Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 27 febbraio 2018, n. 1169. La previsione dell’art. 36 D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, che ritiene necessaria la presenza della c.d. “doppia conformità” non è superabile

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L’art. 36 dispone che il permesso di costruire “in sanatoria” ovvero quale accertamento postumo di conformità sia ottenibile solo qualora l’intervento risulti conforme sia alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione del manufatto, sia a quella vigente al momento della presentazione della domanda (cfr., tra le tante, Cons. Stato, Sez. VI, 18 luglio 2016, n. 3194; 18 settembre 2015, n. 4359; Sez. V, 17 settembre 2012, n. 4914; Sez. IV, 26 marzo 2010, n. 1763; Sez. VI, 7 maggio 2009, n. 2835; Sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2306).
In sede amministrativa o giurisprudenziale non possono essere ravvisati altri casi oltre quelli strettamente previsti dalla legislazione, anche in considerazione delle implicazioni che i titoli edilizi hanno sotto il profilo penale.
L’ordinamento penale e quello amministrativo sono ispirati in materia al principio di legalità dell’azione amministrativa e al carattere tipico dei poteri esercitati dall’amministrazione.
L’art. 36 fa espressamente riferimento al ” momento della presentazione della domanda” e comporta l’irrilevanza di eventuali mutamenti degli strumenti urbanistici successivi all’istanza di sanatoria incompatibili con quest’ultima.
Per il principio della gerarchia delle fonti, l’art. 56 dell’invocato regolamento comunale non ha mai avuto alcuna rilevanza giuridica e, comunque, il suo solo apparente vigore è stato doverosamente rimosso dall’Amministrazione comunale, con la delibera che ha disposto la sua abrogazione.
6. – In secondo luogo va ricordato che “l’esercizio dei poteri di vigilanza e repressivi rappresenta, in via generale, una delle imprescindibili modalità di cura dell’interesse pubblico affidato all’una od all’altra branca dell’Amministrazione ed è espressione del principio di buon andamento di cui all’art. 97. Cost.” e che, “nella specifica materia dell’attività urbanistico-edilizia, un potere specifico di vigilanza (esercitabile, per la sua stessa natura, anche mediante provvedimenti innominati), volto ad assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, è affidato dalla legge al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale (art. 27, comma 1, D.P.R. 380/2001), non sussistendo l’obbligo di comparazione degli interessi e non essendo rinvenibile un affidamento tutelabile del privato (cfr., ex multis Cons. Stato, Sez. IV, 25 novembre 2008, n. 5811).
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, dunque, sono tipizzati e vincolati nella misura in cui presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere abusivo delle medesime; una volta constatato l’abuso, l’Amministrazione deve senza indugio reprimerlo, sicché non occorre alcun previo avviso di avvio del procedimento, incompatibile con la natura vincolata dell’atto, applicandosi comunque – quand’anche risultasse in concreto dovuto un preavviso – l’art. 21-octies, comma 2, prima parte, della l. 241/1990 (per come introdotto dalla l., 11 febbraio 2005, n. 15), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento (…) qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
7. – Sotto altro profilo la società appellante ha voluto ricondurre il diniego di sanatoria, adottato successivamente alla abrogazione dell’art. 56 del regolamento edilizio, operata dal consiglio comunale in applicazione dei principi affermati dalla decisione della Corte Costituzionale n. 101/2013, sopraggiunta quando era già stata proposta la istanza di sanatoria, tanto che era stato adottato il provvedimento di (ri)calcolo dell’ammontare dell’oblazione dovuta (a propria volta gravato con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado), nell’ambito della categoria degli atti di ritiro, specificamente quale atto di autotutela, rispetto alla cui adozione avrebbero dovuto trovare applicazione le disposizioni di cui all’art. 21-nonies l. 241/1990, nella specie asseritamente disattese dagli uffici comunali titolari dell’istruttoria che ha condotto all’emanazione del diniego di sanatoria.
Al contrario di quanto ha sostenuto in sede di appello la società interessata e precisato che il procedimento di sanatoria non poteva considerarsi concluso sol con l’adozione del provvedimento di (ri)calcolo della oblazione dovuta, costituendo tale atto soltanto il momento conclusivo di una fase procedimentale del complesso percorso amministrativo che poteva considerarsi concluso solo con l’adozione (se vi fosse stata) del provvedimento definitivo di accertamento (positivo) della sanatoria, va qui ribadito che
il richiamato art. 56 del regolamento comunale non è mai stato giuridicamente applicabile, per il suo radicale contrasto con la legislazione penale ed amministrativa, emanata dal Parlamento;
anche a voler attribuire un qualche rilievo giuridico al medesimo art. 56 ed alla delibera che ne ha constatato l’incompatibilità sistematica con le leggi, con riferimento alle ragioni di interesse pubblico la giurisprudenza si è più volte espressa (cfr., Cons. Stato, Sez. VI, 21 ottobre 2013, n. 5088; 4 ottobre 2013, n. 4907), nel senso che il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (si vedano, ancora, Cons. Stato, Sez. VI, 28 gennaio 2013 n. 496, Sez. IV, 16 aprile 2012 n. 2185, Sez. IV, 28 dicembre 2012 n. 6702, Sez. VI, 27 marzo 2012 n. 1813, Sez. IV, 27 ottobre 2011 n. 5758, Sez. IV, 20 luglio 2011 n. 4403, Sez. V, 27 aprile 2011, dalla n. 2497 alla n. 2527 e 11 gennaio 2011, n. 79.
Vanno anche richiamati i principi enunciati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio con la sentenza 17 ottobre 2017, n. 9, nella quale si è affermato, in sintesi, che il tempo trascorso fra il momento della realizzazione dell’abuso e l’adozione dell’ordine di demolizione (ovvero, come in questo caso, l’adozione di un provvedimento sfavorevole all’interessato in ordine alla richiesta di una sanatoria ovvero di un condono edilizio) non determina l’insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e non innesta in capo all’amministrazione uno specifico onere di motivazione, ciò in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento (cfr., in tal senso, Cons. Stato, Sez. VI, 27 marzo 2017 n. 1386 e 6 marzo 2017 n. 1060).
Il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (che deve essere adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) o di altro provvedimento che si inserisce nel palinsesto della verifica di legittimità delle opere edilizie realizzate sul territorio fa sì che esso – anche se per anni non è stato emanato a causa della mancata conoscenza dell’abuso o per la connivenza degli uffici – non necessiti di una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione; infatti il provvedimento di demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opus (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 21 marzo 2017 n. 1267), né il suo titolare si può dolere del vantaggio che ha ricevuto a causa della mancata emanazione degli atti previsti dalla legge.
Nemmeno occorre motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia ordinata la demolizione di un immobile abusivo quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione: infatti l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore realizzata contra legem (cfr., in tal senso, Cons. Stato, Sez. IV, 28 febbraio 2017, n. 908; Sez. VI, 13 dicembre 2016. n. 5256).
L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile, ciò in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo (o la connivenza) non può in alcun modo legittimare (cfr. Cons. Stato, 28 febbraio 2017, n. 908; Sez. IV, 12 ottobre 2016, n. 4205; 31 agosto 2016, n. 3750).

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