il ruolo di trait de union della C. o che insistono sul fatto che M., pur partito per la Svizzera, non è stato visto scendere alla stazione di Zurigo).
Certo questi due imputati, per la ricostruzione che la sentenza di appello opera dei fatti, non hanno il rilievo, l’importanza e il “peso” degli altri, ma -senza dubbio- ne è stata dimostrata la intraneità alla struttura capeggiata da B., S., D. e L., il quale ultimo (cfr. fol. 142 della sentenza di appello) si spinge sino ad affermare, alquanto enfaticamente, che i due ragazzi “hanno messo a disposizione la loro vita, il loro lavoro, la loro quotidianità, le loro relazioni per i nostri compiti di organizzazione.”
La censura sub 43) “contiene” anche una censura in diritto, ma essa è manifestamente infondata, atteso che certamente una motivazione ellittica, incompleta o -rectius- sintetica non ha l’effetto di modificare il capo di imputazione.
Venendo ora alla posizione dello S., deve dirsi che la censura sub 10) è fondata.
Nessun dubbio può nutrirsi circa il fatto che, anche con riferimento alle ipotesi associative contestate nel presente procedimento, sia ipotizzabile il concorso esterno.
Tanto la giurisprudenza ha esplicitamente affermato (ASN 201016549-RV 246937; ASN 200701072-RV 235290) e a tale conclusione deve giungersi per quel che riguarda qualsiasi struttura associativa (art. 416 cp, art. 74 TU 309/1990, art. 291 quater DPR 43/1973 ecc.), essendo certamente applicabili ed estensibili i criteri nel tempo elaborati da questa Corte di legittimità nella sua più elevata espressione normofilattica (e da ultimo, come è noto, con sent. 33748 del 2005, ric. Mannino, RV 231671,2,3) per il concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo il capo B) della imputazione, questo ricorrente avrebbe sistematicamente dato appoggio alla struttura associativa capeggiata da B., S., L. e D., fornendo armi da guerra e munizioni, sfruttando i suoi contatti e le sue relazioni nell’ambito della criminalità comune.
Tanto si ricaverebbe dalle conversazioni tenute con il G. e dai successivi controlli e accertamenti compiuti dalla polizia giudiziaria.
Orbene, a prescindere dalla singolarità dell’assunto in base al quale S., pur “trattando” armi, non debba essere chiamato a rispondere della loro detenzione e del loro trasporto (la tesi si deve al giudice di primo grado e quello di appello, in assenza di impugnazione, non ha potuto far altro che prenderne atto), resta il fatto che, come si sostiene nel ricorso, in sentenza non viene indicata una valida ragione in base alla quale S. possa essere ritenuto consapevole del fatto che egli stava favorendo un’associazione criminosa (e quel tipo di associazione), piuttosto che il solo G., con il quale, a quanto la stessa sentenza evidenzia, sembra coltivare propositi delinquenziali “autonomi” (un non meglio specificato “colpo” da eseguire in zona Malpensa), ovvero si lascia andare a confidenze sui suoi trascorsi criminali e sui guadagni conseguiti in passato, suscitando la meraviglia del suo interlocutore il quale gli chiede come mai non si sia “sistemato”.
E ciò sembra poter orientare l’interprete verso la ricostruzione di uno scenario di mero cameratismo criminale tra i due (che non è di ostacolo alla conclusione di “affari”), piuttosto che verso l’ipotesi che S., in piena consapevolezza, rifornisse di armi, tramite G., la struttura eversiva nella quale questo ultimo militava.
Per converso, si deve osservare che certamente S. non poteva ritenere che tutte quelle armi servissero al solo G., ma ciò, di per sé, non basta per ipotizzare che egli sapesse che il predetto era stabilmente inserito in una societas sceleris e che le armi fossero destinate alla stessa.
E’ vero che, in almeno una occasione, S. si incontra con L., ma ciò avviene con l’intervento di G., né si assume che l’incontro sia sintomo del fatto che S. sapesse qual tipo di legame esisteva tra L. e G..
