Dinanzi all’impugnazione di un atto plurimotivato in base al principio della c. d. “ragione sufficiente” il profilo di censura potrebbe essere giudicato inammissibile per carenza di interesse
Consiglio di Stato
sezione VI
sentenza 23 maggio 2017, n. 2438
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3931 del 2016, proposto dalle società Ci. Srl e altri, in persona dei rispettivi legali rappresentanti “pro tempore”, rappresentati e difesi dagli avvocati Gi. Or., Lu. Ma. Be. e Ma. Sa., con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Ma. Sa. in Roma, viale (…);
contro
il Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante “pro tempore”, rappresentato e difeso dagli avvocati Ca. Pa. e Si. De Sa. Ma., con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Si. De Sa. in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza in forma semplificata del T.A.R. VENETO -VENEZIA -SEZIONE II, n. 414 del 2016, resa tra le parti, con la quale è stato rigettato, con condanna alle spese, il ricorso per l’annullamento dell’ordinanza del Comune di (omissis) n. 68 del 29.2.2016, avente a oggetto demolizione e rimessa in pristino dello stato dei luoghi;
Visto il ricorso in appello, con i relativi allegati;
Visto il decreto presidenziale n. 1841 del 19 maggio 2016 di accoglimento della istanza di misure cautelari monocratiche;
Visto il controricorso del Comune di (omissis), con i relativi allegati;
Vista l’ordinanza n. 4149 del 2016 con la quale la sezione ha accolto l’istanza di misure cautelari con la motivazione che segue: “valutato il danno, oggettivamente grave e irreparabile; ritenuto di accogliere l’istanza di misure cautelari -a conferma del decreto presidenziale di accoglimento dell’istanza di misure cautelari provvisorie n. 1841 del 2016- e di sospendere l’esecuzione della sentenza impugnata e dell’ordinanza di demolizione impugnata in primo grado fino al 31 gennaio 2017 e in ogni caso fino alla avvenuta ultimazione della seconda nave da diporto, ove già intervenuta entro il termine anzidetto”;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del 4 maggio 2017 il cons. Marco Buricelli e uditi per le parti gli avvocati Gi. Or. per le parti appellanti e Cl. De. Po. per delega dell’avv. Si. De Sa. Ma. per il Comune di (omissis);
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1.Esigenze di sintesi (arg. ex art. 3 del c.p.a.) suggeriscono di non ripercorrere “passo dopo passo” l’intera vicenda, anche amministrativa, all’interno della quale si colloca la controversia odierna, nel suo svolgersi, a partire dalla istanza, presentata al Comune di (omissis) nel dicembre del 2014 e integrata nell’agosto del 2015, diretta a ottenere un permesso di costruire in deroga allo strumento urbanistico per riqualificare e ampliare gli edifici esistenti sulle aree dove si trova il cantiere dell’appellante Ci., specializzata nella costruzione, riparazione e manutenzione di navi da diporto (gli interventi previsti sono descritti in modo aggiornato nella relazione tecnica dell’arch. E. Bo. Ba., in atti).
Qui basterà rammentare che nel marzo e nel giugno del 2015 le ricorrenti e odierne appellanti, che esercitano attività di costruzione e di riparazione navali, sottoscrivevano contratti, per la realizzazione di due navi da diporto, nei quali erano indicate le date del 31 maggio e del 14 luglio 2016 per il completamento dei lavori.
Nelle more della definizione della istanza di rilascio del permesso di costruire in deroga necessario per riqualificare il cantiere, il 7 ottobre 2015 veniva presentata al Comune una comunicazione di inizio lavori (CIL) per eseguire senza titolo abilitativo “opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni” ai sensi dell’art. 6, comma 2, lett, b) del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, con riguardo in particolare alla realizzazione di un “carroponte pannellato” di consistenti dimensioni su cui poggiare le due navi da allestire, chiuso da pannelli su due lati e coperto al fine di evitare l’emissione in atmosfera di polveri di saldatura e verniciatura, come prescritto dalla Provincia di Venezia con determinazione n. 4232/13, con la quale era stato imposto, ai fini dell’allestimento di navi nell’area cantieristica, che “le operazioni di sabbiatura e verniciatura dovranno essere svolte esclusivamente all’interno di strutture mobili telonate in grado di contenere le emissioni di tipo diffuso e aerosol”.
