La violazione del principio del contraddittorio processuale, che è un vizio non formale ma di attività, ben può verificarsi anche con riguardo al provvedimento di ammissione d’una prova relativa ad una circostanza di fatto decisiva
Consiglio di Stato
sezione VI
sentenza 21 luglio 2017, n. 3586
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sui ricorsi riuniti
1) n. 4492/2013 RG, proposto da Da. Lu. ed altri, tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti Da. Ma. Bi. e Fa. To., con domicilio eletto in Roma, via (…),
contro
il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio e
nei confronti di
Ca. Or., rappresentata e difesa dagli avvocati In. e Ma. Go. e Cl. Ch., con domicilio eletto in Roma, via (…),
2) n. 4493/2013 RG, proposto da Da. Lu. ed altri, tutti come sopra rappresentati, difesi ed elettivamente domiciliati,
contro
il Comune di (omissis), non costituito in giudizio e
nei confronti di
Ca. Or., come sopra rappresentata, difesa ed elettivamente domiciliata;
3) n. 2260/2016 RG, proposto da Ca. Or., rappresentata e difesa dagli avvocati Innocenzo e Ma. Go. ed Il. Ro., con domicilio eletto in Roma, via (…),
contro
Lo. ed altri, nonché l’Azienda agricola Gi. Ma. Da. e Ma. s.s., corrente in (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, tutti rappresentati e difesi dall’avv. Fa. To., con domicilio eletto in Roma, via (…), presso l’avv. Ma. Bi. e
nei confronti di
Comune di (omissis), non costituito in giudizio,
per la riforma
quanto al ricorso n. 4493/2013 RG, della sentenza del TAR Lombardia – Brescia, sez. I, n. 202 del 2013, resa tra le parti e concernente il ripristino delle condizioni igieniche nel fabbricato, nonché la demolizione di opere abusive,
quanto al ricorso n. 4492/2013 RG, della sentenza del TAR Lombardia – Brescia, sez. I, n. 204 del 2013, resa tra le parti e concernente il ripristino delle condizioni igieniche nel fabbricato, nonché la demolizione di opere edilizie abusive e,
quanto al ricorso n. 2260/2016 RG, della sentenza breve del TAR Lombardia – Brescia, sez. I, n. 138 del 2016, resa tra le parti e concernente l’ordine di demolizione di una vasca per la raccolta di liquami ed il ripristino dello stato dei luoghi;
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione solo della sig. Or., dei sigg. Gi. e dell’omonima Società agricola;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore all’udienza pubblica del 19 gennaio 2017 il Cons. Silvestro Maria Russo e uditi altresì, per le parti costituite, gli avvocati Da. Ma. Bi. (per sé ed in delega dell’avv. To.) e Il. Ro. (per sé ed in delega dell’avv. Ch.);
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
FATTO e DIRITTO
1. I sigg. Da. Lu. ed altri dichiarano d’esser titolari dell’omonima azienda agricola gestita in forma societaria (s.s.) con sede in (omissis), alla via (…).
Detta azienda svolge l’attività d’allevamento di bovini da latte, alcuni capi dei quali da lungo tempo son stati allevati a stabulazione libera e ricoverati in un porticato adibito a paddock coperto, ubicato in una porzione ad est della proprietà dei sigg. Gi., a loro dire fin dal 2000, come evincesi dal loro piano di utilizzazione agronomica – PUA. In posizione attigua a tale area ed al civico n. 5 di detta via Brescia sorge il fabbricato oggidì adoperato dall’attuale proprietaria sig. Ca. Or. quale abitazione di lei e della sua famiglia. A causa di tal vicinanza, la sig. Or. segnalò alle varie Autorità ed alla competente ASL l’immissione nella sua proprietà di odori del bestiame e di polveri derivanti dalla preparazione del mangime per quest’ultimo e, dopo accertamenti, fu constatata la rilevanza di tali immissioni nel fondo Or..
2. Sicché, con ordinanza n. 344 del 22 dicembre 2008 (notificata il successivo giorno 29), il Sindaco di (omissis) ingiunse ai sigg. Gi.: 1) – ai sensi dell’art. 3.10.5) del regolamento locale di igiene – RLI, l’eliminazione di detto paddock e lo spostamento del relativo bestiame in altra area dell’azienda; 2) – ai sensi dell’art. 2.6.8) del RLI, di preparare il foraggio mediante carro Unifeed in altra area, affinché l’emissione di polveri in aria non costituisse nocumento alla salute pubblica.
