Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 3 luglio 2014, n. 15239
Svolgimento del processo
1. Con atto di citazione del 24 e 25 settembre 2004 R.M. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Pavia, il prof. P.S. ed il Policlinico S. Matteo affinché fossero condannati al risarcimento dei danni conseguenti ad un intervento chirurgico alla testa da lui subito nel (omissis) , all’età di poco più di un anno, dal quale era derivata, a suo dire, la completa cecità. Tale situazione era conseguente al fatto che il sanitario aveva eseguito un intervento chirurgico diverso da quello concordato, non necessario ed assai più pericoloso di quello stabilito anche con il pediatra che aveva in cura il bambino.
Il Tribunale respinse la domanda e compensò le spese, accogliendo la preliminare eccezione di prescrizione sollevata dai convenuti.
2. Proposto appello da parte del R. , la Corte d’appello di Milano, con sentenza del 4 febbraio 2008, ha rigettato il gravame, ha confermato l’impugnata sentenza ed ha compensato le spese del giudizio di secondo grado.
Ha osservato la Corte territoriale – richiamando ampi stralci della motivazione resa dal Tribunale di Pavia e condividendone le ragioni – che, poiché l’intervento risaliva al 4 febbraio 1985 ed il primo atto interruttivo della prescrizione era costituito da una lettera raccomandata inviata al Policlinico il 30 dicembre 1998, era comunque decorsa sia la prescrizione quinquennale che quella decennale. Sicché, per poter ritenere esistente ancora un margine di azione nei confronti degli appellati, l’unico mezzo era quello di configurare, nella specie, l’ipotesi del delitto di lesioni volontarie gravissime, soggetto all’epoca alla prescrizione di anni quindici, estensibile anche a fini civili in base alla previsione dell’art. 2947 del codice civile.
Tuttavia, anche ammettendo che il prof. P. avesse eseguito l’intervento al cranio del piccolo M. contro l’espressa volontà dei genitori ed in colpevole volontario inadempimento del contratto professionale concluso, secondo la Corte ciò non consentiva comunque di configurare il reato di lesioni volontarie. A tale conclusione la Corte ambrosiana è pervenuta richiamando la precedente giurisprudenza sull’argomento, ponendo in evidenza come la liceità dell’attività chirurgica, sia pure fondata sul principio del consenso informato, escluda che si possa raffigurare il delitto di lesioni dolose “per il solo fatto che l’intervento praticato dal medico chirurgo sia difforme da quello consentito dal paziente o, addirittura, in relazione ad esso il paziente abbia manifestato la propria contrarietà”.
La Corte ha quindi riconosciuto che la prescrizione del diritto si era comunque maturata.
3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Milano propone ricorso R.M. , con atto affidato a quattro motivi.
Resistono con separati controricorsi il prof. P. e la Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo.
Il ricorrente ha presentato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., degli artt. 113 e 115 cod. proc. civ., oltre a vizio di motivazione circa la ritenuta sussistenza, nella specie, di un atto terapeutico eseguito a regola d’arte.
Rileva il ricorrente che, in base ai principi di questa Corte in materia di responsabilità professionale del sanitario, il paziente è tenuto a dimostrare la fonte legale o negoziale della sua pretesa, mentre grava sul medico e sulla struttura ospedaliera l’onere di provare di aver adempiuto alle proprie prestazioni a regola d’arte.
Nella specie, egli sostiene di aver dimostrato che, all’epoca dei fatti, i suoi genitori avevano concordato col prof. P. lo svolgimento di un intervento chirurgico meno invasivo e pericoloso; il medico, invece, eseguì senza il consenso dei genitori un intervento di rimodellamento delle ossa del cranio, con finalità meramente estetiche, che aveva poi condotto alla cecità. L’atto terapeutico, quindi, doveva ritenersi non legittimo in quanto non autorizzato dal consenso.
La Corte di merito, quindi, avrebbe erroneamente riconosciuto la natura di atto terapeutico dell’intervento svolto, mentre ne mancavano, nella specie, tutti i presupposti; il che dovrebbe comportare la qualificazione del fatto in termini di lesioni volontarie.