Conseguentemente veniva realizzata una struttura coperta (capannone) con un ingombro di m. 24 per 50 e un’altezza interna media di m. 19, per una superficie complessiva di circa 1.200 mq., con strutture portanti a telaio in elementi metallici e con giunzioni bullonate.
Il Comune, constatata la presenza del manufatto -ancorato a una fondazione in cemento armato- oltre la scadenza del termine di 90 giorni indicata nella CIL, dopo aver dato comunicazione dell’avvio del procedimento, con ordinanza n. 68 del 29 febbraio 2016 ne disponeva la demolizione ai sensi sia dell’art. 31 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, e sia dell’art. 167 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, trattandosi di opera realizzata entro un’area soggetta a vincolo paesaggistico.
L’ordinanza di demolizione e di rimessione in pristino dello stato dei luoghi è stata impugnata con cinque motivi.
Nella resistenza del Comune il Tar del Veneto, con la sentenza in epigrafe:
-ha accolto l’eccezione civica di difetto di legittimazione attiva delle società Ad. Ma. Gr. e Ca. Na. Ch.;
-nel merito il giudice di primo grado, raggruppati ed esaminati in modo congiunto i primi quattro motivi di ricorso, basati su violazioni del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 18 delle NTA del PRG, ha motivatamente disatteso l’impianto argomentativo dal quale avevano preso le mosse le ricorrenti, secondo il quale l’art. 6, comma 2, lett, b) del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, laddove dispone che è sufficiente la presentazione di una CIL per la realizzazione di “opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni”, non prevede un termine perentorio, ma solo “un limite temporale di riferimento”, con la conseguenza che il superamento del termine non comporta di per sé l’abusività dell’opera se non vi è la prova che l’opera non è destinata a soddisfare un’esigenza temporanea; che in ogni caso il termine deve essere interpretato nel senso che decorre non dalla realizzazione dell’opera, ma dalla cessazione della necessità temporanea; e che il medesimo deve comunque ritenersi prorogabile fino al permanere della necessità temporanea;
-ha respinto anche il profilo di censura imperniato sul mancato rispetto del termine di 120 giorni previsto dall’Allegato I, n. 38, del d.P.R. n. 139 del 2010, in tema di procedimento semplificato per ottenere l’autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità, e il motivo di incompetenza dedotto sub V), posto che la relazione sull’esito del sopralluogo edilizio è stata sottoscritta dal dirigente sul quale ricade, ai sensi dell’art. 107 del d.lgs. n. 267 del 2000, la diretta responsabilità della gestione amministrativa.
Le società hanno interposto appello per i motivi che saranno esposti in appresso.
Il Comune si è costituito per resistere.
Con decreto presidenziale di estrema gravità e urgenza, confermato in sede collegiale, l’esecutività della sentenza impugnata è stata sospesa, stante la gravità e la irreparabilità del danno, fino al 31 gennaio 2017.
In prossimità dell’udienza di discussione le parti hanno depositato memorie e documenti da cui è emerso tra l’altro che entrambe le navi da diporto risultano essere state ultimate entro il mese di aprile del 2017 e che il procedimento diretto a conseguire il permesso di costruire in deroga è tuttora pendente.
All’udienza del 4 maggio 2017 la causa è stata discussa e quindi trattenuta in decisione.
2.L’appello è infondato e va respinto.
La sentenza impugnata è corretta e va confermata, con le precisazioni e le integrazioni motivazionali che seguiranno.
2.1.Sub 1) le appellanti, nel dedurre violazione di legge ed eccesso di potere sotto svariati profili, sostengono che la sentenza non avrebbe tenuto in considerazione l’effettivo andamento dei fatti e avrebbe preso le mosse da un inquadramento erroneo della fattispecie avendo, il Tar, ritenuto infondato il ricorso sul solo assunto che le società sarebbero state “fin dall’inizio consapevoli…che le esigenze di mantenimento dell’opera erano destinate a permanere per un periodo più lungo”, sicché le stesse non avrebbero potuto ricorrere “alla qualificazione di tali opere come strutture aventi i caratteri propri dell’attività edilizia libera, con la conseguenza che la loro mancata rimozione è stata legittimamente sanzionata dal provvedimento impugnato, dato che il loro mantenimento oltre il termine legislativamente previsto le ha private di un valido titolo abilitativo”.
