Suprema Corte di Cassazione
sezione I
sentenza 2 dicembre 2015, n. 24560
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RORDORF Renato – Presidente
Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – rel. Consigliere
Dott. ANZZICONE Loredana – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 17831-2012 proposto da:
(OMISSIS), (OMISSIS), domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso l’avvocato (OMISSIS), rappresentati e difesi dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 707/2011 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 19/05/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/11/2015 dal Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE;
udito, per i controricorrenti, l’Avvocato (OMISSIS) che ha chiesto il rigetto del ricorso e chiede la condanna alle spese;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.- (OMISSIS) e (OMISSIS) hanno convenuto in giudizio (OMISSIS) e (OMISSIS) per sentire dichiarare che l’azienda agricola Maioli, intestata soltanto a (OMISSIS), era in realta’ costituita sotto forma di impresa collettiva e che essi erano soci di fatto insieme ai fratelli, (OMISSIS) e (OMISSIS), anch’essi evocati in giudizio, con richiesta di determinazione delle quote di ciascuno e di condanna al versamento degli utili maturati e al deposito del rendiconto.
2.- Il Tribunale di Firenze ha rigettato la domanda, ritenendo non provato che gli attori collaborassero nell’impresa agricola come soci e non come semplici partecipi dell’impresa familiare ex articolo 230 bis c.c..
3.- Gli attori hanno proposto appello, deducendo che si trattava di un’impresa collettiva (sotto forma di societa’ semplice), non individuale, costituita dai componenti della famiglia coltivatrice che, a suo tempo, aveva designato (OMISSIS) quale rappresentante degli interessi comuni.
4.- Il gravame e’ stato rigettato dalla Corte d’appello di Firenze, con sentenza 19 maggio 2011. Ad avviso della Corte, non v’era prova che si trattasse di impresa collettiva riconducibile alla figura dell’impresa familiare coltivatrice di cui alla Legge 3 maggio 1982, n. 203 e vi erano elementi che facevano ritenere il contrario: l’impresa era iscritta alla Camera di commercio come impresa individuale intestata a (OMISSIS), il quale era unico titolare del conto corrente aziendale, mentre il figlio (OMISSIS) era soltanto delegato ad operare su di esso e ad occuparsi (insieme alla moglie (OMISSIS)) degli ordini relativi al settore zootecnico; (OMISSIS) era effettivo e autonomo gestore dell’azienda, era titolare dei diritti e delle obbligazioni nascenti nei rapporti con i terzi e illimitatamente responsabile anche con i suoi beni personali; inoltre, i familiari non partecipavano agli utili e alle perdite, a conferma dell’insussistenza di una societa’ di fatto. Inoltre, la domanda di distribuzione degli utili era infondata, non essendo essi destinati alla ripartizione tra i partecipanti, ma al reimpiego nell’azienda e all’acquisto di beni, e la domanda di rendiconto non era stata riproposta in appello.
5.- Avverso questa sentenza (OMISSIS) e (OMISSIS) ricorrono per cassazione sulla base di quattro motivi, cui resistono (OMISSIS) e (OMISSIS).
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- Il primo motivo denuncia violazione della Legge n. 203 del 1982, articolo 48, articoli 230 bis, 832, 2251, 2257 e 2262 ss. c.c. e articolo 11 preleggi, per avere erroneamente ritenuto che incombesse agli attori provare il carattere collettivo dell’impresa, in tal modo omettendo di considerare che l’istituto dell’impresa familiare di cui all’articolo 230 bis c.c., contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza impugnata, sarebbe applicabile solo quando non sia configurabile un diverso rapporto che, nella specie, sarebbe quello dell’impresa familiare coltivatrice, di cui alla Legge n. 203 del 1982, articolo 48, riconducibile allo schema della societa’ semplice.
