Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 30 luglio 2014, n. 17277
Svolgimento del processo
1. Con ricorso depositato il 5.7.2012, S.A.E. chiedeva al Tribunale per i minorenni di Catanzaro di essere autorizzata al riconoscimento della figlia T.S. , nata il (omissis) fuori dal matrimonio, già riconosciuta da T.G. , con conseguente immediato affidamento della minore.
Dalle indagini esperite dal Tribunale per i minorenni a seguito del riconoscimento del T. , non era risultata la compatibilità biologica, onde era stato nominato curatore speciale al fine di impugnare il riconoscimento del T. : questi veniva sospeso dalla potestà genitoriale, con contemporanea nomina di un tutore provvisorio.
Nel giudizio per il riconoscimento da parte della S. , si costituiva in giudizio l’avv. Paola Garofalo curatore speciale, chiedendo di essere estromessa dal giudizio. Si costituiva anche l’avv. C.L.L. , tutore provvisorio, chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, e nel merito, stante l’inidoneità della madre naturale, il rigetto del ricorso.
2. Avverso la sentenza di primo grado, che f preso atto dell’opposizione al riconoscimento manifestata dal tutore della minore, rigettava il ricorso, proponeva appello la S.A.E. .
3. Con sentenza depositata il 15.7.2013, la Corte d’appello di Catanzaro dichiarava inammissibile l’azione proposta dalla S. , non risultando l’opposizione di T.G. , titolare del diritto di esprimere il consenso al riconoscimento materno: a quest’ultimo il sistema attribuisce la prestazione dell’assenso al secondo riconoscimento, come facoltà iure proprio, e non in rappresentanza del minore o nell’esercizio della potestà, mentre nel t.u. in materia di stato civile si prescinde dal consenso prestato dal tutore.
4. Ricorre per cassazione l’avv. C.L.L. , affidandosi a tre motivi.
Non ha spiegato difese la S..
Motivi della decisione
1.1. Con il primo motivo di ricorso, C.L.L. , denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto in seno all’esatta applicazione degli artt. 45, 46 e 47 d.p.r. 3.11.2000 n. 396 (t.u. stato civile) in relazione all’art. 250, primo comma, e 343 c.c., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, censura la sentenza impugnata per aver dichiarato inammissibile l’azione proposta dalla S. , ed essere entrata nel merito, ordinando all’Ufficiale di stato civile di non esimersi dall’annotazione del riconoscimento in calce all’atto di nascita della minore, con una prescrizione la cui efficacia esecutiva è potenzialmente pericolosa per la stessa, mentre l’Ufficiale avrebbe dovuto chiedere il consenso al rappresentante legale della minore e non al genitore sospeso dalla potestà, il cui intervento è stato talvolta ammesso al solo fine di stabilire la verità biologica.
1.2. Con il secondo motivo di ricorso, C.L.L. , denunciando violazione dell’art. 250, secondo e terzo comma c.c. (vecchia applicazione) in relazione all’art. 45 d.p.r. 396/00 e all’art. 1366 c.c., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, relativo alla capacità genitoriale della S. , censura la sentenza impugnata per aver trascurato la fondamentale funzione del tutore, la cui chiamata in causa è strumento imprescindibile ove si debba interloquire sull’interesse del minore, specie ove i genitori siano in conflitto, tenendo conto che al fanciullo deve essere assicurata la possibilità di essere ascoltato sia direttamente che attraverso un rappresentante, laddove la riabilitazione di un soggetto sospeso dalla potestà genitoriale crea una libertà sganciata da responsabilità, tanto più che il consenso del genitore sospeso è nella specie funzionale ad un atto precario, destinato ad essere travolto, essendo in corso la causa di impugnazione del riconoscimento da parte di lui, promossa dal curatore speciale, come è evidente l’inidoneità della madre, che ha segnato dannosamente il primo percorso della neonata; l’affermazione del giudice… che l’ordinanza del Tribunale per i minorenni sia rimasta senza esito è inoltre in contrasto con quanto emergente dal procedimento, ovvero con il rifiuto di consenso del tutore, unica figura idonea ad esprimerlo, e che la madre ha richiesto il riconoscimento all’Ufficiale di stato civile solo successivamente al deposito dell’inammissibile ricorso ex art. 250 c.c..