Nell’appello si rileva che la CIL, alla quale hanno fatto ricorso le società ai fini della realizzazione della struttura precaria contestata, sarebbe stata presentata esclusivamente su indicazione del Comune sicché, diversamente da quanto ritenuto in sentenza, non vi sarebbe mai stata alcuna volontà da parte della società Ci. di fruire in maniera strumentale della disciplina di cui all’art. 6, comma 2, lett. b) del d.P.R. n. 380 del 2001 per mantenere la struttura realizzata mediante CIL, giacché tale procedura era stata seguita al solo fine di assecondare le indicazioni del Comune, alla inerzia del quale, nel (mancato) rilascio del permesso di costruire in deroga, andrebbe addebitata la permanenza della struttura contestata oltre il termine di 90 giorni di cui al citato art. 6/b).
L’Amministrazione, con la sua condotta, avrebbe ingenerato nella società Ci. un affidamento legittimo circa la correttezza dell’iter procedimentale seguito, anche alla luce di quanto dispone l’art. 3, comma 1, lett. e.5) del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui non costituisce intervento di nuova costruzione e di trasformazione urbanistico -edilizia il manufatto diretto a soddisfare esigenze meramente temporanee; salvo poi contestare la regolarità della struttura medesima allorquando lo stesso Comune, a causa del suo comportamento omissivo, non è stato in grado di rilasciare tempestivamente il titolo abilitativo in deroga.
Sub 2), parte appellante contesta le affermazioni svolte in sentenza secondo cui l’opera non avrebbe potuto essere realizzata in seguito alla presentazione di una CIL, trattandosi “di un capannone di circa 1200 mq.” caratterizzato “dal punto di vista strutturale (dalla presenza) di una fondazione in cemento armato che di per sé costituisce un’opera assoggettata al previo rilascio di un titolo edilizio”, tanto più considerando che, attesa la connotazione strutturale del manufatto, quest’ultimo avrebbe potuto essere realizzato solo previo ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica ordinaria.
Ad avviso delle appellanti, tali considerazioni si pongono in contraddizione con l’ordinanza impugnata e oltrepassano i limiti dell’oggetto del giudizio, sconfinando nell’area del merito amministrativo insindacabile dal giudice, dal momento che il Comune non aveva a suo tempo rilevato alcuna difformità o illegittimità con riguardo alla CIL.
Nell’appello si soggiunge che neppure il Comune avrebbe potuto sanzionare l’intervento in discussione senza tenere conto del proprio pregresso (implicito) benestare, accordato alla esecuzione della CIL, non potendo certo “disapplicare” la valutazione di conformità dell’intervento operata in sede di esame della CIL.
Inoltre, e in ogni caso, la struttura non era affatto un “capannone”, ma un “carroponte pannellato”, ossia una gru che le appellanti hanno rivestito di pannelli per rispettare le prescrizioni imposte dalla Provincia di Venezia.
Infine, essa non presenta una fondazione in cemento armato e i pannelli non sono ancorati al suolo in via permanente.
Sub 4), le appellanti contestano la statuizione con la quale il Tar, nel considerare legittima l’ordinanza n. 68/2016, ha ritenuto che la struttura contestata sarebbe equiparabile a un intervento edilizio realizzato in assenza di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica, quale mera conseguenza del fatto che la struttura non è stata rimossa nel termine di 90 giorni previsto all’art. 6, comma 2/b) del d.P.R. n. 380 del 2001.
Ad avviso delle appellanti, la disposizione su citata, secondo la quale “nel rispetto dei medesimi presupposti di cui al comma 1 (il quale fa salvo il rispetto delle normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia, con riferimento tra l’altro anche alle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 -n. d. est.) “previa comunicazione dell’inizio dei lavori da parte dell’interessato all’amministrazione comunale, possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo i seguenti interventi:…
b) le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni…”, si limita solo a introdurre un regime temporale di riferimento in relazione alla categoria delle c. d. “opere precarie”. Del resto, sarebbe illogico che una struttura realizzata in modo legittimo, all’improvviso, al 91esimo giorno dalla sua installazione, divenisse sanzionabile ai sensi degli articoli 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 167 del t. u. n. 42 del 2004.