Il secondo motivo denuncia violazione dell’articolo 2135 c.c., articoli 112, 113 e 115 c.p.c. e vizio di motivazione, per avere erroneamente ritenuto che elemento caratterizzante dell’impresa familiare coltivatrice sia la manifestazione all’esterno dell’affectio societatis, mentre al contrario sarebbe sufficiente che i componenti dell’impresa prestino l’attivita’ lavorativa in modo continuativo per la conduzione in comune dell’azienda, come avevano fatto gli attori, i quali erano proprietari dei fattori della produzione e avevano esercitato l’attivita’ di coltivazione del fondo, allevamento del bestiame e vendita dei prodotti, con contatti diretti versi i fornitori e gli acquirenti, anche se poi per comodita’ amministrativa le fatturazioni erano state a nome di (OMISSIS); inoltre, non vi sarebbe prova e sarebbe contestato che quest’ultimo svolgesse attivita’ di coordinamento o di gestione dell’impresa.
1.1.- I suddetti motivi, da esaminare congiuntamente, sono infondati. I ricorrenti non contestano ai giudici di merito di non avere correttamente individuato o interpretato la disciplina normativa della questione controversa, bensi’ di avere erroneamente ravvisato, nella situazione di fatto in concreto accertata, la ricorrenza degli elementi costitutivi di una determinata fattispecie normativa, cioe’ di quella ex articolo 230 bis c.c.. La censura si traduce nella pretesa di pervenire ad una diversa ricostruzione della situazione di fatto dell’impresa, contrapponendo alla ragionevole valutazione dei giudici di merito una prospettazione in senso difforme, senza lo svolgimento di argomentate critiche alla completezza e logicita’ delle ragioni della decisione.
2.- Il terzo motivo denuncia violazione degli articoli 230 bis, 2253, 2263 e 2265 c.c., nonche’ articoli 112, 113 e 409 c.p.c., per avere omesso di pronunciare sulla domanda di accertamento delle quote e degli utili o degli importi comunque denominati da attribuire a ciascun compartecipe, sulla base dell’erroneo presupposto dell’applicazione dell’articolo 230 bis c.p.c., anziche’ della normativa sulla societa’ semplice.
2.1.- Il motivo e’ infondato.
La Corte d’appello ha pronunciato sulla predetta domanda, rigettandola, e la decisione e’ conforme a diritto. Gli attori hanno partecipato ad un’impresa familiare, di cui all’articolo 230 bis c.c., la quale appartiene solo al suo titolare, e cio’ anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprieta’ di uno dei familiari, a differenza dell’impresa collettiva, come quella coltivatrice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a piu’ persone. Nello schema dell’impresa di cui all’articolo 230 bis, gli utili non sono determinati in proporzione alla quota di partecipazione (ma alla quantita’ e qualita’ del lavoro prestato) e, in assenza di un patto di distribuzione periodica, non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti, ma al reimpiego nell’azienda o all’acquisto di beni (v. Cass. n. 5448/2011, n. 16477/2009). Pertanto, l’esclusione di una societa’ (la quale, secondo Cass., sez. un., n. 23676/2014, e’ incompatibile con l’istituto disciplinato dall’articolo 230 bis c.c.) implica l’inesistenza di quote e utili da ripartire tra i pretesi soci.
3.- Il quarto motivo denuncia omessa pronuncia, in relazione all’articolo 112 c.p.c., in ordine alla richiesta di conferma nel merito di un provvedimento cautelare ottenuto dagli attori ex articolo 700 c.p.c. nel corso della causa di primo grado.
3.1.- Il motivo e’ inammissibile.
Non si comprende se la domanda proposta in corso di causa di cui i ricorrenti lamentano il mancato esame fosse stata ritualmente avanzata in primo grado, se il Tribunale si fosse pronunciato su di essa o l’avesse considerata implicitamente travolta per effetto del rigetto delle domande proposte con l’atto di citazione originario, ed infine se, nel proporre appello, gli attori avessero eventualmente censurato la sentenza del Tribunale per il mancato esame di detta domanda; d’altronde, appare difficile immaginare che una simile domanda, sorta in corso di causa ma basata sui medesimi presupposti dai quali era retta la pretesa avanzata in atto di citazione, potesse essere presa positivamente in considerazione dai giudici di merito, una volta negato fondamento all’originaria pretesa.
4.- Il ricorso e’ rigettato. Le spese, liquidate in dispositivo e da distrarsi in favore del procuratore antistatario che ne ha fatto richiesta, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti alle spese del grado, liquidate in euro 5200,00, di cui euro 5000,00 per compensi, oltre spese forfettarie e accessori di legge, da distrarsi in favore del procuratore antistatario.
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