1.3. Con il terzo motivo C.L.L. , denunciando violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione all’art. 12 disp. prel. c.c., censura la sentenza impugnata per aver cercato di individuare il soggetto abilitato a prestare il consenso con ricorso all’analogia, precluso dalla specialità della materia, anziché ai principi generali dell’ordinamento, in cui il tutore rappresenta il minore in ogni caso in cui lo stesso abbia qualità di parte nel procedimento, con il risultato di tutelare l’interesse di un genitore solo presunto e non del minore.
2.1. Il presente giudizio ha ad oggetto l’autorizzazione al riconoscimento, da parte della madre, di figlia nata fuori dal matrimonio, successivamente al riconoscimento del padre. Esso è iniziato anteriormente all’entrata in vigore della l. 10.12.2012 n. 219, che con l’art. 3, ne ha attribuita la competenza al Tribunale ordinario, con l’eliminazione del richiamo all’art. 250 e. e, in precedenza contenuto nel primo comma dell’art. 38 disp. att. c.c. Correttamente, dunque, della controversia, ha conosciuto il Tribunale per i minorenni.
Va aggiunto, sempre in tema di ius superveniens, che le modifiche al codice civile apportate dalla l. 19.12.2012 n. 219, in tema di riconoscimento, si applicano ai figli nati o concepiti anteriormente all’entrata in vigore della stessa (art. 104, comma 8, d.lgs. 28.12.2013 n. 154).
2.2. L’azione è stata promossa dalla madre, nei confronti del tutore della minore, in quanto il padre, autore del primo riconoscimento, è stato sospeso dalla potestà genitoriale a seguito della promozione dell’azione di disconoscimento della paternità, da parte di curatore speciale nominato a tale limitato scopo.
Non risultando una manifestazione, positiva o negativa di consenso, e nella ritenuta inabilità ad esprimerlo da parte del titolare, data la sospensione della potestà, la madre ha ritenuto di adire direttamente il giudice minorile nell’intento di ottenere una sentenza sostitutiva di quel consenso.
Va premesso che in tale tipo di giudizi, il minore assume la veste di parte necessaria, ed il giudice ha il potere di nominare un curatore speciale: in tal senso la sentenza 11.3.2011, n. 83 della Corte costituzionale, interpretativa di rigetto della questione di legittimità dell’art. 250 c.c., in riferimento agli art. 2, 3, 24, 30, 31 e 111 Cost. (confermata dalla successiva ordinanza 10.11.2011, n. 301).
La minore è presente in giudizio, in persona del tutore. Il curatore speciale, attesa la limitatezza delle funzioni per cui è stato nominato, è stato estromesso. Il padre si è costituito in primo grado associandosi alle deduzioni della ricorrente. Il tutore, però, si è arrogato il potere, assegnato dall’art. 250, terzo comma, c.c., al padre che per primo ha effettuato il riconoscimento, di esprimere il consenso, ed in concreto l’ha negato, sicché è venuta a determinarsi una singolare situazione per cui egli rappresenta la minore come parte necessaria nel giudizio di cui all’art. 250, quarto comma, c.c. (e in quanto tale, pare di capire, è stato convenuto in giudizio), ma nello stesso tempo ha assunto la veste di contraddittore della madre che aspira al secondo riconoscimento.
Ne consegue che, ove la tesi del tutore ricorrente nel giudizio di cassazione per veder riconosciuta la propria legittimazione ad opporsi al secondo riconoscimento risultasse fondata, alla cassazione della sentenza che viceversa ne ha riconosciuta l’esclusiva prerogativa al padre, pur sospeso dall’esercizio della potestà, la causa dovrebbe regredire al primo grado, in cui, ove si ravvisasse conflitto d’interesse, sarebbe necessaria la nomina di un curatore speciale della minore, nei confronti del quale integrare il contraddittorio.