Avverso tal ordinanza i sigg. Gi. insorsero avanti al TAR Brescia, deducendo: a) l’uso di detto paddock da oltre trent’anni (come da PUA ed altre attestazioni, pure del Comune), la disparità del trattamento del paddock rispetto alla vecchia stalla (anch’essa irregolare e posta a m 40 dal fondo Or.) e la priorità temporale dell’insediamento agricolo rispetto a quello abitativo; b) l’omessa dimostrazione che l’immissione di poveri nel fondo Or. derivasse dalla lavorazione del foraggio.
L’adito TAR, con sentenza n. 202 del 1° marzo 2013, ha dichiarato inammissibile l’invocata prova per testimoni sull’uso del porticato fin dagli anni ’60 quale ricovero per i bovini e ha respinto la pretesa attorea ritenendo ben congrua l’istruttoria svolta, abusiva tale trasformazione del porticato, irrilevante tal evento per il trattamento dei reflui zootecnici di cui al PUA del 2001, inopponibile la previetà temporale dell’azienda rispetto all’abitazione Or. e corrette le prescrizioni dell’ASL in ordine alla preparazione del foraggio.
Hanno appellato quindi i sigg. Gi., col ricorso n. 4493/2013 RG in epigrafe, ribadendo pure in questa sede tutti i motivi di censura proposti in primo grado (tranne la prova per testimoni), cui ha replicato la sig. Or., che conclude per l’inammissibile riproposizione di domande istruttorie sulla prevenzione dell’attività agricola (rilevando al riguardo l’abusiva trasformazione del porticato in un paddock) e, nel altri atti merito, per il rigetto dell’appello.
3. Nelle more di quel giudizio di primo grado, intervennero altri atti nei confronti dei sigg. Gi.,
in particolare la nota n. 173082 del 2 dicembre 2009, con cui l’ASL espresse parere contrario allo spostamento dei bovini dal porticato all’interno del magazzino – deposito, trattandosi di struttura sita a meno di m 100 dal fondo Or..
Con l’ordinanza n. 392 del 10 febbraio 2010, il Sindaco di (omissis) ritenne invece che una tale soluzione comunque migliorasse la situazione rispetto all’ordinanza n. 344/2008. Dispose quindi l’eliminazione del paddock, la liberazione del porticato dai bovini ed il loro trasferimento nella nuova struttura, per il cui cambio di destinazione d’uso i sigg. Gi. l’8 marzo 2010 chiesero un permesso di costruire. Sennonché il Sindaco emanò l’ordinanza n. 411 del 19 aprile successivo, con cui revocò l’ordinanza n. 392/2010, non ritenendola più realizzabile stante l’eccessivo incremento della popolazione bovina. A causa di ciò, con la determinazione n. 4404 del 12 maggio 2010, il Comune respinse l’istanza attorea di PDC e, con ordinanza n. 424 del successivo 8 giugno, ingiunse ai sigg. Gi. di demolire opere abusive realizzate presso il magazzino.
In pari data e con ordinanza n. 425, il Sindaco ordinò loro di eliminare gli inconvenienti igienico – sanitari causati dalla presenza di bovini nel paddock.
Contro tutti i citati provvedimenti i sigg. Gi. si gravarono nuovamente innanzi al TAR Brescia con il ricorso n. 676/2010, deducendo: a) – la ribadizione del primo mezzo d’impugnazione recato dal ricorso n. 249/2009 RG; b) – l’assenza, in base all’accertamento dell’ASL del 5 agosto 2009 in ordine all’insussistenza di modifiche strutturali nella cascina, d’ogni questione igienico – sanitaria e, quindi, il difetto dei presupposti per ordinare l’allontanamento degli animali dal porticato; c) – in ogni caso l’assenza dei presupposti per la revoca dell’ordinanza n. 392/2010. Non avendo poi i sigg. Gi. ottemperato alle citate ordinanze nn. 424 e 425/2010, il Comune, a tal riguardo autorizzato dalla Giunta comunale, il 31 maggio 2011 dispose l’occupazione d’urgenza dell’azienda agricola per eseguire la demolizione d’ufficio delle opere abusive, dandone comunicazione ai ricorrenti, che ne impugnarono gli con i motivi aggiunti depositati il 15 giugno 2011.