Al p. 6) le appellanti, nel riproporre motivi di ricorso non esaminati dal Tar, ribadiscono l’interpretazione dell’art. 6, comma 2/b), citato, nel senso che la disposizione ricollega il termine dei 90 giorni non alla durata massima per il mantenimento dell’opera, ma al termine massimo per la sua rimozione, decorrente dalla cessazione della necessità. Il riferimento ai 90 giorni riguarderebbe cioè il momento in cui le opere devono essere rimosse e non la durata massima del mantenimento delle stesse senza alcun titolo edilizio. E nella specie la necessità in forza della quale la società ha presentato al Comune la CIL “per la installazione del carroponte” non è venuta meno, con la conseguenza che il termine previsto dall’art. 6, comma 2/b) del d.P.R. n. 380 del 2001 non è ancora decorso.
Sotto un differente profilo si rileva che l’ordinanza impugnata in primo grado ha respinto le domande di Ci. di proroga del termine di cui all’art. 6, comma 2/b) e, in alternativa, di sospensione del procedimento repressivo, nelle more del rilascio del permesso di costruire in deroga, sull’assunto, scorretto, che si tratta di ragioni non previste nella normativa urbanistico -edilizia vigente. Il Comune avrebbe dovuto valutare le richieste e accoglierle.
2.2.Le censure sopra riassunte ai punti 1), 2), 4) e 6) sono esaminabili in modo congiunto.
Esse sono infondate e vanno respinte.
Al riguardo il Collegio osserva quanto segue.
In primo luogo non vi è prova in atti di quanto affermato dalle parti appellanti in ordine alla circostanza che il ricorso alla CIL sarebbe stato indicato o suggerito dagli uffici del Comune.
Inoltre la sentenza ha motivato in maniera convincente sulla consapevolezza, in capo alla Ci., in merito alla necessitata permanenza prolungata dell’opera, muovendo anzitutto dalla constatazione che i contratti di appalto prevedevano, per il completamento della realizzazione delle due imbarcazioni da diporto, un termine superiore a 90 giorni. Il capannone risulta essere stato realizzato nel mese di ottobre del 2015. Per la fine dei lavori e per la consegna delle due navi erano state stabilite le date del 14 luglio e del 31 maggio 2016. I termini contrattuali anzidetti, accettati per l’ultimazione e per la consegna delle due navi, sono ampiamente scaduti senza che la società abbia rimosso la struttura (i due yacht risultano essere stati ultimati entro il mese di aprile del 2017).
Va precisato poi che dagli atti (si vedano in particolare le fotografie prodotte in giudizio) risulta con evidenza che l’opera realizzata non è un carroponte, ossia un macchinario, ma un vero e proprio capannone, ossia una costruzione, alta 19 metri e avente una superficie di circa 1.200 mq., implicante trasformazione urbanistico edilizia del territorio, ma realizzata senza titolo edilizio idoneo. Pare evidente l’idoneità del manufatto a dare una utilità prolungata nel tempo, avuto riguardo alla natura e alle caratteristiche della costruzione.
La permanenza della struttura oltre i 90 giorni di cui all’art. 6, comma 2, lett. b) del d.P.R. n. 380 del 2001, non è poi addebitabile a inerzia del Comune. A questo proposito assume rilievo il fatto che nel corso del procedimento diretto al rilascio del permesso di costruire in deroga risultano essere insorte difficoltà legate a difformità del manufatto in progetto rispetto alla normativa urbanistico -edilizia e a incompletezze documentali (non ancora risolte, almeno a quanto consta), il che ha precluso il rilascio del titolo edilizio idoneo prima dello scadere dei 90 giorni di validità della CIL.
Sotto un diverso profilo, con la decisione impugnata il Tar non ha compiuto nessuna invasione di campo nel territorio riservato al merito dell’azione amministrativa.
Il giudice di primo grado ha incentrato le proprie considerazioni sulla conformità a legge dell’attività amministrativa di qualificazione dell’opera eseguita; sulla verifica della correttezza dell’inquadramento normativo della fattispecie operato dal Comune con l’ordinanza repressiva contestata, avendo riguardo alla situazione risultante dal già avvenuto superamento del termine di 90 giorni di cui all’art. 6, comma 2/b) del d.P.R. n. 380 del 2001 (rettamente interpretato, come si dirà più avanti).
La sentenza non ha fatto altro che avvalorare, in modo condivisibile, la conformità a legge delle considerazioni e delle conclusioni dell’autorità emanante.