L’art. 250 c.c. stabilisce che debba essere sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone al riconoscimento (salvo che, per ragioni di età o per altre circostanze da indicare con specifica motivazione, il minore stesso non sia in grado di sostenere l’audizione). Tale adempimento dimostra che il minore infraquattordicenne, nella vicenda sostanziale e processuale che lo riguarda, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica, essendo implicati nel procedimento suoi rilevanti diritti e interessi, collegati all’accertamento del rapporto genitoriale, derivandone che al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 c.c.. Come ha ritenuto la Corte costituzionale con la sentenza poco sopra citata, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento, qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale. Il che si verifica a maggior ragione ove ad opporsi al riconoscimento sia stato il tutore che si sia surrogato al potere del genitore.
2.3. I tre motivi di ricorso, convergono nella critica alla sentenza della Corte d’appello di Catanzaro, nella parte in cui ha adottato, quale presupposto per la dichiarazione d’inammissibilità dell’azione proposta dalla S. in funzione del proprio riconoscimento di figlio naturale, la spettanza dell’espressione del consenso all’autore del primo riconoscimento della minore, anziché al tutore della minore, in costanza di sospensione dalla potestà genitoriale. Per questo vanno esaminati congiuntamente.
3.1. Il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio è collegabile a un diritto primario, di diretta discendenza costituzionale (art. 30 Cost.). Ad esso corrisponde un precipuo interesse del minore ad acquisire uno status familiare, che, nel caso di concepimento all’interno del matrimonio, è soddisfatto ipso iure dall’appartenenza a quella famiglia, mentre, negli altri casi, trova riscontro nel riconoscimento, in genere operato da entrambi i genitori o da uno solo al momento della nascita.
Anche fuori dal matrimonio il riconoscimento è esercizio della paternità, che non trova ostacoli o condizionamenti.
Pur nell’ipotesi in cui, fuori dal matrimonio, sia già avvenuto il riconoscimento di uno dei genitori, non può negarsi che anche l’altro sia titolare di un diritto primario: questa Corte ha reiteratamente affermato che esso non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso, atteso il diritto del bambino ad identificarsi come figlio di una madre e di un padre e ad assumere così una precisa e completa identità (Cass. 10.5.2001, n. 6470; 22.10.2002, n. 14894).
La legge ha posto, in tale seconda ipotesi, la condizione dell’assenso del figlio che abbia compiuto quattordici anni (così per effetto dell’art. 1, comma 2, 1. 219/12, che ha abbassato il limite fissato a sedici anni dall’art. 102 L. 19.5.1975 n. 151: curiosamente, l’art. 45 d.p.r. 3.11.2000 n. 396, non è stato emendato dalla recente riforma, continuando a porre il limite a sedici anni). Per i figli infraquattordicenni, il secondo riconoscimento è condizionato al consenso che il genitore che per primo ha riconosciuto deve esprimere sulla domanda del secondo genitore.
Sulla ratio di tale previsione, e sulla soluzione da adottare ove il consenso non possa essere espresso (in caso di rifiuto si apre un procedimento destinato ad approdare a una sentenza “che tiene luogo del consenso mancante”: così il quarto comma dell’art. 250 c.c.), non vi è unanimità di vedute, mentre riguardo all’incidenza del consenso nel conseguimento dello status di figlio riconosciuto, prevale la tesi che si tratti di condizione di efficacia della volontà manifestata dal genitore riconoscente, malgrado la diversa espressione normativa (il riconoscimento “non può avvenire senza il consenso”) rispetto all’assenso del figlio quattordicenne (senza il quale “il riconoscimento non produce effetto”).
L’ordinamento riconnette al fatto della procreazione la posizione di figlio ed il relativo status, a tutela di una fondamentale esigenza della persona, dalla quale deriva il diritto alla affermazione pubblica di tale posizione, laddove l’evoluzione dell’istituto verso la parificazione con la posizione del figlio legittimo, completata dalla l. 219/12, consente di riportare lo stato di figlio ad un concetto unitario, scevro da discriminazioni.