L’adito TAR, con sentenza n. 204 del 1° marzo 2013, ha respinto integralmente la pretesa azionata.
Hanno appellato i sigg. Gi., con il ricorso n. 4492/2013 RG in epigrafe, deducendo l’erroneità della sentenza gravata anzitutto in base alle censure già svolte contro l’analogo capo della sentenza del TAR n. 202/2013 ed impugnata con il coevo appello (in particolare, per la dirimente questione della previetà dell’attività agricola rispetto alla trasformazione abitativa del fabbricato Or.) e ribadendo quindi gli altri due mezzi del ricorso introduttivo di primo grado.
4. Con istanza del 13 novembre 2012, integrata il successivo 19 luglio 2013, i sigg. Gi. hanno chiesto al Comune di (omissis) il rilascio d’un PDC in sanatoria, relativamente ad una vasca in c.a. per la raccolta di liquami, nell’area di loro proprietà aziendale (in NCTR, fg. 1, part. 756).
Con atto per notar Cr. del 14 gennaio 2014, i sigg. Gi. si sono impegnati col Comune a “… mantenere l’allevamento presente nell’immobile a cui era unita la vasca con un numero di capi non superiore a 200… e comunque con peso vivo allevabile di 900… quintali…”. Sicché il Comune ha rilasciato loro il PDC n. 3511/E del 18 febbraio 2014.
Dopo varie ispezione da parte del Comune, dell’ASL e del Distretto veterinario di (omissis) -da cui s’è più volte evinta la presenza d’un numero di capi superiore a quello indicato nel testé citato atto d’obbligo-, con ordinanza n. 25 del 4 maggio 2015 il Comune stesso ha ingiunto ai sigg. Gi. la demolizione della predetta vasca ed il ripristino dello stato dei luoghi.
Avverso tal ordinanza i sigg. Gi. sono ancora una volta insorti al TAR Brescia, col ricorso n. 1906/2015 RG, lamentando l’irragionevolezza della sanzione ed il travisamento dell’atto d’obbligo per il mantenimento di più di 200 capi bovini in tutta l’azienda, quando tal numero massimo era stato espressamente previsto in tale atto solo per l’immobile cui era stata unita la vasca, fermo il principio della prevenzione dell’attività zootecnica (autorizzata fino a 300 capi bovini) anche con riferimento alle distanze dalle altre costruzioni.
L’adito TAR, con sentenza breve n. 138 del 26 gennaio 2016 -e previa verificazione su natura e scopo di detta vasca-, ha accolto la pretesa attorea poiché l’impugnata revoca si basò sull’erroneo presupposto che tale numero massimo fosse riferibile a tutta l’azienda e non solo alla stalla, dopo aver riscontrato che i capi nella stalla nuova non hanno superato il numero di 200.