L’attenzione del collegio giudicante si è cioè giustamente concentrata non sulla CIL ma sulle premesse in fatto e in diritto (con riferimento in particolare alle caratteristiche del manufatto e all’assenza del titolo abilitativo -permesso di costruire- e dell’autorizzazione paesistico -ambientale) e sulle conclusioni formulate dal dirigente con l’ordinanza n. 68 del 2016, e ciò indipendentemente dalla correttezza, o meno, della qualificazione dell’attività edilizia, operata “ab initio” dall’Amministrazione (in maniera peraltro solo implicita) e fermo rimanendo che il Comune è intervenuto a ordinare la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi quando ha riscontrato un utilizzo inappropriato -o meglio, illegittimo- della stessa CIL per un’opera duratura, oltre che di “consistenza” assai rilevante.
Il Tar ha nella sostanza censurato non la CIL ma la mancata rimozione del capannone dopo i 90 giorni previsti dalla legge, condividendo argomentazioni e conclusioni dell’autorità “autrice” della misura repressiva.
Non pare inutile rilevare al riguardo l’eloquenza delle fotografie del capannone, prodotte in giudizio.
In ogni caso, il soddisfacimento di esigenze contingenti e temporanee implica e presuppone che l’opera sia agevolmente rimuovibile, requisito questo incompatibile con una struttura portante del manufatto imbullonata a una fondazione in cemento armato, “che di per sé costituisce opera assoggettata al rilascio di un titolo edilizio”. Viene in questione, come risulta in atti, e come correttamente rilevato in sentenza, un capannone di circa 1200 mq., tutt’altro che precario dal punto di vista strutturale e destinato, sotto l’aspetto funzionale, a soddisfare esigenze prolungate nel tempo, correlate al completamento della realizzazione delle navi da diporto, con la conseguente necessità del rilascio di un permesso di costruire per la realizzazione di opere come quella indicata.
In modo condivisibile dunque il Tar, dopo avere rilevato preliminarmente che “la realizzazione di opere che comportano una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio è sempre subordinata al rilascio di un apposito titolo abilitativo e l’individuazione, tra le opere soggette ad attività edilizia libera, di quelle dirette a soddisfare esigenze temporanee, costituisce una deroga a tale principio con norma di carattere eccezionale come tale non suscettibile di interpretazioni estensive”, ha evidenziato che “la facoltà di realizzare opere volte a soddisfare esigenze temporanee in assenza di un titolo edilizio può essere ammessa solamente per un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente successiva e sollecita eliminazione”, soggiungendo che “per tale ragione il legislatore ha circondato la possibilità di qualificare come attività libera tali opere, che possono avere anche un impatto significativo sul territorio (nel caso di specie si tratta di un capannone di circa 1200 mq), di particolari cautele volte ad assicurare l’effettiva ed obiettiva riscontrabilità di tali caratteri, prevedendo che debbano essere sempre rimosse entro novanta giorni dalla loro realizzazione, fermo restando che, ove vi sia l’esigenza di mantenerle per un tempo maggiore, gli interessati devono necessariamente munirsi di un idoneo titolo edilizio… “.
E bene in sentenza si è puntualizzato che “nel caso all’esame la parte ricorrente – che fin dall’inizio era consapevole che le esigenze di mantenimento dell’opera erano destinate a permanere per un periodo più lungo, come denotano sia la loro funzione volta al completamento delle commesse da ultimare nei mesi di maggio e luglio 2016, sia la presenza, dal punto di vista strutturale, di una fondazione in cemento armato che di per sé costituisce un’opera assoggettata al previo rilascio di un titolo edilizio – è erroneamente ricorsa alla qualificazione di tali opere come strutture aventi i caratteri propri dell’attività edilizia libera, con la conseguenza che la loro mancata rimozione è stata legittimamente sanzionata dal provvedimento impugnato, dato che il loro mantenimento oltre il termine legislativamente previsto le ha private di un valido titolo abilitativo”.
Ancora.
Ribadito che l’art. 6, comma 2, lett. b) del d.P.R. n. 380 del 2001 dispone che possono essere eseguite senza alcun titolo abilitativo solo “le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingibili e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni”, diversamente da ciò che sostengono le appellanti, e conformemente a quanto ritenuto in sentenza e rimarcato dal Comune nelle sue difese, il superamento del termine di 90 giorni di cui al menzionato art. 6, comma 2/b) determina il carattere abusivo / illecito dell’opera, il che avvalora la legittimità dell’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi.
