Suprema Corte di Cassazione
sezione IV
sentenza 5 gennaio 2016, n. 51
Ritenuto in fatto
1.C.L., ad esito di udienza di convalida di fermo, in esecuzione dell’ordinanza cautelare 1/6/2011 emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Varese, veniva sottoposta alla misura della custodia cautelare in carcere in relazione ai reati di cui agli artt. 81, 609 bis e 609 ter cod. pen., commessi ai danni della figlia minorenne R.P..
2.La misura cautelare permaneva fino al 29 giugno 2011, data nella quale veniva sostituita dalla misura non cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
3.IL Tribunale di Varese con sentenza 15 maggio 2023 assolveva C.L. dalla imputazione ad essa ascritta perché il fatto contestato non sussisteva.
4.In data 473/2014 C.L. presentava domanda di riparazione per la custodia cautelare sofferta
5. La quinta sezione penale della Corte di appello di Milano con ordinanza 16/3/2015 respingeva la domanda.
6. Avverso la suddetta ordinanza proponeva ricorso l’interessata, tramite difensore di fiducia, lamentando vizio di motivazione in relazione alle argomentazioni, poste a sostegno della ritenuta sussistenza di una sua condotta gravemente colposa, contributiva all’emanazione dell’ordinanza custodiale in suo danno.
7. II Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, con ,_requisitoria scritta, chiedeva il rigetto del ricorso
Considerato in diritto
1.II ricorso non è fondato.
2. Occorre in questa sede ribadire che il giudizio penale ed il giudizio per l’equa riparazione sono tra di loro autonomi ed impegnano piani di indagine diversi (quello della sentenza assolutoria di merito, nel quale il giudice penale deve valutare la sussistenza o meno di una ipotesi di reato e la sua riconducibilità all’imputato; e quello della riconsiderazione delle vicende processuali al fine del riconoscimento del diritto all’equa riparazione, nel quale il giudice, ponendosi in una prospettiva ex ante, deve indicare gli elementi della condotta che hanno dato origine all’apparenza di illecito penale, ponendosi come causa o come concausa della detenzione) e che possono portare a conclusioni del tutto differenti (assoluzione nel processo, ma rigetto della richiesta riparatoria) sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti (sottoposto nei due giudizi ad un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di parametri di valutazione differenti).
In particolare, è consentita al giudice della riparazione la rivalutazione dei fatti (non nella loro valenza indiziaria o probante, smentita dall’assoluzione, ma), in quanto idonei a determinare, in ragione di una grave negligenza od imprudenza dell’imputato, l’adozione della misura, traendo in inganno il giudice. Inoltre, quanto alla utilizzabilità del materiale probatorio, va osservato che la procedura riparatoria presenta connotazioni di natura civilistica.
E questa Sezione ha da tempo avuto modo di precisare che: “Il Giudice – basandosi su fatti concreti – deve valutare non se la condotta integri il reato, ma “‘solo se sia stato il presupposto che ha ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurazione come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto”. Gli elementi di valutazione, quindi, non devono essere diversi, mentre è differente l’oggetto di verifica: non più la responsabilità dell’imputato (ragion per cui una sua eventuale assoluzione può non avere alcun rilievo) ma se la sua condotta – seppur in presenza dell’errore altrui – sia stato presupposto della falsa apparenza di integrazione dell’illecito penale, e sia legata in rapporto di causa-effetto con la detenzione” (Sez. 4, sent. n. 2895 del 13/02/2005, 2006,Mazzei, Rv. 232884);
3. Nel caso di specie, il Tribunale di Varese, quale giudice di merito, nella citata sentenza assolutoria, -ha dato atto che i risultati dell’indagine anatomica delineavano un quadro compatibile con pregresse penetrazioni, e che il celebrato dibattimento aveva offerto piena prova degli abusi sessuali subiti da P. R. (nata il 27 dicembre 2002);
-ha assolto C.L., madre della persona offesa, mentre cha dichiarato gli altri due coimputati (C. S. e C. S., fratelli unilaterali della persona offesa) colpevoli per aver compiuto, in Cugliate Fabiasco, dal gennaio 2008 al 12 aprile 2011, in più momenti esecutivi del medesimo disegno criminoso, atti concretanti violenza sessuale nei confronti della sorellastra minore, atti consistiti, quanto a C. S. (che è stata condannata ad anni 5 e mesi 1 di reclusione) nello sfregare ed accarezzare lungamente con la mano la vagina e in penetrazioni con oggetto fallico; e, quanto a C. S. (che è stato condannato ad anni 7 e mesi 1 di reclusione), nello sfregare ed accarezzare lungamente con la mano la vagina, nel penetrare la stessa con il pene e con l’utilizzo di un oggetto fallico, nel percuotere la bambina sulle braccia quando la bambina accennava a resistenza o a diniegi;
– ha precisato che M. C., insegnante della piccola R. presso la scuola primaria paritaria SS Bambina di Brissago Valtravaglia, dopo le vacanze di Natale del 2010, resasi conto di una condotta masturbatoria della piccola a scuola, aveva segnalato la circostanza, dapprima, ai responsabili dell’Istituto scolastico, e, poi, alla madre;
– ha indicato come accertati i seguenti elementi: a) C.L. aveva riferito alla insegnante che la piccola R. anche a casa faceva questo traballamento; b) C.L. non si poneva problemi quando la piccola R. si lamentava che il fratellastro S. C. le faceva male e neppure quando diceva che aveva perso sangue “proprio da lì”; c) C.L. non aveva dato peso non soltanto a quanto la figlia minore, ma anche lo stesso istituto scolastico le andava segnalando; d) C.L., avuto il colloquio con la maestra, aveva detto alla piccola che “certe cose” le doveva fare a casa e non a scuola.