S., poi, si mostra interessato ad acquisire da G. documenti di identità falsificati e G. e L., sembra, hanno intenzione di farseli pagare. Ebbene la circostanza può tanto essere “letta” come uno scambio di prestazioni tra criminali (ovviamente anche G. doveva pagare per le armi che riceveva), quanto come indizio del fatto che S. ben sapeva che G. non operasse uti singulus, ma fosse stabilmente inserito in una struttura associativa.
Per tutte queste ragioni si impone annullamento con rinvio per nuovo esame.
Il giudice del rinvio, ovviamente, terrà conto della eventuale necessità di riqualificare il delitto del capo A) (cui fa riferimento il capo B), come subito di seguito si illustra.
Le censure con le quali si pone il problema della corretta qualificazione giuridica della condotta di cui al capo A) -vale a dire quelle sub 1), nella parte non ancora esaminata (R.), quelle sub 24), 25), 26) (B.., D., G., L., M., S.), e quella sub 53) (G.) sono fondate (non lo è quella sub 28, della quale si dirà) nei sensi sotto specificati.
E’ noto che la più risalente elaborazione giurisprudenziale individuava la differenza tra le fattispecie di cui agli artt. 270 e 270 bis cp nel fatto che la prima sarebbe stata a forma specifica, la seconda (introdotta dall’art. 3 DL 625/1979, conv. in L.15/1980) a forma generica (in tal senso ASN 198300302-RV 160960).
Altra pronunzia (ASN 198806952-RV 178588) sottolineava che l’art. 270 cp mira ad impedire la “soppressione” degli ordinamenti politici e giuridici della società, mentre l’art. 270 bis cp è volto ad impedire la “eversione” dell’ordine democratico, così finalizzandosi, ad obiettività giuridiche rispettivamente diverse, relativamente alle quali il principio di specialità ex art 15 cp impedisce, comunque, pluralità di sanzioni.
Naturalmente, si deve fare riferimento all’assetto normativo dell’epoca: l’art. 270 reprimeva le condotte di quelle strutture associative costituite per stabilire violentemente la dittatura di una classe sociale sull’altra, ovvero a sopprimere violentemente una classe sociale, ovvero ancora a sovvertire, sempre violentemente, gli ordinamenti economici e sociali, giuridici, politici dello Stato, o meglio, come si esprimeva la lettera della legge “ogni ordinamento”.
La specificità della norma, dunque, discendeva dalla specificità dell’obiettivo che si proponevano gli agenti, atteso che l’art 270 bis, viceversa, puniva chi, costituendosi in associazione, mirava alla eversione -genericamente, appunto- dell’ordine democratico.
Le distinzioni intraviste dalle due ricordate sentenze, già di per sé (a giudizio di questo Collegio) non del tutto soddisfacenti (non appare del tutto chiara, nel caso di specie, la contrapposizione genericità/specificità, atteso che anche Ia formula dell’art. 270 appare, a ben vedere, onnicomprensiva, né si riesce a ipotizzare come si possa sopprimere un ordinamento politico senza avere, per lo meno, in progetto un’alternativa, fosse pure quella anarchica), devono comunque ritenersi “superate” alla luce delle modifiche legislative intervenute, che hanno completamente ridisegnato entrambi gli articoli: il DL 374/2001, conv. in L. 438/2001: “Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale”, la L.85/2006: “Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione”, ma -principalmente- ad opera del DL 144/2005, conv. in L. 15/2005, che, introducendo l’art. 270 sexies cp, ha definito le “condotte con finalità di terrorismo”.