La disposizione suindicata va cioè interpretata nel senso che la CIL non basta per legittimare la permanenza di opere di trasformazione urbanistico -edilizia del territorio per un periodo di tempo superiore ai 90 giorni: qualora le esigenze temporanee perdurino oltre il termine suddetto, gli interessati dovranno munirsi di un idoneo titolo abilitativo.
L’abuso edilizio si realizza dunque con il mantenimento delle opere stesse oltre il termine assentito.
In sintesi, le opere dirette a soddisfare esigenze “obiettive” e “contingibili e temporanee” sono oggi legislativamente considerate come attività libere, ma debbono essere sempre rimosse entro novanta giorni dalla loro realizzazione.
Né può ritenersi che il riferimento al termine di novanta giorni possa essere “agganciato” al momento in cui le opere debbono essere rimosse una volta cessata la particolare necessità che ne aveva determinato la realizzazione, nel senso cioè che le opere debbono essere rimosse “immediatamente” o “comunque” entro novanta giorni dalla cessazione di tale necessità.
Al riguardo, il Collegio ritiene risolutivo osservare che sarebbe illogico il riferimento a un termine così lungo per la demolizione di opere precarie, se si considera che un termine uguale è fissato dall’art. 31 per la demolizione di opere di ben diversa consistenza, realizzate in assenza del necessario permesso di costruire.
Dunque, la questione sul se il termine di 90 giorni previsto dal citato comma 2, lettera b) decorre, dalla realizzazione dell’opera diretta a soddisfare esigenze temporanee, o dalla cessazione della necessità, va risolta, come ha deciso il Tar (v. pag. 6 sent.) nel primo senso, nel senso cioè della erroneità del convincimento per cui il termine decorre “non dalla realizzazione dell’opera, ma dalla cessazione della necessità temporanea”.
Pare il caso di aggiungere che, sul tema, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha osservato che “per principio consolidato, per individuare la natura precaria di un’opera, si deve seguire “non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale”, per cui un’opera se è realizzata per soddisfare esigenze che non sono temporanee non può beneficiare del regime proprio delle opere precarie anche quando le opere sono state realizzate (il che nel nostro caso non è) con materiali facilmente amovibili (fra le decisioni più recenti cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 1291 del 1° aprile 2016). Non possono essere quindi considerati manufatti precari, destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee, quelli destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4116 del 4 settembre 2015). Questa Sezione ha poi anche affermato che la “precarietà” dell’opera postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità che non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 1291 del 1° aprile 2016 cit.)” (Cons. di Stato, sez. VI, n. 795/2017).
Inoltre, “tali opere debbono però essere “immediatamente” rimosse al cessare della necessità.
La normativa in questione ha, peraltro, meglio precisato che tali opere debbono “comunque” essere rimosse entro un termine non superiore a novanta giorni. Nel senso, cioè, che ove le esigenze temporanee permangano oltre tale termine, gli interessati debbono munirsi di un idoneo titolo edilizio, che potrà essere, a sua volta, anch’esso temporaneo. In sintesi, le opere dirette a soddisfare esigenze “obiettive” e “contingibili e temporanee” sono oggi legislativamente considerate come attività libere, ma debbono essere sempre rimosse entro novanta giorni dalla loro realizzazione, a meno che gli interessati non chiedano, al fine di mantenerle per un tempo maggiore, un idoneo titolo edilizio.
Né, come si è detto, può ritenersi che il riferimento al termine di novanta giorni sia riconducibile al momento in cui le opere debbono essere rimosse una volta cessata la particolare necessità che ne aveva determinato la realizzazione.
Inoltre, “rientrano nella previsione delle norme urbanistiche e richiedono il rilascio di concessione edilizia non solo i manufatti tradizionalmente compresi nelle attività murarie, ma anche le opere di ogni genere con le quali si intervenga sul suolo o nel suolo, senza che abbia rilevanza giuridica il mezzo tecnico con cui sia stata assicurata la stabilità del manufatto, che può essere infisso o anche appoggiato al suolo, in quanto la stabilità non va confusa con l’irremovibilità della struttura o con la perpetuità della funzione ad essa assegnata ma si estrinseca nell’oggettiva destinazione dell’opera a soddisfare bisogni non provvisori, ossia nell’attitudine ad una utilizzazione che non abbia il carattere della precarietà, cioè non sia temporanea e contingente (fattispecie relativa all’esecuzione di un capannone di circa 314 mq., caratterizzato da una struttura di ferro e pannelli inserita in una piattaforma di cemento)” (Cass. pen. sez. III, 7 giugno 2006).
