Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 26 maggio 2014, n. 21256
Ritenuto in fatto
1. – Con sentenza del 14 febbraio 2013, la Corte d’appello di Salerno ha confermato la sentenza del Tribunale di Salerno del 24 marzo 2009, con la quale l’imputato era stato condannato, per il reato di cui agli artt. 517 cod. pen. e 4, comma 49, della legge n. 350 del 2003, perché, in qualità di legale rappresentante di una società, presentava alla dogana per l’immissione in consumo 3636 stendibiancheria di origine cinese recanti ognuno la bandiera italiana e la scritta “Idea Club stendibiancheria”, segni idonei ad indurre in errore il consumatore sulla effettiva provenienza della mercé (reato commesso il 31 agosto 2007).
2. – Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si sostiene che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, perché l’art. 16, comma 6, del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito dalla legge n. 166 del 2009, ha inserito nell’art. 4 della legge n. 350 del 2003 il comma 49-bis, il quale – secondo la difesa – è stato interpretato dalla Corte di cassazione nel senso che attualmente costituiscono illeciti amministrativi le indicazioni fallaci da cui possano derivare situazioni di incertezza indotte dalla carenza di indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque non sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto; mentre continua a costituire delitto l’ipotesi d’uso del marchio di denominazione di provenienza di origine con false indicazioni idonee ad indurre il consumatore ritenere che il prodotto sia di origine italiana. Quanto al caso di specie, l’apposizione della bandiera italiana e la dicitura “prodotto di qualità attestato a norma Europea” determinano al più una situazione di incertezza, riconducibile alla fattispecie depenalizzata.
2.2. – Con un secondo motivo di ricorso, si evidenzia l’erronea applicazione dell’art. 4, comma 49, della legge n. 350 del 2003 e dell’art. 517 cod. pen., perché non si sarebbe considerato che, secondo dette disposizioni, l’imprenditore può affidare a terzi l’incarico di produrre materialmente, secondo le modalità stabilite con l’imprenditore medesimo, un bene, sul quale potrà poi imprimere il proprio marchio e altri segni distintivi, indipendentemente dal luogo in cui questo è stato effettivamente prodotto. In particolare, l’apposizione della bandiera italiana, alla quale si riconnette – nell’ipotesi accusatoria – la volontà decettiva rispetto al radicamento del processo produttivo sul territorio italiano, è costitutiva in parte del marchio dell’importatore, come emerge dalla scheda di registrazione dello stesso.
2.3. – Con un terzo motivo di doglianza, si rilevano la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione della sentenza, perché si sarebbe omesso di valutare che: trattandosi di stendibiancheria, non esiste alcun connubio tra oggetto e territorio; il marchio è un marchio complesso composto dalla dicitura, da un triangolo rovesciato, dalla bandiera italiana, da una farfalla stilizzata; l’altra dicitura incriminata (“prodotto di qualità attestato a norma Europea”) non riconduce il prodotto all’origine italiana dello stesso.
Considerato in diritto
3. – Il ricorso è infondato.
3.1. – Il primo motivo di doglianza – relativo alla pretesa depenalizzazione della fattispecie ad opera del comma 49-bis dell’art. 4 della legge n. 350 del 2003, aggiunto dal comma 6 dell’art. 16, del d.l. 25 settembre 2009, n. 135, con la decorrenza indicata nel comma 7 dello stesso articolo 16, e poi modificato dal comma 1-quater dell’art. 43, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, nel testo integrato dalla legge di conversione 7 agosto 2012, n. 134 – è infondato.
3.1.1. – Tale disposizione – entrata in vigore dopo il fatto per il quale si procede e, dunque, eventualmente applicabile nel caso in esame se più favorevole, ai sensi dell’art. 2, secondo comma, cod. pen. – prevede che: “Costituisce fallace indicazione l’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la mercé sia di origine italiana ai sensi della normativa Europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto. […] Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 10.000 ad Euro 250.000”.