Il favor filiationis si identifica idealmente nella presenza di due genitori, sicché anche ove sia avvenuto il riconoscimento di uno solo, si può parlare di una presunzione di interesse del minore al secondo riconoscimento, sotto il profilo spirituale non meno che sotto quello dei diritti all’istruzione, educazione, mantenimento ad esso conseguenti (Cass. 11.3.1998, n. 2669; 26.11.1998, n. 12018), atteso il diritto del bambino ad identificarsi come figlio di una madre e di un padre e ad assumere così una precisa e completa identità (Cass. 10.5.2001, n. 6470; 22.10.2002, n. 14894; 8.8.2003, n. 11949; 11.2.2005, n. 2878), inteso come diritto ad una genitorialità piena e non dimidiata (Cass. 3.11.2004, n. 21088): interesse che dunque può essere sacrificato – anche alla luce degli artt. 3 e 7 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, del 20.11.1989 (resa esecutiva con 1. 27.5.1991, n. 176) – solo in presenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da far ravvisare la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore (Cass. 3.4.2003, n. 5115).
Si è anche dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 250 c.c., nella parte in cui condiziona il secondo riconoscimento al consenso del genitore autore del primo, anche se la questione fu ritenuta irrilevante dalla Corte costituzionale (ord. 16.6.1988, n. 686). Come pure, si è ritenuta 1’irrilevanza della questione dal diverso punto di vista del genitore che per primo compie il riconoscimento, nella parte in cui non è prevista, anche per lui, un’autorizzazione giudiziale volta a controllarne l’idoneità, involgendosi scelte legislative discrezionali (Corte cost. 19.1.1987, n. 8).
Il differente trattamento dell’uno e dell’altro genitore trova giustificazione nella diversificazione delle situazioni, alla stregua del tempo in cui vengono rispettivamente espresse le volontà di operare il riconoscimento, tenuto anche conto che nelle disposizioni costituzionali attinenti ai rapporti fra genitori e figli manca una tutela piena ed incondizionata del diritto al riconoscimento, che valga a non consentirne un contemperamento con gli interessi del figlio (Cass. 13.11.1986, n. 6649).
Con la riforma del 1975, quando fu introdotta la regola, l’interesse del figlio minore, se legittimo, a far parte della sua famiglia era talmente indubitabile da non meritare alcuna indagine caso per caso che sortisse l’esito di temperare il tradizionale automatismo nella costituzione del rapporto. In caso di filiazione naturale, invece, difettando un progetto educativo comune, manifestato con il doppio riconoscimento contestuale al momento della formazione dell’atto di nascita, sembrava necessaria una maggior protezione per il figlio naturale rispetto al figlio legittimo, perché erano prese in considerazione le concrete circostanze in cui si svolgeva la sua vita. A guardare con l’occhio d’oggi, però, ci si avvede che la regola della filiazione naturale era fondata su un presupposto discriminatorio, che la filiazione legittima avesse un valore sociale più alto, sicché la soddisfazione dell’interesse del figlio minore nell’appartenervi era in re ipsa, mentre la filiazione naturale ne avesse uno inferiore, tale da richiedere una valutazione caso per caso.
Le mutate concezioni giuridiche e sociali che hanno indotto ad uniformare la disciplina in materia di filiazione consentono ora di assegnare al consenso del primo genitore un rilievo sempre più marginale, che diventa recessivo di fronte al favor filiationis, alla spinta normativa alla bigenitorialità, al diritto primario del genitore ad effettuare il riconoscimento, tanto da qualificarlo, da parte di alcuni, come una sorta di residuo storico, che la recente riforma avrebbe perso l’occasione di eliminare. La formulazione dell’art. 250 c.c., che instaura una pregnante connessione tra il consenso e l’interesse del minore, consente semmai di attribuire all’intervento del primo genitore il ruolo di una mera sollecitazione alla verifica di tale interesse, che peraltro ha luogo solo ove egli abbia espresso un rifiuto.
La modifica della norma, per effetto dell’art. 1, comma 2, l. 219/12, che semplifica il procedimento prevedendo una sorta di interpello al primo genitore, invitato ad una eventuale opposizione giudiziale a conferma del rifiuto espresso davanti all’Ufficiale di stato civile (artt. 45-47 d.p.r. 3.11.2000 n. 396), è ulteriore elemento rivelatore della marginalizzazione del consenso, tendenzialmente recessivo rispetto all’aspirazione al riconoscimento di entrambi i genitori.