In realtà la “finalità di terrorismo” aveva già fatto la sua comparsa nell’art. 280 cp (“Attentato con finalità terroristiche o di eversione”, aggiunto dal DL 625/1979 conv. in L.15/1980, con il connesso art. 280 bis: “Atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi, come sostituito dalla L. 85/2006), così come era stato introdotto nell’ordinamento lo “scopo di terrorismo”, con l’art. 289 bis cp (ad opera del DL 59/1978, conv. in L. 191/1978); al proposito, la giurisprudenza -certamente risalente e in contrasto, per altro, con autorevole dottrina- ribadiva la distinzione tra la finalità di terrorismo e quella di eversione dell’ordinamento costituzionale, che qualificano il sequestro di persona (289 bis), divenendone elemento costitutivo, e devono muovere l’azione del soggetto, della quale il terrorismo o l’eversione costituiscono il particolare obbiettivo (ASN 198703130-RV 175352).
La successiva definizione codicistica (anno 2005), tuttavia (art. 270 sexies, appunto), che recepisce, sul punto, le indicazioni emerse in sede sovrannazionale (Convenzione di New York 8.12.1999, ratificata con L. 7/2003, Decisione-quadro del Consiglio d’Europa n. 164 del 22.6.2002, cfr. ASN 200535427-RV 232280), è inequivoca, stabilendo che devono intendersi connotate dalla finalità di terrorismo quelle condotte:
1) che “per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno a un Paese o a una Organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo ai intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici, o un’Organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto”,
2) che possono “destabilizzare, o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’Organizzazione internazionale,
3) che siano “definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia.
Dunque, la condotta terroristica ha rilevanza penale in sé; tuttavia, quando è tenuta allo scopo di raggiungere gli obiettivi sopra indicati al n. 2 (destabilizzazione/distruzione dei fondamenti politico-costituzionali e/o socio-economici di uno Stato), fa “corpo unico” con tale finalità.
Ma tale opera di destabilizzazione/distruzione, ovviamente, altro non è che la sovversione o eversione violenta di cui all’art. 270 cp (il sottile “distinguo” etimologico che opera la Corte territoriale di secondo grado non pare, francamente, incidente). Invero, tale articolo descrive la condotta come diretta ad attentare agli ordinamenti economici o sociali del nostro Stato, ovvero a sopprimere il suo ordinamento politico e giuridico.
Orbene, posto che il mutamento di tali assetti non è -in sé- vietato, a tanto ostando il dettato dell’art. 49 Cost., ciò che fa “scivolare” la sovversione nel campo del penalmente rilevante è la violenza (“sovvertire violentemente per l’art. 270 cp, “compimento di atti di violenze per l’art. 270 bis cp), vale a dire, per usare ancora le parole del Costituente, l’utilizzo di un metodo non democratico, connotandosi come violenza generica, nel primo caso (art. 270), violenza terroristica, nel secondo (art. 270 bis).
A parere di questo Collegio, invero, quella sopra riportata è l’unica interpretazione che possa giustificare il permanere nell’ordinamento dell’art. 270 cp, dopo l’introduzione dell’art. 270 bis e il loro “rimaneggiamento” ulteriore.
L’art. 270 bis, infatti, come è noto e come anticipato, trova applicazione, tanto nella sfera internazionale (tutelando gli Stati esteri e le Organizzazioni internazionali, cfr. comma secondo), quanto nella sfera interna (è collocato nel libro II, titolo I, “delitti contro la personalità dello Stato”) ed in tale sfera sembra, ad una prima lettura, sovrapporsi al più antico art. 270, entrambi delitti contro la personalità internazionale dello Stato. Invero, sempre rimanendo nella “sfera interna”, a parte l’ampliamento dell’elenco dei soggetti punibili (viene prevista la figura del finanziatore, che non è presente tra i soggetti di cui all’art. 270), si rileva che la fattispecie introdotta posteriormente anticipa la soglia della punibilità e si connota, a sua volta, come delitto di pericolo presunto, volendo reprimere la condotta di chi costituisca, organizzi ecc. associazioni che si “propongano” il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o eversione, mentre l’art 270 cp richiede, per la punibilità, che dette associazioni siano non solo “dirette”, ma anche “idonee” a sovvertire -violentemente- l’ordinamento. Si tratta, in ultima analisi, per quel che riguarda la ipotesi criminosa ex art. 270 cp, dello schema di cui all’art. 56 cp (inequivocità e idoneità degli atti); laddove la “nuova” norma incriminatrice (art. 270 bis cp) punisce, come si è appena anticipato, il “proposito” (ASN 200624994-RV 234345), sempre che, si intende, esso non sia stato in mente retentun (altrimenti ci si avvicinerebbe pericolosamente alla figura del “tipo d’autore”), ma abbia già dato luogo a una struttura associativa, costituita proprio allo scopo di attuare detto proposito, con atti di violenza “qualificata” (ASN 200003486-RV 216253).