Il precedente comma 49 – nel testo vigente al momento del fatto, cui deve farsi riferimento nel caso in esame, non essendo intervenute successive modifiche in senso più favorevole all’imputato – prevede, invece, che: “L’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell’articolo 517 del codice penale. Costituisce falsa indicazione la stampigliatura made in Italy su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa Europea sull’origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la mercé sia di origine italiana incluso l’uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli, fatto salvo quanto previsto dal comma 49-bis. Le fattispecie sono commesse sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l’immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio. La fallace indicazione delle merci può essere sanata sul piano amministrativo con l’asportazione a cura ed a spese del contravventore dei segni o delle figure o di quant’altro induca a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana. La falsa indicazione sull’origine o sulla provenienza di prodotti o merci può essere sanata sul piano amministrativo attraverso l’esatta indicazione dell’origine o l’asportazione della stampigliatura made in Italy”.
Il rapporto tra le due diposizioni, quanto alla “fallace indicazione”, disciplinata e sanzionata in modo diverso dall’uno e dall’altra, è regolato dalla clausola di riserva contenuta nel comma 49.
In particolare, ai sensi del richiamato comma 49, la disciplina sanzionatoria penale trova applicazione – come visto – nel caso in cui, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, vi sia l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la mercé sia di origine italiana incluso l’uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli; disciplina contenuta – per la parte che qui rileva – nell’art. 21, comma 1, alinea e lettera b), del d.lgs. n. 146 del 2007, a norma del quale è ingannevole una “una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo” l’origine geografica o commerciale del prodotto.
Tale è la definizione di “fallace indicazione” del richiamato comma 49, il quale – nel testo attualmente vigente – fa però espressamente salva la disciplina della “fallace indicazione” di cui al comma 49-bis.
L’elemento differenziale peculiare di tale ultima disposizione rispetto a quella del comma 49 è costituito dalla mancanza di “indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero [dalla mancanza di] attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto”.
Ne consegue che, quando il marchio ha di per sé una natura decettiva, trova applicazione la sanzione penale del comma 49. L’ambito di applicazione della sanzione amministrativa di cui all’art. 49-bis è riservato, invece, al caso – obiettivamente meno grave – in cui il marchio non sia in sé decettivo, ma il prodotto sia commercializzato in mancanza di indicazioni sulla sua origine, che siano precise o comunque sufficienti ad evitare fraintendimenti da parte dei consumatori.
3.1.2. – Venendo al caso in esame, deve rilevarsi che l’ipotesi contestata all’imputato, che ha trovato conferma all’esito dell’istruttoria espletata, è quella della presentazione alla dogana per l’immissione in consumo di stendibiancheria di origine cinese recanti sulla confezione una bandierina italiana, con indicazioni tutte nella sola lingua italiana e con la dicitura “prodotto di qualità testato a norma Europea”. La difesa non ha contestato tale ricostruzione del fatto, ma ha appuntato le sue critiche sulla circostanza che la bandiera italiana farebbe parte del marchio legittimamente apposto sui prodotti e che non sarebbe, dunque, idonea ad attestare falsamente l’avvenuta produzione in Italia.
Tale prospettazione è stata motivatamente ritenuta erronea dalla Corte d’appello, la quale ha evidenziato che la decettività dell’indicazione rappresentata da una parte del marchio (la bandiera italiana, appunto) integra proprio la fattispecie di cui al richiamato comma 49, perché realizza un uso del marchio stesso idoneo a conseguire un obiettivo ingannatore nei confronti del consumatore. Non si verte, dunque, nelle ipotesi della semplice mancanza di indicazioni o della incertezza sulla provenienza, sanzionate in via amministrativa dal comma 49-bis, perché nella fattispecie in esame vi è un plus rappresentato proprio dalla inclusione nel corpo dello stesso marchio dell’elemento oggettivamente decettivo rappresentato dalla bandiera italiana, cui si aggiunge, quale ulteriore fattore di decettività, la dicitura “prodotto di qualità testato a norma Europea”. Si tratta di una dicitura che, pur non contenendo un richiamo esplicito all’Italia, contribuisce – secondo la logica e coerente valutazione dei giudici di secondo grado – a far ritenere al consumatore che la bandiera italiana inclusa nel marchio si riferisca proprio alla produzione del bene in Italia, quale paese membro dell’Unione Europea.
3.1.3. – Il complesso di tali considerazioni induce a ritenere non fondato il primo motivo di ricorso, ma si attaglia anche al terzo motivo e a parte del secondo, laddove si sostiene, in sostanza, che l’inclusione di elementi astrattamente riconducibili alla produzione del bene in Italia nell’ambito del marchio sarebbe di per sé idonea a scongiurare una recettività, anche potenziale, di tali elementi.