L’intento del legislatore del 2012 è appunto di salvaguardare, per quanto possibile, la relazione tra il figlio e il genitore che riconosce per secondo. Il termine di trenta giorni che la norma assegna al genitore che rifiuta il consenso serve a verificare la sua effettiva determinazione di insistere nel rifiuto. Nel caso in cui l’opposizione venga proposta, se è palesemente fondata il giudice la accoglie, altrimenti detta i provvedimenti provvisori e urgenti a recuperare la relazione tra genitore e figlio. Con la decisione finale il giudice accoglie l’opposizione, oppure pronuncia sentenza che tiene luogo del consenso mancante. In questo caso, e si tratta di una novità rilevante, il giudice assume anche i provvedimenti opportuni in ordine all’affidamento, al mantenimento del figlio e al suo cognome, al fine di recuperare la relazione anche con il genitore che fino a quel momento non è stato presente nella vita di lui.
L’applicazione giurisprudenziale ha assecondato l’aspirazione alla bigenitorialità, precludendo il secondo riconoscimento, ove vi sia stata opposizione del “primo” genitore, solo in presenza di motivi gravi ed irreversibili, tali da far ravvisare la probabilità di una forte compromissione dello sviluppo psico-fisico del minore (Cass. 10.5.2001, n. 6470; 22.10.2002, n. 14894; 8.8.2003, n. 11949; 11.2.2005, n. 2878; 3.1.2008, n. 4). 3.2. In altre occasioni si ritenne che il consenso del genitore che per primo ha riconosciuto il figlio nato fuori dal matrimonio, richiesto quando il figlio non abbia ancora compiuto i sedici anni, e non sia quindi munito della capacità di apprezzare direttamente l’opportunità dell’atto, non è ricollegabile a posizioni soggettive proprie del genitore stesso, ma si giustifica esclusivamente per il suo potere di rappresentare il minore e, quindi, di valutarne l’interesse morale e materiale rispetto al secondo riconoscimento (potere di rappresentanza che viene poi. esercitato anche nell’eventuale giudizio promosso con ricorso avverso il rifiuto del consenso, ove la qualità di parte in senso sostanziale spetta al minore). Pertanto, il decesso o la sopravvenuta incapacità di detto genitore non rende libero il secondo riconoscimento del figlio infrasedicenne, ma implica che l’indicata valutazione compete a chi assuma la rappresentanza del minore, cioè al tutore o ad un curatore speciale (salva restando la rilevanza di quell’evento quale elemento da considerare per vagliare il concreto interesse del minore, anche nel suddetto giudizio) (Cass. 21.10.1980, n. 5636; 10.11.1988, n. 6059).
In altra occasione, però, nell’affermare che il genitore che ha riconosciuto il figlio ancora minore di sedici anni e che si oppone o comunque non da il consenso al riconoscimento da parte dell’altro genitore, è litisconsorte necessario nel procedimento da quest’ultimo promosso per conseguire la sentenza sostitutiva del consenso mancante, si è escluso possa avere rilievo che sia stato dichiarato decaduto dall’esercizio della potestà genitoriale, non afferendo il richiesto consenso all’esercizio di tale potestà ma soltanto allo status di genitore che abbia già effettuato il riconoscimento (Cass. 6.2.1987, n. 1181).
3.3. La prima tesi si fonda sulla teoria della rappresentanza, nel senso che qualora il minore non sia in grado, per immaturità presunta in modo assoluto dal legislatore (art. 250, secondo comma, c.c.), di esprimere assenso al secondo riconoscimento (la volontà del minore è comunque vincolante, anche se di segno negativo), è il rappresentante legale che si dovrebbe pronunciare, evidentemente alla stregua di un atto che è espressione della capacità di agire della persona, anticipata al solo limitato fine, al compimento del quattordicesimo anno di età.