2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 13 e 32 della Costituzione, degli artt. 50 e 51 cod. pen. e dell’art. 33 della legge 23 dicembre 1978, n. 833.
Secondo il ricorrente, il trattamento chirurgico richiede, per poter essere considerato lecito, il consenso dell’avente diritto, salvo il caso dello stato di necessità. Da tanto dovrebbe conseguire che, in assenza di tale consenso, l’attività chirurgica sarebbe da ritenere contra legem.
3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 42, 43, 582 e 583 cod. pen., per aver ritenuto insussistente il delitto di lesioni personali gravissime per carenza di dolo, senza considerare la sufficienza del dolo generico.
Richiamando la giurisprudenza di questa Corte in materia, il ricorrente rileva che l’intervento chirurgico eseguito in assenza di consenso integra il reato di lesioni, colpose ove il medico ritenga per errore esistente il consenso, dolose in caso di consapevolezza di tale mancanza. Nella specie, invece, la Corte d’appello, ritenendo che l’attività chirurgica sia di per sé legittima, non avrebbe tenuto conto del fatto che l’intervento non giustificato dal consenso sarebbe fonte di illecito penale.
4. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine al comportamento del prof. P. , perché l’impugnata sentenza non avrebbe in alcun modo motivato sul fatto che il chirurgo aveva svolto un intervento diverso da quello concordato.
5. Rileva la Corte che i quattro motivi, benché formulati in modo tra loro diverso, affrontano nella sostanza i medesimi problemi e possono, quindi, essere decisi congiuntamente, in considerazione dell’intima connessione che li connota.
5.1. Al fondo di tutte le doglianze sta la censura alla decisione della Corte d’appello di Milano la quale, in conformità a quanto già deciso dal Tribunale, ha ritenuto di escludere in radice la stessa possibilità di configurare – a carico del sanitario convenuto in giudizio – il reato di lesioni volontarie; reato che sarebbe l’unico, stante la previsione sanzionatoria di cui all’art. 583, secondo comma, n. 2), cod. pen., a determinare l’innalzamento della relativa prescrizione fino a quindici anni, in tal modo rendendo astrattamente possibile che l’azione civile proposta nel presente giudizio sia da ritenere non ancora prescritta.
È evidente, quindi, che l’odierno ricorso pone all’esame di questa Corte il delicato problema della configurabilità, a carico del medico che esegua un intervento chirurgico per il quale non vi è consenso da parte del paziente, del reato di lesioni volontarie. La tesi centrale del ricorrente è, infatti, che il prof. P. eseguì in suo danno – quando egli aveva circa un anno di età – un intervento chirurgico sul quale i genitori non avevano, all’epoca, manifestato il loro consenso, intervento dal quale derivò la sua cecità; sicché il chirurgo dovrebbe essere chiamato a rispondere in sede civile dei danni, avendo commesso il reato di lesioni volontarie gravissime.
5.2. La materia, com’è noto, è stata al centro di un lungo e travagliato dibattito da parte della giurisprudenza penale di questa Corte, che qui non è necessario ripercorrere analiticamente in tutte le sue tappe, essendo sufficiente compiere alcuni sintetici richiami.
La Corte d’appello ha già dato conto, nella propria motivazione, delle due note sentenze 21 aprile 1992, n. 5639, Massimo, e 29 maggio 2002, n. 26446, Volterrani, la seconda delle quali ha smentito e superato la precedente. Mentre la sentenza Massimo aveva riconosciuto, infatti, la possibilità di configurare il delitto di lesioni volontarie a carico del chirurgo che, in assenza di necessità e di urgenza terapeutiche, sottoponga il paziente ad un intervento diverso e più grave di quello concordato, la sentenza Volterrani ha ammesso solo l’astratta configurabilità del reato di violenza privata.
Dopo la pronuncia della Corte d’appello di Milano impugnata in questa sede, la giurisprudenza penale ha compiuto ulteriori e significativi interventi, che vanno qui richiamati.