Si è appena osservato, infatti, che l’inclusione di elementi decettivi nel marchio non solo non fa venire meno la decettività di tali elementi ma costituisce ragione sufficiente per l’applicazione della sanzione penale di cui al comma 49, il cui ambito di applicazione è proprio quello dell’uso improprio di marchi contenenti elementi decettivi.
Ne deriva l’infondatezza anche di tali censure.
3.2. – Del pari infondate sono le restanti doglianze formulate con il secondo motivo di ricorso, relative alla mancata considerazione, da parte dei giudici d’appello, del fatto che l’imprenditore può affidare a terzi l’incarico di produrre materialmente, secondo le modalità stabilite con l’imprenditore medesimo, un bene, sul quale potrà poi imprimere il proprio marchio e altri segni distintivi, indipendentemente dal luogo in cui questo è stato effettivamente prodotto.
3.2.1. – Quanto a tale profilo, devono qui essere confermati e richiamati i principi espressi dalla giurisprudenza di questa Corte, la quale ha, in primo luogo, precisato che, relativamente ai prodotti industriali, per “provenienza ed origine” della mercé non deve intendersi (ad eccezione delle specifiche ipotesi espressamente previste dalla legge) la provenienza della stessa da un certo luogo di fabbricazione, totale o parziale, bensì la sua provenienza da un determinato imprenditore che si assume la responsabilità giuridica, economica e tecnica della produzione e si rende garante della qualità del prodotto nei confronti degli acquirenti. In particolare, quando il marchio corrisponda effettivamente alla ditta che si assume la responsabilità e la garanzia della qualità della mercé, è irrilevante che la ditta italiana sia stata solo importatrice o abbia anche partecipato alla produzione della mercé, dal momento che essa si è comunque resa garante della qualità della mercé stessa nei confronti degli eventuali acquirenti (sez. 3, 21 ottobre 2004, n. 3352/2005, rv. 231110; sez. 3, 17 febbraio 2005, n. 13712, rv. 231831; sez. 3, 19 aprile 2005, n. 34103, rv. 232397; sez. 3, 2 marzo 2005, n. 23043, rv. 234468; sez. 3, 24 gennaio 2007, n. 8684, rv. 236087; sez. 3, 15 marzo 2007, n. 27250, rv. 237812; sez. 3, 28 settembre 2007, n. 166/2008, rv. 238560; sez. 3, 9 febbraio 2010, n. 19746).
Si è altresì specificato che lo strumento che rassicura il mercato sulla qualità del prodotto è il marchio, registrato o no, che si configura come segno distintivo del prodotto medesimo, nella forma di un emblema o di una denominazione. La triplice tradizionale funzione del marchio (indicare la provenienza imprenditoriale, assicurare la qualità del prodotto e agire come suggestione pubblicitaria) non è modificata neppure nella realtà economica contemporanea, nella quale numerosi imprenditori si. avvalgono legittimamente di imprese situate in altri paesi per fabbricare i propri prodotti contrassegnati da un proprio marchio distintivo (sez. 3, n. 13712 del 2005; sez. 3, n. 19746 del 2010). Né è richiesto dalla disciplina del marchio che venga pure indicato il luogo di fabbricazione perché non imposto dalla legge e perché non sussiste per l’imprenditore l’obbligo di informare che egli non fabbrica direttamente i prodotti (ex multis, sez. 3, n. 3352 del 2005).
3.2.2. – Nella richiamata sentenza n. 19746 del 2010 si precisa espressamente, però, che tali principi riguardano i soli casi in cui non vi siano diciture o simboli che implicitamente o esplicitamente attestino che il prodotto è stato fabbricato in Italia o comunque in un paese diverso da quello di effettiva fabbricazione. Qualora invece simboli o diciture di tal fatta siano presenti – come nel caso in esame – trova applicazione la norma sanzionatoria di cui al più volte richiamato comma 49, il cui scopo è proprio quello di garantire che, nell’ambito di un mercato caratterizzato dalla delocalizzazione del processo produttivo al di fuori dell’Unione Europea, lo svolgimento delle fasi di tale processo produttivo non sia oggetto di falsa attestazione da parte del produttore o dell’importatore.
4. – Il ricorso deve essere dunque rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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