Per il minore infraquattordicenne, dunque, è il genitore che ha espresso il primo riconoscimento che dovrebbe pronunciarsi, nell’esercizio di quella che oggi, in termini più pregnanti, la recente riforma in tema di filiazione ha contraddistinto come “responsabilità genitoriale”. Ne consegue che in caso di decesso o perdita della capacità da parte del genitore, il potere di pronunciarsi spetterebbe al tutore, o ad un curatore espressamente nominato dal giudice. E ove si pronunci in senso negativo, nel successivo giudizio di verifica dell’interesse del minore, questi deve esser rappresentato da un curatore speciale.
3.4. In realtà, il soggetto che in ragione dell’età del figlio, è chiamato ad esprimersi sulla domanda del genitore che intenda procedere al secondo riconoscimento (art. 250, terzo comma, c.c.), non compie lo stesso atto che il figlio esprimerebbe se avesse compiuto quattordici anni, ma un atto che è considerato dalla legge tipologicamente distinto, ed al quale riconduce effetti diversi.
Non è casuale che il figlio è chiamato a dare il proprio “assenso”, mentre il genitore primo riconoscente esprime il “consenso”. Nel primo termine l’etimologia suggerisce una manifestazione che “si aggiunge” ad un oggetto, con il secondo termine una espressione che converge a produrre lo stesso effetto dell’atto che gli è omogeneo, perché proveniente da soggetto titolare dello stesso diritto.
Il figlio tutela in via esclusiva e vincolante il proprio status, sul presupposto che superato il quattordicesimo anno di età, egli sia in grado di valutare i vantaggi o i pregiudizi dell’acquisto dello stato di filiazione: il potere di assentire al riconoscimento è esso stesso proiezione della personalità del titolare, ed il relativo atto è da considerare atto personalissimo, che non richiede conferme o verifiche.
Diversamente, il genitore che ha già riconosciuto il figlio coopera con l’altro genitore che intenda riconoscerlo tardivamente, facendo uso di un potere che discende direttamente dalla paternità (o maternità), e che è di natura assimilabile al potere di riconoscimento dell’altro genitore: tale potere gli è attribuito dalla legge, sull’assunto che avendo con il minore un rapporto consolidato non solo sotto il profilo giuridico ma (almeno tendenzialmente) anche sotto quello affettivo, sia in grado di valutarne l’interesse.
Si è detto che il potere di consentire al secondo riconoscimento non si pone in termini di contrapposizione con l’interesse del minore, ma come misura ed elemento di definizione dello stesso. Ciò non significa che esso non possa essere motivato da intenti (alla cui base stanno interessi) tendenzialmente coincidenti con l’interesse del minore, ma da quest’ultimo soggettivamente (quando non emotivamente) distinti.
Se può opinarsi una prevalente casistica di opposizioni dettate da motivi di risentimento nei confronti dell’altro genitore, non possono escludersi rifiuti fondati su ragioni oggettive, quali la certezza (o almeno la supposizione) dell’assenza di un rapporto biologico tra il secondo genitore e il figlio, o anche la resistenza ad accettare che l’acquisizione del nuovo status possa comportare 1’ingresso del minore in una nuova situazione familiare di cui sono partecipi soggetti (il partner dell’altro genitore e i figli di questo) estranei a chi dovrebbe consentire, ed anche alla consuetudine di vita fino a quel momento osservata dal minore, tanto più alla luce della nuova formulazione dell’art. 74 c.c..
3.5. La struttura della norma appare più congeniale a tale ricostruzione, posto che l’interesse del minore è posto dal quarto comma dell’art. 250 c.c. come criterio di verifica sulla legittimità dell’esercizio del potere di consentire, laddove il terzo comma si limita, semplicemente, a prevederlo come condizione agli effetti del secondo riconoscimento.
Il secondo genitore è portatore di un proprio interesse, che viene tuttavia garantito solo in quanto coincidente con l’interesse del minore.
Il consenso non può essere rifiutato, nella più recente formulazione del quarto comma, “se risponde all’interesse del figlio”. L’espressione appare concessiva, riguardo all’apprezzamento di chi è chiamato a pronunciarsi, di un margine di soggettività, che quale ne sia il movente, può o meno essere rispondente all’interesse del figlio. Sicché, per riprendere la casistica cui sopra si è fatto cenno, l’aspirazione ad assicurare al figlio la continuità nella consuetudine di vita finora osservata può essere oggettivamente conforme all’interesse del figlio, anche se dettata da intenti egoistici.