Appella dunque la sig. Or., con il ricorso n. 2260/2016 RG in epigrafe, contestando l’impugnata sentenza per:
1) – aver violato il giusto processo e la parità delle parti, a causa dell’espletamento della verificazione senza contraddittorio con l’odierna appellante;
2) – l’anomalo svolgimento della verificazione, dal TAR commessa al titolare dell’UT del Comune, ma poi svolta da un delegato di questi senza autorizzazione del Giudice;
3) – l’erroneo riferimento all’onere dell’appellante di impugnare l’ordinanza di verificazione, ché il c.p.a. esclude l’impugnabilità di tali provvedimenti del Giudice;
4) – non aver colto l’unitarietà dell’allevamento nell’azienda (come s’evince da tutti i documenti che la riguardano, onde il limite massimo dei capi bovini la concerne nella sua interezza, non solo la stalla nuova, equivocando così il senso dell’atto d’obbligo che ha vincolato la vasca alla stalla nuova, la quale nel 1996 era stata realizzata in sostituzione della vecchia e per accogliere tutto il bestiame aziendale, il cui aumento imporrebbe distanze maggiori (m 100) dagli edifici vicini;
5) – l’inattendibilità dei dati sui capi bovini forniti di volta in volta dai sigg. Gi., mentre solo quelli verificati dall’ASL e dai NAS dei carabinieri sono corretti ed il costante aumento di detti capi ha provocato l’emanazione dell’impugnata ordinanza, fermi restando l’illegittima sanatoria comunale della vasca (contro il parere negativo espresso dell’ASL) ed il tentativo degli appellati di scollegare il numero dei bovini dalle correlate misure per il trattamento di liquami e deiezioni, in contrasto con l’atto d’obbligo;
6) – l’inadeguatezza della lettiera permanente ad esser un modo congruo di allevamento ed a giustificare l’aumento dei capi bovini, ponendosi, anzi, in contrasto con il RLI poiché, a parte il dubbio adombrato dagli stessi sigg. Gi. e dal loro tecnico di fiducia sulla presenza in situ di pozzetti per il percolato della lettiera, essa non sarebbe potuta comunque caso esser posta a terra;
7) – non aver colto che il principio di prevenzione dell’attività zootecnica non prevale né sulla classificazione d’industria insalubre, né sul rispetto dell’igiene collettiva, prevalendo nella specie il principio di precauzione stante la previetà dell’abitazione dell’appellante rispetto alla vasca;
8) – l’omessa valutazione delle difese dell’odierna appellante contro il numero arbitrario dei capi bovini all’interno dell’azienda, fraintese dal TAR anche con riguardo al contenuto dell’ordine di demolizione della vasca ed alla revoca d’una sanatoria contro il parere dell’ASL ed in violazione delle distanze minime dagli altri edifici.
Resistono in giudizio i sigg. Gi., concludendo per il rigetto dell’appello.
Alla pubblica udienza del 19 gennaio 2017, su conforme richiesta delle parti, i tre ricorsi in epigrafe sono assunti congiuntamente in decisione dal Collegio.
5. I tre ricorsi in epigrafe costituiscono, per vero, solo una parte del lungo ed articolato contenzioso che oppone l’azienda zootecnica dei sigg. Gi. e la sig. Ca. Or., loro vicina e la cui abitazione è sita nelle immediate vicinanze dell’area adibita all’attività di allevamento di bovini.
Tuttavia, detti ricorsi sono gli unici che, oltre a seguire in modo abbastanza preciso gli eventi di tal conflitto e la loro evoluzione anche nei rapporti con il Comune di (omissis) e con la competente ASL, sono pervenuti al presente grado d’appello, mentre le altre controversie o pendono ancora al TAR o spettano alla cognizione di altra Autorità. Stante dunque la stretta correlazione cronologica e giuridica che li contraddistingue, i tre ricorsi possono esser riuniti e decisi contestualmente con la presente sentenza.
6. Iniziando la disamina del ricorso n. 4493/2013 RG, che si rivolge contro la sentenza n. 202/2013 (che è la prima delle tre che il TAR Brescia ha emanato sull’annosa controversia), l’appello non può esser condiviso.
Una precisazione preliminare, che già fece a suo tempo il TAR in sede cautelare e che vale la pena qui ribadire, è opportuna: in questa vicenda si verte non già della permanenza o della liceità del portico sito nell’azienda zootecnica dei sigg. Gi., bensì sull’ordinanza n. 344/2008, con cui il Sindaco di (omissis) ingiunse loro, per la tutela della salute collettiva ed in attuazione di norme specifiche del RLI, l’eliminazione dell’uso di detto portico come paddock, lo spostamento dei capi di bestiame colà stabulanti in altra area dell’azienda e l’obbligo di prepararne altrove il foraggio per mezzo di strumenti atti ad evitare che l’emissione di polveri in aria non costituisse nocumento alla salute pubblica.
6.1. In particolare, il Comune di (omissis) volle fa cessare l’uso a paddock per la stabulazione libera nel preesistente porticato. Rettamente il TAR, affermando il ripristino di siffatto porticato, precisò che tal misura riguardasse non già o non tanto la violazione delle regole sulle distanze tra edifici, ma l’impossibilità di mantenere tal stabulazione, per evidenti ragioni igienico – sanitarie, a m 10 dall’abitazione della sig. Or..