Ma, appunto lo maggiore ampiezza della previsione ex art. 270 bis potrebbe determinare, anche per questo verso, la “scomparsa” della fattispecie ex art. 270 cp, “scomparsa”, tuttavia, che il Legislatore non ha decretato, con la conseguenza che compete all’interprete individuare il confine tra le due disposizioni normative. Come si diceva, tale discrimen non può che essere individuato nella natura della violenza utilizzata: generica o terroristica.
II terrorismo, invero, anche se qualificato come “finalità” (artt. 270 bis, 280) o come “scopo” (art. 289 bis) nel codice penale, non costituisce, in genere, un obiettivo in sé, ma, ovviamente, funge da strumento di pressione, da metodo di lotta, da modus operandi particolarmente efferato: si diffonde il panico, colpendo anche persone e beni non direttamente identificabili con l’avversario o riferibili allo stesso, per imporre a quest’ultimo una soluzione che, in condizioni normali, non avrebbe accettato.
Per tale ragione, non si concorda con quella giurisprudenza (ad es. ASN 198711382-RV 17694) che, rispettando alla lettera il dato testuale, ritiene concettualmente distinti e fattualmente sempre distinguibili la “finalità” di terrorismo e quella di eversione.
A ben vedere, infatti, solo la seconda -lo si ribadisce- rappresenta un obiettivo, mentre il primo costituisce un mezzo, o più correttamente, una strategia, che si caratterizza per l’uso indiscriminato e polidirezionale della violenza, non solo perché accetta gli “effetti collaterali” della violenza diretta (ASN 200831389-RV 2411745), ma anche perché essa può essere rivolta in incertam personam, proprio per generare panico, terrore, diffuso senso di insicurezza, allo scopo di costringere chi ha il potere di prendere decisioni a fare o tollerare ciò che non avrebbe fatto o tollerato.
La repressione del terrorismo, in campo internazionale, risponde a una finalità di tutela dello status qua nei rapporti tra Stati e tra questi e Organizzazioni internazionali (ovviamente il giudice italiano non può e non deve esprimersi sul sistema politico-istituzionale di uno Stato estero cfr. ASN 200336776-RV 226049); nella sfera interna, viceversa, rappresenta una “difesa avanzata” dell’ordine democratico (da intendersi come ordine costituzionale, in base all’interpretazione autentica fornita dall’art. 11 L. 304/1982).
Al proposito, la giurisprudenza (ASN 200839504-RV 241859) ha chiarito che non qualsiasi azione politica violenta può farsi rientrare nel concetto di eversione, previsto dal codice penale, ma solo quella che miri al sovvertimento dei principi fondamentali, che formano il nucleo intangibile dell’assetto ordinamentale.
La maggiore dannosità, il più intenso allarme sociale, il più grave pericolo che rappresenta la violenza terroristica per gli assetti istituzionali giustificano una più severa repressione della stessa, rispetto alla generica violenza eversiva (ex art. 270 cp).
Il nucleo del problema, dunque, non si identifica con la contrapposizione tra concretezza e attualità della condotta pericolosa, da un lato, e mera progettualità o potenzialità della stessa, dall’altro, come si adombra nella censura sub 24). Si è già detto, infatti, che trattasi di reati di pericolo presunto, richiedendosi, in un caso, la inequivocità e la idoneità dei mezzi predisposti dalla associazione sovversiva (art. 270 cp), nell’altro, la serietà del proposito eversivo da perseguirsi con atti di terrorismo, in vista dei quali la sacietas contra legem è stata costituita.
