In merito alla condizione di punibilità costituita dalla prova del rispetto delle norme interne, comunitarie e internazionali a tutela della proprietà industriale ovvero marchio o del logo
Suprema Corte di Cassazione
sezione I penale
sentenza 28 luglio 2016, n. 33079
Ritenuto in fatto
1. Con la decisione in epigrafe la Corte di appello di Lecce, decidendo a seguito di annullamento con rinvio disposto dalla Corte di cassazione, sez. 5, sent. n. 49497 del 23/10/2013, confermava la condanna a 4 mesi di reclusione e 2.000, 00 euro di multa inflitta a M.C. dal Tribunale di Brindisi, con sentenza in data 25 novembre, previa riqualificazione del reato commesso in data 28 agosto 2008, contestato ai sensi dell’art. 517 cod. pen., alla stregua dell’ipotesi di cui all’art. 474 cod. pen.
2. Ha proposto ricorso l’imputato a mezzo dei difensore avvocato A.B., chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata. Denunzia:
2.1. violazione di legge e mancanza, manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla riqualificazione dei fatto ai sensi dell’art. 474 cod. pen., la grossolanità della riproduzione, non originale, del marchio imponendo di escludere detta fattispecie;
2.2. violazione di legge e vizi della motivazione in ordine alla “riqualificazione” in peius della fattispecie contestata nonostante la mancanza d’impugnazione del Pubblico ministero; effetti deteriori per l’imputato, a prescindere dal mantenimento della pena, scaturivano difatti per l’imputato dalla circostanza che la condanna per il diverso titolo avrebbe comportato la revoca del permesso di soggiorno a norma dell’art. 26 d.lgs. n. 286 del 1998 (nel caso detta fattispecie fosse stata sin dall’inizio contestata l’imputato avrebbe optato per il patteggiamento proprio al fine di evitare l’applicazione dell’art. 26).
Considerato in diritto
1. Osserva il Collegio che il primo motivo è, per le ragioni che si diranno, fondato e assorbente.
2. All’imputato era stato contestato, a mente dell’art. 517 cod. pen., di avere detenuto per la vendita prodotti recanti marchi o segni distintivi idonei a trarre in inganno il compratore e in particolare: 12 bracciali, 10 paia di orecchini, 3 medaglie marchiati «D&G»; 10 collane marchiate «D&G2»; 14 paia di orecchini, 16 cinture, 6 bracciali raffiguranti il personaggio di “H.K.”; 6 bracciali marchiati «O.M.»; 3 cinture e 7 paia di orecchini marchiati «O.M.»; 2 collane marchiate «C.»; 4 cinture raffiguranti il personaggio “.”; 1 cintura con il personaggio “M.”; 1 cintura con personaggio “Super Chicche”; 2 cinture marchiate «Nord Kapp»; oggetti tutti privi di dati identificativi (copyright) nonché di etichette indicanti le aziende produttrici e detentrici dei marchi, loghi ed immagini riprodotti.
2.1. Il giudice di primo grado aveva ritenuto che l’impiego di immagini “analoghe”e rievocanti gli originali (carta geografica “analoga” a quella utilizzata dal famoso marchio “A.M.” e uso della dicitura similare”A.M.; riproduzione del personaggio “H.K.” “analoga” all’originale; locuzione “N.K.” “riconducibile” ad altra marca di uso corrente) erano caratteristiche idonee a trarre in errore nonostante la modesta fattura.
La Corte di appello, investita dell’impugnazione dell’imputato, con sentenza in data 5 dicembre 2012, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Brindisi del 25/11/2010, riqualificava il fatto nel reato di cui all’art. 474 cod. pen.
Con sentenza in data 23 dicembre 2013, n racc. gen. 49497 del 2013, decidendo sul ricorso dell’imputato, osservava che fondata e assorbente era in particolare il motivo riguardante la mancanza di motivazione sulla prova dell’avvenuta registrazione dei marchi contraffatti; elemento, questo, essenziale ai fini della configurabilità dei reato ritenuto con la sentenza impugnata (Sez. 5, Sentenza n. 25273 dei 12/04/2012, Dellatte, Rv. 252993; Sez. 5, Sentenza n. 36360 del 13/07/2012, Shao, Rv. 253207; Sez. 5, n. 9340 del 12/12/2012 (27/02/2013), Giannico, Rv. 255088).
E annullava con rinvio per tale motivo.
2.2. La Corte di appello, decidendo in sede di rinvio, riteneva di risolvere l’accertamento demandatogli osservando che il testimone, militare della Guardia di Finanza che aveva effettuato l’accertamento, aveva testimoniato affermando che la merce sequestrata presentava tutte le caratteristiche e «riproduceva tutte le caratteristiche» dei marchi noti, di cui anche in passato, in occasione di diversi accertamenti, era emersa la formale registrazione.
Proseguiva inoltre osservando che secondo la giurisprudenza di legittimità spettava d’altra parte all’imputato «provare la dedotta mancanza di registrazione del marchio», e citando Sez. 2, n. 22693 del 13/05/2008, Rossi.
3. Tanto posto, è evidente, anzitutto, che la Corte di appello, omettendo di verificare l’avvenuta formale registrazione dei marchi assertivamente contraffatti ed affidandosi alle dichiarazioni del verbalizzante su asseriti dati di esperienza non controllati, si è sottratta al principio di diritto devolutogli, richiamando un orientamento giurisprudenziale non solo in contrasto con quello al cui rispetto era vincolato a mente dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen., ma affatto inconferente perché relativo al dettato normativo anteriore alle modifiche recate agli artt. 473 e 474 cod. pen. dalla I. n. 99 del 2009, in base alle quali la condizione di punibilità costituita dalla prova del rispetto delle norme interne, comunitarie e internazionali a tutela della proprietà industriale ovvero marchio o del logo, e dunque la necessità ai fini della configurabilità del reato che prima della sua consumazione il titolo di privativa sia stato effettivamente conseguito (cfr. Sez. 5, n. 25273 del 12/04/2012, Dellatte, Rv. 252993; Sez. 5, n. 36360 del 13/07/2012, Shao, Rv. 253207; Sez. 5, n. 9340 del 12/12/2012, dep. 2013, Giannico, Rv. 255088, tutte puntualmente citate nella sentenza di annullamento con rinvio con richiamo che valevano alla integrazione principio di diritto consegnato alla Corte di appello di Lecce), è divenuto ento strutturale delle fattispecie, la cui prova sta perciò a carico dell’accusa.
4. Non può inoltre e comunque non notarsi che, non solo non è stata acquisita la prova della registrazione delle diciture e immagini esatte riportate sulla merce sequestrata, ma le stesse per come descritte nell’imputazione e nella sentenza di primo grado neppure all’evidenza possono ritenersi falsificazione di marchi, loghi o segni distintivi noti, ai quali somigliano e che possono rievocare, ma dai quali in equivocamente differiscono (basti pensare alla dicitura “O.M.”, simile ma non uguale, neppure grossolanamente, a quella dello stilista «A.M.», alla pure diversa dicitura riferita al marchio noto N.) e che il Tribunale si era limitato a definire “analoghi”.
In siffatta situazione deve escludersi che sia stata raggiunta la prova della sussistenza della fattispecie ritenuta dalla Corte di appello, che neppure si è curata di smentire sul punto quanto diversamente accertato dal Tribunale.
Il tempo trascorso impedisce d’altra parte ogni ulteriore tentativo di utile approfondimento.
5. In conclusione, la sentenza impugnata non può che essere annullata senza rinvio perché il fatto, così come ritenuto in appello, non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste. Così deciso il 16 febbraio 2016
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