4. Tanto premesso e ribadito, nel caso di specie, non si ravvisano i vizi denunciati dal ricorrente.
L’ordinanza impugnata, invero, si colloca coerentemente e puntualmente nell’alveo del richiamato quadro interpretativo tracciato dalla giurisprudenza di legittimità, in ordine alla valutazione dei fattori colposi ostativi al riconoscimento dell’indennizzo, in tema di riparazione per ingiusta detenzione, in riferimento all’ipotesi di cui all’art. 314, comma 1, cod. proc. pen.
La Corte territoriale, quale giudice della riparazione – dopo aver richiamato il contenuto della sentenza di assoluzione – ha respinto la domanda di riparazione sul presupposto che “il comportamento tenuto da quest’ultima (cioè dalla ricorrente,ndr) nella vicenda in esame, caratterizzato da disarmante leggerezza quando non ha dato peso a quanto non solo la figlia minore, ma l’Istituto scolastico le stava rendendo edotta lanciando l’allarme in ordine agli inusuali comportamenti che la bambina teneva a scuola, non ha soltanto comportato l’abdicazione “totalmente al suo ruolo di madre che ha, come precipuo dovere, quello di tutelare e garantire l’incolumità psico-fisica della sua prole” (sentenza Tribunale Varese, pag. 26), ma, altresì, ha contribuito, in maniera sera ed incontrovertibile, a dare causa, per colpa grave, all’emanazione della custodia cautelare in carcere sofferta nei suoi confronti, perché ha creato l’equivoco nel giudice di essere anche lei partecipe degli illeciti commessi in danno di P. R.”; e sul presupposto delle dichiarazioni rese dalla insegnante M. C. (più volte sentita dai Carabinieri di Marchirolo a sommarie informazioni), che erano state tenute presente dal Giudice della cautela laddove aveva rilevato che “al termine del secondo colloquio con R., quando chiedeva alla stessa che cosa le avesse raccontato la mamma del colloquio avuto con le maestre, la bimba rispondeva che quest’ultima le aveva detto che certe cose doveva farle a casa e non a scuola”.
In definitiva, il rigetto della domanda di riparazione è stato fondato non soltanto sull’aver la C. detto alla figlia che quei “traballamenti” si potevano fare a casa, ma non a scuola, bensì sulla ricostruzione e complessiva valutazione della condotta della madre di fronte alle rivelazioni, da parte della minore, dei comportamenti tenuti nei suoi confronti dal fratellastro, che le faceva tanto male, tanto che “aveva perso sangue proprio da lì”, e, successivamente, sull’essersi limitata, a seguito delle segnalazioni provenienti dalla scuola, a dare indicazioni alla bambina sul luogo dove si potevano fare i traballamenti, senza interrogarsi, come pur avrebbe dovuto a seguito delle segnalazioni dei personale scolastico, le ragioni del segnalato comportamento anomalo da parte della minore. Dunque, il giudice della riparazione ha respinto la domanda in quanto ha addebitato alla richiedente una condotta gravemente colposa consistita nell’abdicazione al proprio ruolo di madre, con i connessi doveri di controllo e di protezione, in guisa da favorire il crearsi dell’apparenza di un suo concorso nelle condotte delittuose in danno della figlia minore. La gravità di tale quadro è stata implicitamente ritenuta non inficiata dalle dichiarazioni rese dalla donna in sede di udienza di convalida (ad esito della quale il fermo non è stato convalidato, ma la misura è stata applicata).
Dunque, il giudice della riparazione ha effettuato del tutto correttamente la autonoma valutazione dei comportamento posto in essere dalla richiedente, secondo una valutazione “ex ante”, cioè a dire in riferimento agli elementi conosciuti dal giudice della cautela al momento dell’emissione dell’ordinanza custodiale; ed ha ritenuto che tale comportamento, qualificato da grave imprudenza, avesse ingenerato la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale – ancorché in presenza di un errore da parte del giudice della cautela – così da dare luogo alla misura custodiale con rapporto di causa ad effetto ed escludere il diritto del ricorrente alla riparazione.
L’iter argomentativo seguito dalla Corte territoriale resiste, allora, alle censure dedotte con il ricorso in esame, atteso che “il sindacato dei giudice di legittimità sull’ordinanza che definisce il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione è limitato alla correttezza del procedimento logico giuridico con cui il giudice è pervenuto ad accertare o negare i presupposti per l’ottenimento dei beneficio indicato. Resta invece nelle esclusive attribuzioni dei giudice di merito, che è tenuto a motivare adeguatamente e logicamente il suo convincimento, la valutazione sull’esistenza e la gravità della colpa o sull’esistenza del dolo (Sez. 4, sent. n. 15143 del 19/02/2003, Macrì, Rv. 224576).
4.- Ne consegue che il ricorso deve essere respinto e che il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Leave a Reply