La differenza, si ripete, consiste, per questo Collegio, nella natura della violenza che si intende esercitare (terroristica o “comune”). E, da questo punto di vista, sono le censure sub 25) e 26) -relative alla corretta interpretazione del dettato dell’art. 270 sexies- quelle che “aprono la strada” all’accoglimento della censura sub 24) e, in parte qua, di quella sub 53).
Ne deriva, per altro, la inaccoglibilità della censura sub 31).
Per tutto quanto sopra scritto, è evidente che il programma del PCPM era attuale, anche se non attuato, o per meglio dire, in parte aveva cominciato ad esserlo, posto che il tentativo di scassinamento del bancomat in Albignasego, i prodromici furti di autovetture e targhe, la predisposizione di “inchieste”, il procacciamento e il collaudo delle armi stanno chiaramente a provare che lo stadio della mera progettualità o, addirittura, della semplice ideazione, era stato di gran lunga superato.
Tutto ciò premesso, sarebbe stato necessario accertare se la associazione di cui al capo A), che certamente aveva l’intenzione e la capacità di esercitare la violenza, anche con uso di armi, aveva anche intenzione e possibilità di utilizzare metodi terroristici (nel senso dell’art. 270 sexies cp) per conseguire il suo programma di eversione dell’ordine costituzionale, vale a dire, doveva essere chiarito se, nei suoi programmi e nei suoi effettivi progetti, rientrava il proposito di intimidire indiscriminatamente la popolazione, l’intenzione di esercitare costrizione sui pubblici poteri, la volontà di distruggere (o quantomeno di destabilizzare) gli assetti istituzionali nel nostro Paese.
Non è stato sufficientemente chiarito che cosa si dovesse intendere per “propaganda armata”, che figura nelle linee programmatiche del PCPM: se essa dovesse essere rivolta esclusivamente verso obiettivi “di elezione”, in modo da ottenere un effetto paradigmatico, innestando magari meccanismi di emulazione, oppure se si volesse, a tutti i costi, raggiungere determinati risultati di destabilizzazione, accettando anche il rischio di vittime collaterali, o se, addirittura, si volesse colpire indiscriminatamente la popolazione, per suscitare terrore, panico e insicurezza.
A pag. 151 della sentenza si legge che era intenzione degli associati “educare le masse” alla lotta armata contro lo Stato borghese, ottenendo, come risultato finale, la “insurrezione armata dei proletari”. Tutto ciò premesso, però, continua la sentenza, gli imputati esprimevano ferme critiche sulla “deriva militarista”, che aveva caratterizzato la storia delle BR. Essi attendevano il maturarsi della crisi del sistema capitalistico, crisi da sfruttare in una prospettiva eversiva, che doveva essere conseguita attraverso una “guerra popolare prolungata”.
Orbene, non è stato chiarito con quali modalità le azioni progettate o solo ideate (il ferimento di S., l’attentato ad I., il danneggiamento dello “Sportello Biagi”, o dei “Magazzini Alcom”, o della sede del giornale “Libero”) avrebbero dovuto essere portate ad esecuzione.
Si sarebbe trattato, senza dubbio, di azioni violente con riconoscibili finalità eversive, di azioni dirette contro l’ordine costituzionale, ma, per quel che si è detto, non è rimasto accertato se la violenza programmata sarebbe stata “qualificata” da modalità terroristiche, oppure no.