Ci si riferisce, in particolare, alla sentenza delle Sezioni Unite 18 dicembre 2008, n. 2437, Giulini, ed alle sentenze 16 gennaio 2008, n. 11335, Huscher, e 26 maggio 2010, n. 34521, Huscher. Si tratta, in tutti questi casi, di pronunce molto complesse, che hanno affrontato casi di notevole gravità, connotati dalla formulazione, a carico dei sanitari incriminati, di gravissimi reati.
Nella sede odierna è opportuno limitarsi a rammentare le principali conclusioni alle quali sono giunte le citate pronunce.
La sentenza n. 11335 del 2008, che è la prima in ordine cronologico, nel confermare i principi della sentenza Volterrani, ha precisato che, in tema di trattamento medicochirurgico, qualora, in mancanza di un valido consenso informato ovvero in presenza di un consenso prestato per un trattamento diverso, il chirurgo esegua un intervento da cui derivi la morte del paziente, non è configurabile il reato di omicidio preterintenzionale, poiché la finalità curativa comunque perseguita dal medico deve ritenersi concettualmente incompatibile con la consapevole intenzione di provocare un’alterazione lesiva dell’integrità fisica della persona offesa, invece necessaria per l’integrazione degli atti diretti a commettere il reato di lesioni richiesti dall’art. 584 del codice penale.
Le Sezioni Unite – la cui sentenza è stata emessa in relazione ad un caso di responsabilità per intervento chirurgico diverso e più demolitorio rispetto a quello concordato, e tuttavia eseguito in conformità alle regole dell’arte, in base ad una scelta corretta ed obbligata – hanno affermato il principio secondo cui non integra il reato di lesione personale, né quello di violenza privata la condotta del medico che sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, nel caso in cui l’intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, essendo da esso derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute del paziente, in riferimento anche alle eventuali alternative ipotizzabili e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte dello stesso.
Rimaneva ancora aperto il dubbio circa la rilevanza penale del comportamento del medico nel caso in cui l’intervento chirurgico non voluto, o comunque non concordato, avesse avuto esito infausto; punto sul quale è intervenuta la citata sentenza n. 34521 del 2010, che aveva dinanzi un caso di estrema gravità, nel quale pure si discuteva della possibilità di configurare il reato di omicidio preterintenzionale. In quella occasione la Corte ha affermato che “non risponde del delitto preterintenzionale il medico che sottoponga il paziente ad un trattamento non consentito – anche se abbia esito infausto e anche se l’intervento venga effettuato in violazione delle regole dell’arte medica – se comunque sia rinvenibile nella sua condotta una finalità terapeutica o comunque la terapia sia inquadrabile nella categoria degli atti medici. In questi casi la condotta non è diretta a ledere e, se l’agente cagiona la morte del paziente, risponderà di omicidio colposo se l’evento è da ricondurre alla violazione di una regola cautelare. Risponderà invece di omicidio preterintenzionale il medico che sottoponga il paziente ad un intervento (dal quale poi consegua la morte), in mancanza di alcuna finalità terapeutica, per fini estranei alla tutela della salute del paziente; come quando provochi coscientemente un’inutile mutilazione o agisca per scopi estranei alla salute del paziente (scopi scientifici o di ricerca scientifica, sperimentazione, scopi dimostrativi, didattici o addirittura esibizionistici, scopi di natura estetica ovviamente non accettati dal paziente)”.
5.3. La giurisprudenza civile di questa Corte si è pure soffermata in numerose occasioni sul problema del consenso informato e sul valore del medesimo ai fini della legittimazione all’atto terapeutico; partendo dal presupposto che ogni intervento chirurgico è, di per sé, un atto lesivo dell’integrità fisica, questa Terza Sezione si è pronunciata più volte sulla portata che detto consenso deve avere per poter essere qualificato tale, nonché sulla necessità che esso sia completo anche in ordine ai rischi che si pongono in caso di una pluralità di possibili scelte terapeutiche e chirurgiche (v., tra le altre, le sentenze 30 luglio 2004, n. 14638, 14 marzo 2006, n. 5444, 9 febbraio 2010, n. 2847, 13 luglio 2010, n. 16394, 27 novembre 2012, n. 20984, 20 agosto 2013, n. 19220 e 11 dicembre 2013, n. 27751).
