SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
Sentenza 30 gennaio 2014, n. 4331
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 4 giugno 2012 il Tribunale di Lodi ha condannato P.G. alla pena di Euro 200 di ammenda per il reato di cui all’articolo 4, comma 2, L. 300/1970 per avere, quale legale rappresentante di una s.n.c., installato un impianto audiovisivo di controllo a distanza dei lavoratori delle casse del suo supermercato senza accordo con le rappresentanze sindacali e senza autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro.
2. Ha presentato appello – poi convertito in ricorso – il difensore adducendo due motivi. Il primo motivo denuncia la violazione dell’articolo 4, comma 2, L. 300/1970: insufficiente sarebbe a integrare il reato la installazione dell’impianto, essendo necessaria anche la verifica della sua idoneità a cagionare concrete conseguenze dannose ai lavoratori. Nel caso in esame il reato non sussiste perché le modalità delle riprese non sono tali da ledere la riservatezza di questi. Il secondo motivo richiede la concessione del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale: la sentenza è contraddittoria laddove afferma che, per la modestia della sanzione pecuniaria, è più favorevole non concedere i benefici, ciò essendo logico, invece, solo per la sospensione condizionale.
Considerato in diritto
3. Il ricorso è infondato.
3.1 II primo motivo adduce violazione dell’articolo 4, comma 2, L. 300/1970, negando che l’installazione dell’impianto audiovisivo sia di per sé integrativa della condotta criminosa. La norma, invero, stabilisce: “Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti”. La norma, tuttora vigente pur non trovando più (cfr. Cass. sez. III, 24 settembre 2009 n. 40199) sanzione nell’articolo 38, comma 1, sempre dello Statuto dei lavoratori dopo la soppressione del riferimento all’articolo 4 nel suddetto articolo 38, comma 1, operata dall’articolo 179 d.lgs. 196/2003 (che colma la lacuna con il combinato disposto dei suoi articoli 114 e 171), prevede una condotta criminosa rappresentata dalla installazione di impianti audiovisivi idonei a ledere la riservatezza dei lavoratori, qualora non vi sia stato consenso sindacale (o autorizzazione scritta di tutti i lavoratori interessati: Cass. sez. III, 17 aprile 2012 n. 22611) o permesso dall’Ispettorato del lavoro. Secondo il ricorrente, tuttavia, non è sufficiente l’installazione dell’impianto, occorrendo anche una “successiva verifica della sua idoneità”: e poiché l’impianto “è stato eseguito in conformità al progetto allegato alla richiesta di autorizzazione in seguito approvato, è palese che il reato non sussiste perché le modalità delle riprese visive, peraltro effettuate soltanto dopo ottenuta l’autorizzazione della D.P.L., non sono tali da ledere la privacy dei lavoratori”. Che l’idoneità degli impianti a ledere il bene giuridico protetto, cioè il diritto alla riservatezza dei lavoratori, sia necessaria affinché il reato sussista emerge ictu oculi dalla lettura del testo normativo – idoneità che peraltro è sufficiente anche se l’impianto non è messo in funzione, poiché, configurandosi come un reato di pericolo, la norma sanziona a priori l’installazione, prescindendo dal suo utilizzo o meno -. L’esistenza di tale idoneità, invece, si colloca sul piano fattuale, per cui sono inammissibili al riguardo le doglianze del ricorrente. Ad abundantiam si osserva comunque che tale accertamento è stato effettuato, come emerge dalla descrizione dell’impianto nella sentenza impugnata, impianto inclusivo di otto microcamere a circuito chiuso, “alcune puntate direttamente sulle casse”: ed è dei lavoratori alle casse che l’imputazione contesta la violazione della privacy.
3.2 Il secondo motivo lamenta la mancata concessione del beneficio di cui all’articolo 175 c.p., sulla base del fatto che il Tribunale sarebbe incorso in “una macroscopica contraddizione” laddove ha ritenuto più favorevole all’imputato non concedere i benefici di legge, il che non sarebbe condivisibile quanto alla non menzione nel certificato del casellario giudiziale. Il motivo è manifestamente infondato, poiché – se lo si intende, conservativamente, come denuncia di vizio motivazionale – non sussiste incongruità nel ragionamento del Tribunale, in quanto il modestissimo livello dell’ammenda (Euro 200) logicamente incide in senso negativo sull’opportunità di concedere qualunque beneficio di legge. Peraltro, non si può non rilevare che lo stesso imputato, nelle sue conclusioni, non ha chiesto la concessione di alcun beneficio di legge e che, qualora in sede di merito non sia stato richiesto il beneficio della non menzione, la sua mancata concessione non è deducibile con il ricorso per cassazione (Cass. sez. IV, 29 ottobre 2008 n. 43125).
Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale emessa in data 13 giugno 2000, n.186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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