Né soccorre la coesistenza, all’interno del medesimo capo A) del delitto di banda armata ex art. 306 cp, posto che esso si pone (può porsi) pacificamente in concorso, tanto con il delitto di cui all’art. 270, quanto con quello di cui all’art. 270 bis del cp (ASN 198711382-RV 176945). Invero, l’uso della violenza, che si esprima attraverso la progettazione/realizzazione di reati contro la personalità dello Stato e che sia accompagnata dalla concreta disponibilità di armi, integra entrambe le fattispecie criminose (306, da un lato, 270 o 270 bis, dall’altro), che si pongono in rapporto, non di genere a specie, ma di mezzo a fine (ASN 200737119-RV 237768).
Quanto alla struttura della banda armata, è stato chiarito (ASN 199203744-RV 189716) che tale reato si qualifica per il dolo specifico, costituito dallo scopo di commettere delitti contro la personalità interna o internazionale dello Stato, nonché per la organizzazione in banda e la disponibilità di armi; non è però richiesto che la gerarchia interna sia di tipo militare e che ciascun compartecipe sia effettivamente armato, essendo sufficiente la disponibilità e, quindi, la concreta possibilità di utilizzare le armi da parte degli associati.
In tal senso, la censura sub 53) (G.) è da rigettare, nella parte in cui assume la insussistenza del delitto ex art. 306 cp e “propone” che siano rimaste integrate le minori ipotesi ex artt. 304 e 305 cp.
Parimenti da rigettare è la censura sub 27). Si è già detto del rapporto strumentale tra la fattispecie ex art.306 cp e quelle ex artt. 270, 270 bis stesso codice (come, d’altra parte, si deduce chiaramente dallo stesso dettato dell’art. 306). Non può dunque ragionevolmente sostenersi che la societas contro legem, sia il mero presupposto cronologico della banda armata, atteso che detta banda è costituita allo scopo di ottenere, con l’uso delle armi, gli scopi per i quali sono costituite le strutture ex artt. 270 e 270 bis cp.
In ordine alla esistenza di una gerarchia interna, si è già detto.
E allora, tornando al problema della distinzione tra associazione sovversiva e associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, deve concludersi che non è stato compiutamente (e correttamente) sciolto il nodo della esatta qualificazione giuridica del delitto del capo A), atteso che, ferma restando la imputazione di banda armata, si deve chiarire se la stessa sia strumentale rispetto al delitto di cui all’art. 270 o di quello ex art. 270 bis cp.
Sul punto la sentenza impugnata va annullata con rinvio, dovendosi estendere l’annullamento, per la comunanza delle posizioni, anche a T. e S..
Da tutto quanto premesso, discende, a mo’ di corollario, la manifesta infondatezza della censura sub 28). Poiché i delitti associativi sussistono indipendentemente dalla esecuzione dei delitti-fine, non ha alcun senso soffermarsi sulla natura -preparatoria, esecutiva o consumativa- di detti delitti.
La reciproca autonomia tra il procedimento di prevenzione e quello di cognizione (da ultimo, ASN 201120160-RV 250278) comporta che gli stessi possano essere instaurati anche parallelamente e che parallelamente possano avere sviluppo.
Va da sé che, in presenza di meri atti preparatori, troverà applicazione la sola misura di prevenzione, ma, se detti atti siano riducibili a una struttura organizzata, resteranno integrati i reati associativi configurabili nel caso di specie.
Per quel che riguarda la c.d. aggravante di terrorismo (art. 1 L. 15/1980) e la sua compatibilità con i delitti contestati, si possono prendere le mosse dalla risalente giurisprudenza di questa Corte, la quale ebbe ad affermare (ASN 199803241-RV 210681), che, non essendo il terrorismo elemento costitutivo della fattispecie ex art 270 bis cp, l’aggravante in questione ben poteva essere contestata in relazione alla predetta figura criminosa.
E tuttavia, proprio tale considerazione, rende evidente che, una volta modificato l’art. 270 bis cp (ad opera, come si è visto della L. 438/2001), una volta, vale a dire, che la violenza terroristica è entrata a far parte della struttura del reato -anche se l’azione è diretta, non contro uno Stato estero o un’Organizzazione internazionale, ma contro lo Stato italiano- il medesimo elemento non può essere considerato come circostanza aggravante dello stesso.