Si è detto, in proposito, che, “per ravvisare la sussistenza di nesso causale tra lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente (realizzatosi mediante l’omessa informazione da parte del medico) e lesione della salute per le, pure incolpevoli, conseguenze negative dell’intervento (tuttavia non anomale in relazione allo sviluppo del processo causale: Cass., n. 14638/2004), deve potersi affermare che il paziente avrebbe rifiutato l’intervento ove fosse stato compiutamente informato, giacché altrimenti la condotta positiva omessa dal medico (informazione, ai fini dell’acquisizione di un consapevole consenso) non avrebbe comunque evitato l’evento (lesione della salute)” (sentenza n. 2847 del 2010 cit.).
Come pure questa Corte ha affermato che non assume alcuna influenza, “ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato, la circostanza che il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno. Sotto tale profilo, infatti, ciò che rileva è che il paziente, a causa del deficit di informazione non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi confronti, una lesione di quella dignità che connota l’esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica” (sentenza n. 19920 del 2013 cit.).
6. Ritiene peraltro questo Collegio che l’odierna dolorosa vicenda debba essere risolta sulla base di alcuni semplici elementi di fatto che, correttamente evidenziati da entrambi i giudici di merito, sono fuori discussione.
Proprio alla luce dei precedenti giurisprudenziali sopra richiamati – fra i quali assumono un peso decisivo le pronunce emesse in sede penale, stante la questione circa la astratta configurabilità, nel caso in esame, del delitto di lesioni volontarie gravissime – occorre mettere in evidenza che il ricorrente non ha mai prospettato l’ipotesi di un errore commesso dal chirurgo nell’esecuzione dell’intervento, e meno che meno di un errore commesso intenzionalmente. L’odierno ricorrente si è limitato a sostenere che il medico eseguì un intervento chirurgico più rischioso rispetto a quello programmato e concordato, in allora, con i suoi genitori; senza mai ipotizzare né un dissenso espresso da parte di questi ultimi, né, tantomeno, l’astratta configurabilità di una sorta di animus nocendi da parte del prof. P. . In altri termini, tornando ad utilizzare la terminologia della citata sentenza n. 34521 del 2010 della Cassazione penale, nessuno ha mai contestato che nell’operato del sanitario fosse comunque ravvisabile una “finalità terapeutica”, per cui l’atto chirurgico compiuto era di sicuro “inquadrabile nella categoria degli atti medici”. Non essendo in discussione, quindi, la configurabilità di una condotta intenzionalmente diretta a ledere, l’unica ipotesi di reato che si potrebbe profilare è soltanto quella delle lesioni colpose; fattispecie rispetto alla quale il termine prescrizionale – a prescindere dalle modifiche introdotte in argomento dall’art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, la cui applicabilità è del tutto irrilevante – è certamente da tempo decorso.
7. In conclusione, i motivi di ricorso sono tutti privi di fondamento; sicché il ricorso è rigettato, enunciandosi il seguente principio di diritto:
“In tema di responsabilità civile da trattamento sanitario ed ai fini dell’individuazione del termine prescrizionale per l’esercizio dell’azione risarcitoria, non è ipotizzabile il delitto di lesioni volontarie gravi o gravissime nei confronti del medico che sottoponga il paziente ad un trattamento da questo non consentito (anche se abbia esito infausto e anche se l’intervento venga effettuato in violazione delle regole dell’arte medica), se comunque sia rinvenibile nella sua condotta professionale una finalità terapeutica o comunque la terapia sia inquadrabile nella categoria degli atti medici. In questi casi, infatti, la condotta non è diretta a ledere e, se l’agente cagiona lesioni al paziente, è al più ipotizzabile il delitto di lesioni colpose se l’evento è da ricondurre alla violazione di una regola cautelare”.
A tale pronuncia segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate per ciascuno dei controricorrenti in conformità ai soli parametri introdotti dal decreto ministeriale 10 marzo 2014, n. 55, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate per ciascuno dei controricorrenti in complessivi Euro 4.200, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.
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