A tal specifico riguardo, i sigg. Gi. lamentano che il TAR non tenne conto dei documenti prodotti sull’esistenza del paddock già da lungo tempo, ma tal assunto non ha pregio in fatto. Per vero, i sigg. Gi. fecero riferimento, per dimostrare la presenza dei paddock ad una planimetria, allegata al loro PUA per i reflui zootecnici del 2001 e recante l’indicazione di un box sotto tal porticato a confine con la proprietà della sig. Or.. Sennonché i di lei danti causa acquistarono la proprietà della cascina, per adibirla a loro abitazione fin dal 1970, per poi così trasferirla jure successionis all’odierna appellata e la destinazione residenziale è stata legittimata dal Comune con provvedimento, a quanto consta, inoppugnato dai sigg. Gi.. È appena da soggiungere che detto PUA, pur concernendo il trattamento di tali reflui e pur avendo escluso a suo tempo l’esistenza di emissioni nocive, non per ciò solo, essendosi nel frattempo evoluta negativamente la situazione di dette emissioni, si sarebbe potuto mantenere il paddock nella sua attuale e dannosa collocazione, in difetto d’un legittimo titolo di prevenzione nei confronti del fondo Or..
Insomma, ha ragione l’appellata nell’affermare che, in tutti i modi possibili, i sigg. Gi. non vogliono intendere o eludono il cuore della controversia: la trasformazione edilizia del porticato in paddock, da cui discendono l’assenza della sua giuridica ed opponibile prevenzione e la soggezione alle norme sulle emissioni a tutela dell’ambiente e dell’igiene collettiva.
Ed è altresì da precisare, al di là della ritualità o no dei capitoli di prova che gli appellanti avrebbero voluto sottoporre a questo Giudice (e rituali NON sono), l’inutilità di questi. Già il TAR ravvisò quest’ultima, in ordine all’uso fin dagli anni ’60 dei porticati sud/est per il ricovero del bestiame, perché la controversia riguardò la trasformazione del portico in paddock per la stabulazione libera e non l’uso del portico per il ricovero del bestiame. S’aggiunga ora la considerazione per cui tali prove al più (cfr. pag. 18 dell’appello) avrebbero dimostrato che a metà degli anni ’80, quando, cioè, già da un lungo arco di tempo i danti causa della sig. Or. abitavano la casa vicina allo stesso porticato, vari bovini sarebbero stati ricoverati, tra l’altro, in ambienti esterni alla stalla vecchia, tra cui proprio quest’ultimo.
6.2. Si può infine discettare se pure la stalla vecchia, posta a soli m 40 dal fondo Or., si dovesse, o meno, mantenere sol perché preesistente.
In verità, gli appellanti non intendono l’irriducibile differenza tra la stalla, antica e non trasformata (quindi, legittimata a godere proprio di quella prevenzione che essi propugnano in tutte le presenti cause) ed il paddock, invece non antico e frutto di indebita trasformazione (quindi, priva di tal legittimazione). Prova ne sia l’infondata lettura che essi vogliono dare sia dell’art. 3.10.5 del RLI sull’ampliamento delle strutture preesistenti (anche se poste a distanze inferiori a quelle fissate per i nuovi allevamenti) nelle aziende agricole, sia della giurisprudenza sul principio di prevenzione qual unico metodo di risoluzione dei conflitti tra l’attività zootecnica e la salubrità delle abitazioni.
In realtà, il principio di prevenzione non ha valore assoluto e dirimente, tant’è che non può derogare ai valori limiti delle emissioni in atmosfera ai sensi dell’All. IV alla parte V del Dlg 3 aprile 2006 n. 152 (Parti I e II). Inoltre, le esigenze che legano il rispetto delle distanze minime in area agricola, per gli allevamenti intensivi, sono ragionevolmente ravvisabili pure nel caso di allevamenti agricoli che però concentrino le stalle (in cui potenzialmente possono essere allevati lo stesso numero di capi di un allevamento intensivo) in prossimità del confine con una zona territoriale in cui siano possibili interventi edilizi ad uso abitativo, o esistono abitazioni conformi allo strumento urbanistico (arg. ex Cons. St., IV, 11 settembre 2012 n. 4817). Infatti, la distribuzione delle deiezioni può anche esser utile per giustificare distanze inferiori a quelle minime prescritte, ma non anche per prevenire fenomeni di inquinamento olfattivo o di rischio sanitario posti a base delle previsioni urbanistiche a tutela degli abitati.