Né vale dire che, se la ipotesi correttamente contestabile fosse quella di cui all’art. 270 (e non 270 bis) cp, allora la predetta aggravante potrebbe trovare luogo.
Sulla base di tutto quanto premesso, invero, è di tutta evidenza che, se la violenza di cui all’art. 270 avesse connotazioni terroristiche, dovrebbe immediatamente trovare applicazione proprio l’art. 270 bis.
E’ allora evidente che l’aggravante de qua è inapplicabile tanto alla figura incriminatrice ex art 270 bis cp, perché ne è elemento costitutivo, quanto al delitto ex art. 270 cp, integrando quel quid pluris che costituisce la nota di specialità che distingue i due delitti.
Nei sensi e nei limiti sopra indicati, dunque, le censure sub 29) e 30) sono fondate.
La predetta aggravante, tuttavia, può trovare pacificamente applicazione in riferimento agli eventuali delitti-fine che si pongano in relazione con il delitto associativo.
Ne consegue l’annullamento con rinvio, anche su tale punto, competendo al giudice ad quem accertare se la predetta aggravante sia da ritenere sussistente con riferimento ai reati diversi da quelli contestati sub A) e 8).
Le censure relative alla costituzione di PC di I. P. -sub 8), 23), 50)- sono fondate. Quelle sub 9) e 51) restano assorbite.
Contrariamente a quanto ritenuto nel 2009 da questa stessa Sezione (ASN 200900075-RV 242355), questo Collegio ritiene che i delitti ex art. 270 e 270 bis cp non abbiano natura plurioffensiva.
Tale natura non è compatibile con i delitti contro la personalità dello Stato e, ancor più, in particolare, con i delitti contro la personalità internazionale dello Stato, atteso che tali delitti sono diretti contro gli interessi attinenti alla vita dello Stato nella sua essenza unitaria, tranne le ipotesi in cui la condotta dell’agente si appunti direttamente su di una persona fisica (es. art. 280 cp), ovvero consista nella provocazione di un danno materiale diffuso, in grado di attingere una o più persone fisiche (es. artt. 280 bis, 285 cp)
A ben vedere, oltretutto, gli stessi reati associativi non ammettono quali PP.00. soggetti fisici, tanto che, ad es., in relazione al delitto ex art. 416 bis cp, si è giunti a riconoscere la possibilità di costituirsi PC ad enti e associazioni esponenziali di interessi pubblici o diffusi (il comune, le associazioni antiracket ecc. es. ASN 199510371-RV 202736, ASN 199208381-RV 191448), non certo al singolo, vittima, eventualmente, di uno o più reati-fine e, con riferimento ad essi, certamente legittimato alla costituzione di PC.
Il fatto è che va distinta la vittima del reato dalla persona danneggiata dal reato.
Già la risalente giurisprudenza di questa Corte (ASN 198808425-RV 178967) ebbe modo di chiarire che, nella categoria delle persone che subiscono pregiudizio dalla commissione di un reato, occorre distinguere la figura del danneggiato da quella del soggetto passivo. Il primo si identifica in colui che subisce dal reato un danno patrimonialmente valutabile, mentre il soggetto passivo si identifica nel titolare del bene-interesse tutelato dalle norme penali, che viene offeso o posto in pericolo, in via diretta ed immediata, dalla condotta dell’agente. Conseguentemente, il soggetto legittimato all’azione civile non è solo il soggetto passivo del reato, ma anche il danneggiato, ossia chiunque abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all’azione od omissione del soggetto attivo del reato (ASN 201004816-RV 246280; ASN 200804060-RV 239189; ASN 20057259-RV 231210).
Insomma: legittimato all’azione civile è sempre il danneggiato, il quale ben può identificarsi (e in genere così accade) con il soggetto passivo del reato in senso stretto, ma anche con chiunque abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all’azione o all’omissione del soggetto attivo del reato (ASN 200005613-RV 216115).