Il profilo di censura basato sulla scorrettezza della ragione opposta dal Comune a sostegno del diniego di proroga del termine è da ritenersi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse attesi gli sviluppi della vicenda, con riferimento in particolare al fatto che Ci. ha ottenuto la misura cautelare richiesta e che il capannone, realizzato nel settembre -ottobre del 2015, “a tutt’oggi è ancora lì”.
2.3.Quanto alle restanti censure dedotte con l’appello (ai punti 3., 5. e 7.), si osserva quanto segue.
Col terzo motivo le appellanti rilevano l’erroneità della sentenza nella parte in cui, nella vicenda, avrebbe considerato violata anche la disciplina in materia paesaggistica.
Nell’atto di appello si sostiene che l’argomentazione contenuta nell’ordinanza impugnata e relativa alla violazione dell’all. I, n. 38, al d.P.R. n. 139 del 2010, secondo cui gli interventi di lieve entità sono soggetti ad autorizzazione paesaggistica se l’occupazione temporanea del suolo superi i 120 giorni, sarebbe nella specie irrilevante per due ragioni. Anzitutto perché il Comune non avrebbe ritenuto necessaria l’autorizzazione paesaggistica, tanto da non averla richiesta né in sede di CIL né in seguito. Si ritiene poi che se il Comune avesse rilasciato il titolo abilitativo tempestivamente, non sarebbe stata necessaria alcuna autorizzazione paesaggistica. E’ altresì contestata la legittimità del procedimento, confermata peraltro in sentenza, in quanto la contestazione sarebbe precedente al decorso del termine dei 120 giorni, pur se l’ordinanza è successiva, e avrebbe quindi preceduto la realizzazione della violazione stessa.
Il Comune osserva nelle proprie difese che la deduzione dell’appellante sulla violazione del d.P.R. n. 139 del 2009 sarebbe priva di rilievo atteso che l’Amministrazione avrebbe fatto riferimento a quella normativa al fine di evidenziare che se per le opere di lieve entità la norma richiede l’autorizzazione paesaggistica, a maggior ragione quest’ultima sarebbe necessaria per il capannone in contestazione, e ciò ai sensi dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, posto che una struttura di 1.200 mq non può di certo essere qualificata di “lieve entità” ex d.P.R. n. 139 del 2009, come peraltro rilevato dallo stesso Tar.
L’appellata osserva ulteriormente la non veridicità dell’affermazione del privato secondo cui il Comune non avrebbe ritenuto necessaria l’autorizzazione paesaggistica, la cui assenza sarebbe impensabile per un edificio di notevole impatto come quello in esame, collocato sulla gronda lagunare.
L’incompatibilità del capannone, per dimensioni e struttura, con qualsiasi “opera di lieve entità” priverebbe di fondamento anche la censura dell’appellante in merito al mancato tempestivo rilascio del permesso di costruire entro i 120 giorni.
Ciò posto, rilevato preliminarmente che il provvedimento impugnato è un atto plurimotivato e che, pertanto, per giurisprudenza consolidata, il che esime dal compiere citazioni specifiche, in base al principio della c. d. “ragione sufficiente” il profilo di censura potrebbe essere giudicato inammissibile per carenza di interesse, bastando a sorreggere l’ordinanza impugnata in primo grado il riferimento -legittimo e corretto- all’art 31 del d.P.R. n. 380 del 2001; si osserva in ogni caso nel merito che in modo condivisibile la sentenza ha considerato la normativa di cui al d.P.R. n 139 del 2010 non applicabile alla fattispecie.
L’art 1 del citato d.P.R. prevede infatti che “sono assoggettati a procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 146, comma 9, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e successive modificazioni… gli interventi di lieve entità, da realizzarsi su aree o immobili sottoposti alle norme di tutela della parte III del Codice, sempre che comportino un’alterazione dei luoghi o dell’aspetto esteriore degli edifici, indicati nell’elenco di cui all’allegato I” il quale, al punto 38, indica gli interventi di “occupazione temporanea di suolo privato, pubblico, o di uso pubblico, con strutture mobili, chioschi e simili, per un periodo superiore a 120 giorni”.