L’autonomia dell’apprezzamento che sta alla base del dissenso (giacché al consenso seguirebbe automaticamente la pienezza degli effetti del secondo riconoscimento), non toglie che il giudice debba valutare oggettivamente l’interesse del minore, muovendo da quella presunzione di interesse del minore al secondo riconoscimento che la giurisprudenza unanimemente ha riconosciuto, cosicché il rifiuto del consenso deve ritenersi ingiustificato in mancanza di specifici motivi che asseverino un concreto pregiudizio per il minore (Cass. 4 febbraio 1993, n. 1412; 11 marzo 1998, n. 2669; 24.5.2000, n. 6784). 3.6. La soggettività della valutazione che induce il primo genitore a consentire o meno al secondo riconoscimento Xè un corollario della paternità (o della maternità), che poco ha a che fare con la capacità di agire o anche con la “potestà genitoriale” (nella quale, viceversa, le pronunce all’inizio citate ammettono la surrogabilità ad opera del tutore), ma soltanto allo status di genitore che abbia già effettuato il riconoscimento, che pur privo della responsabilità genitoriale perché decaduto o sospeso da essa, è tenuto a vigilare sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio (art. 316, quinto comma, come già l’art. 311-bis, terzo comma, c.c.).
Il consenso del primo genitore, se il figlio è infraquattordicenne, non può che essere considerato come indissolubilmente legato alla persona del primo genitore.
A riprova di quanto finora osservato, si rifletta sulla circostanza per cui, nell’ambito delle azioni a tutela della filiazione, l’iniziativa per la dichiarazione della paternità o maternità può essere assunta, da soggetti diversi dal figlio, solo in quanto ciò è espressamente previsto dalla legge (art. 270 c.c.: discendenti; art. 273 c.c.: genitore che esercita la responsabilità genitoriale e tutore, ma quest’ultimo deve anche chiedere autorizzazione al giudice tutelare). Il tutore, pertanto, oltre a rappresentare il minore negli atti civili, pur se tenuto alla cura della persona del minore (art. 357 c.c.), può assumere iniziative riconducibili alla sfera personalissima del tutelato solo in quanto a ciò espressamente autorizzato.
3.7. Spetta solo al genitore di consentire al secondo riconoscimento, legittimando, in caso contrario, l’altro genitore a promuovere l’azione per ottenere sentenza sostitutiva, in un procedimento in cui il primo è contraddittore necessario, come il minore, rappresentato dal tutore.
La ricostruzione ha oltretutto il pregio di evitare l’ibridazione di funzioni che in capo al tutore verrebbe a crearsi, dando luogo alle questioni di rappresentanza processuale di cui all’inizio si è fatto cenno, perché a ben vedere, qualora si ammettere il tutore ad opporsi al secondo riconoscimento, esso si surrogherebbe non tanto al figlio, quanto al genitore non più esistente o incapace.
Va da sé che, coerentemente, ove il genitore sia deceduto, non vi è necessità di attribuire ad alcuno l’iniziativa ad opporsi ad un secondo riconoscimento, nella stessa misura in cui l’ordinamento non prevede autorizzazioni o verifiche per il primo riconoscimento.
4. La sentenza impugnata, nell’ammettere l’infungibilità del consenso da parte del genitore che per primo ha riconosciuto la figlia minore pur nella sospensione dalla responsabilità genitoriale, e nel postulare, conseguentemente, la necessità di completare la procedura amministrativa di fronte all’Ufficiale di stato civile per l’acquisizione di quel consenso, ha dichiarato l’inammissibilità dell’azione volta a ottenere la sentenza sostitutiva del consenso. Essa è immune da censure. Il ricorso va rigettato. Non v’è luogo a provvedere sulle spese di questo giudizio, non essendosi l’intimata costituita. Va osservato che vertendosi in materia esente dal contributo unificato, non v’è luogo a provvedere ex art. 13, comma 1-quater d.p.r. 30.5.2002 n. 115.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del’art. 52 d.lgs. 198/03, in quanto imposto dalla legge.
Leave a Reply