Ovviamente, mentre, per la vittima del reato, la dimostrazione del danno patito è facilmente desumibile dalla stessa titolarità del bene o dell’interesse tutelato dalla norma e violato dall’agente, detta dimostrazione deve essere data, in maniera stringente dal danneggiato che non sia anche persona offesa.
Nel caso in esame, la sentenza impugnata omette di chiarire quale danno abbia riportato il prof. I. e quale sia il rapporto causale tra l’eventuale danno e la condotta degli imputati, atteso che i propositi delittuosi esplicitati nei suoi confronti -nelle conversazioni intercettate- non furono portati ad esecuzione, né risulta (o almeno non è detto) che lo stesso li abbia percepiti, ricavandone, inevitabilmente, turbamento e preoccupazione.
Detti propositi, per altro, evidentemente, furono noti agli inquirenti. E allora sarebbe stato necessario chiarire se essi ne resero edotto l’I. e adottarono le conseguenti misure o, se, anche senza comunicare con la potenziale vittima, si decise di rafforzare le misure di sicurezza in suo favore, con conseguente, probabile, limitazione (o ulteriore limitazione, nel caso che il predetto fosse stato già sottoposto a tali misure) della sua libertà di movimento e/o della sua privacy.
Su tali questioni dovrà pronunziarsi il giudice del rinvio.
A tal punto, la censura sub 18), ridimensionata nella sua portata, può essere affrontata.
Essa appare comunque generica, in quanto il ricorrente non chiarisce quale rilevanza e quale incidenza la deposizione I., svoltasi, per quel che si legge nel ricorso, parzialmente (controesame) in assenza degli imputati, abbia avuto nelle ricostruzione dei fatti per i quali è processo.
Se essa, come allo stato è ipotizzabile, dato il silenzio sul punto del ricorrente, ha avuto ad oggetto unicamente gli eventuali disagi e le limitazioni che il prof. I. ha dovuto sopportare in conseguenza delle misure di sicurezza assunte a sua tutela, ciò si riverbera -unicamente- sull’accertamento dell’an e del quantum del diritto al risarcimento, vale a dire di una delle problematiche in relazione alle quali è disposto l’annullamento con rinvio.
Conclusivamente: la sentenza impugnata va annullata, con rinvio per nuovo esame, con riferimento: 1) alla imputazione del capo B) (per S.) e del capo A) (per tutti gli altri imputati) per l’esigenza di nuovo esame in ordine alla corretta qualificazione giuridica del fatto nei limiti sopra specificati, 2) alla aggravante di cui all’art. 1 L. 15/1980, con riferimento ai reati per i quali è stata contestata (B., D., G., L., G., S., T., 3) alla ammissione della PC e alle conseguenti statuizioni.
Le censure relative al trattamento sanzionatorio, in esse incluse quelle attinenti al diniego di riconoscimento della continuazione con precedenti condanne (sub 32, 33, 40) restano, ovviamente, assorbite, così come assorbita è la censura sub 13), che replica il contenuto di altre censure, cui già si è fornita risposta.
L’entità del danno da risarcire alla Presidenza del Consiglio dei ministri potrà essere rideterminata all’esito del nuovo giudizio di merito.
Nel resto, i ricorsi devono essere rigettati.
Il giudice del rinvio è da individuarsi in altra sezione della Corte di assise di appello di Milano
PQM
annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della corte di assise di appello di Milano:
– per tutti gli imputati, limitatamente ai capi A) e B), come loro rispettivamente ascritti,
– per i residui reati per i quali è intervenuta condanna, con riguardo agli imputati B., G., G., L., D., S., S., T., limitatamente alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 1 legge 15/1980, rigettando nel resto i ricorsi dei predetti,
– in ordine alla ritenuta ammissibilità della parte civile, I.P..
Così deciso in Roma, in data 21-23 febbraio 2012.
Il presidente – G. Ferrua
L’estensore – M. Fumo
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