La struttura realizzata ha dimensioni tali, come si è già detto, da rendere evidente che il suo impatto “visivo e paesaggistico” è incompatibile con la nozione di struttura di “lieve entità”.
Di conseguenza, nella specie è fuori luogo la disciplina di cui al d.P.R. n. 139 del 2010, così come, correlativamente, le censure inerenti alla sua violazione.
Di contro, opere come quella in esame soggiacciono alla disciplina di cui al d.lgs. n. 42/2004, art 146, attesa l’insistenza su area soggetta a vincolo ambientale.
Con il quinto motivo di appello viene dedotta l’erroneità della sentenza nella parte in cui si è ritenuto irrilevante ai fini della legittimità del provvedimento impugnato che la relazione di esito sopralluogo non sia stata sottoscritta anche dal coordinatore tecnico ma solo dal dirigente di settore.
Ad avviso dell’appellante tale circostanza integrerebbe la violazione degli artt. 4 e 5 della l. n. 241 del 1990 in quanto il parere di controllo di competenza del coordinatore tecnico sarebbe stato sottoscritto solo dal dirigente del Settore Urbanistica.
Il motivo non è fondato.
Come già rilevato dal Tar, la sottoscrizione del dirigente è sufficiente ai fini della legittimità del procedimento.
La mancata sottoscrizione da parte del coordinatore tecnico deve considerarsi superata e assorbita dall’avvenuta sottoscrizione da parte del dirigente, vale a dire del responsabile apicale del settore competente, al quale la legge attribuisce il potere di firma degli atti a rilevanza esterna, essendo il responsabile della gestione amministrativa ex art 107 del d.lgs. n. 267 del 2000, e del coordinamento, direzione e controllo dell’attività degli uffici diretti, se del caso anche con poteri di sostituzione (cfr. art 17, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 165 del 2001). L’ampiezza dei compiti di direzione, controllo e coordinamento riconosciuti dalla normativa al responsabile apicale dell’ufficio competente rende quest’ultimo idoneo a sopperire a eventuali carenze da parte del funzionario in relazione ad atti interni al procedimento.
Con il settimo motivo di gravame, infine, l’appellante contesta la sentenza nella parte in cui ha giudicato prive di legittimazione attiva le appellanti società Ad. Ma. Gr. e Ca. Na. Ch..
La sentenza ha rilevato che il cantiere è di proprietà della sola Ci. la quale ha presentato la comunicazione di inizio lavori ed è stata destinataria dell’ordine di demolizione. Ne consegue per il Tar che la sola Ci. -e non anche la Ad. Ma. Gr. e la Ca. Na. Ch.- ha ricevuto un pregiudizio immediato e diretto dal provvedimento impugnato tale da legittimarla a ricorrere.
Ad avviso dell’appellante anche le altre due società soffrono un pregiudizio immediato e attuale per effetto dell’ordinanza di demolizione della struttura della quale si stanno avvalendo per svolgere la propria attività.
Anche quest’ultima censura non è fondata.
Come rilevato in sentenza, il soggetto che risulta essere proprietario dell’area e della struttura, e che ha curato in proprio nome tutti gli atti inerenti al procedimento amministrativo, è la Ci. srl la quale, di conseguenza, è l’unico soggetto legittimato a impugnare l’ordinanza di demolizione dalla quale riceve un pregiudizio immediato e diretto.
Le società Ad. Ma. Gr. e Ca. Na. utilizzano il capannone della Ci. per svolgervi le proprie attività, sulla base di rapporti interprivatistici, ma non hanno avuto alcun rapporto col Comune, sicché non possono ritenersi legittimate a ricorrere (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 5409 del 2011).
Al più, le due società sarebbero potute intervenire “ad adiuvandum” ai sensi dell’art 28 del c.p.a. per sostenere in giudizio le ragioni di Ci..
Le spese del grado del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano nel dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge confermando, per l’effetto, la sentenza impugnata.
Condanna le parti appellanti, in solido, a rifondere al Comune di (omissis) i compensi e le spese del presente grado del giudizio, che si liquidano in complessivi € 4.500,00 (euro quattromilacinquecento/00), oltre a IVA e a CPA e al rimborso delle spese generali.
Dispone che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 4 maggio 2017 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro – Presidente
Bernhard Lageder – Consigliere
Marco Buricelli – Consigliere, Estensore
Oreste Mario Caputo – Consigliere
Dario Simeoli – Consigliere
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