Già ben si può legittimamente disporre la cessazione dell’attività di allevamento di animali nel caso in cui le stalle non rispettino la previsione del RLI, che preveda distanze minime inderogabili. E ciò nonostante anche la classificazione, ad opera del DM 5 settembre 1994, degli allevamenti di animali tra le industrie insalubri di I cl. e, quindi, l’esistenza di una situazione di obiettivo pericolo per la salute pubblica. Ma tal esigenza non vien meno sol perché il RLI di (omissis) prevede norme “leggere” pure per i nuovi insediamenti residenziali o di conservazione dell’edificato agricolo preesistente, in quanto in tal caso ancor maggiore è il controllo e la repressione di emissioni inquinanti ed insalubri. Né perime sol perché il titolo edilizio residenziale della sig. Or. s’è formato grazie ad un recente accertamento di conformità, in quanto tal destinazione residenziale esiste e fonda legittimamente l’aspettativa alla tutela di diritto pubblico di igiene ed ambiente, conformativa dell’attività privata e tale da non retrocedere rispetto a quella, civilistica (nella specie, sui rapporti tra rilascio del titolo edilizio e diritti dei terzi), a favore dell’azienda.
6.3. Ma anche a voler seguire la tesi attorea e ad ammettere la prevalenza della tutela civile, in ogni caso soccorre la disciplina sulle immissioni ex art. 844 c.c., che per vero prevede la valutazione, da parte del Giudice, in ordine al contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà.
Essa però va intesa tenendo conto che il limite della tutela della salute è da ritenere ormai intrinseco nell’attività di produzione, oltre che nei rapporti di vicinato, alla luce di un’interpretazione orientata costituzionalmente. Sicché è legittima la tutela contro il prolungamento di un’attività in varia guisa nociva alla salute dei vicini del fondo, salute che è da considerare valore prevalente in funzione del soddisfacimento del diritto ad una normale qualità della vita rispetto alle esigenze dell’attività di impresa esercitata nel fondo confinante. E ciò quand’anche la produzione fosse iniziata prima della edificazione dell’immobile limitrofo, ma si sia svolta e, poi, protratta senza la predisposizione di apposite misure di cautela idonee ad evitare o limitare l’inquinamento atmosferico (cfr. Cass., II, 11 aprile 2006 n. 8420).
Diversamente opinando, si avrebbe la prevalenza del solo interesse privato per attività comunque pericolose per l’igiene e l’ambiente, mentre già l’art. 216 del RD 27 luglio 1934 n. 1265 (TU leggi sanitarie) pone una clausola generale per cui v’è l’obbligo di mantenere gli allevamenti distanti dagli abitati ed in condizioni igieniche di sicurezza.
Sebbene tal norma non predefinisca la distanza minima generale, da osservare nei confronti degli eventuali insediamenti residenziali vicini, non se ne può asserire certo una sorta di sua cedevolezza rispetto al mantenimento tout court dell’attività zootecnica. Per contro, essa rafforza l’esigenza di circoscrivere quest’ultima allorché si pianifichino interventi residenziali da realizzare vicino agli allevamenti già esistenti. Ma soprattutto supporta la necessità di prevenire rischi inquinanti in pregiudizio alle singole destinazioni residenziali, mediante l’individuazione di idonei criteri che realizzino il rispetto dell’igiene e dell’ambiente (se del caso, anche a prescindere dalle condizioni effettive d’insalubrità in cui versi l’azienda: arg. ex Cons. St., IV, 23 giugno 2015 n. 3158).
6.4. Non a diversa conclusione reputa il Collegio di pervenire con riguardo al secondo motivo, con cui gli appellanti richiamano anche in questa sede il verbale d’ispezione ASL del 26 novembre 2008 (“…al momento del sopralluogo si accertava presso la proprietà della segnalante Sig.ra Or. la presenza di polvere che potrebbe provenire dall’operazione di preparazione del foraggio che viene effettuata dall’Az. Agr. Gi….”), per inferirvi l’impossibilità d’accertare la fonte d’emissione e, dunque, mancò il presupposto per l’emanazione dell’ordinanza impugnata.
Ora, il TAR, giustamente, rigettò tal assunto in modo secco, poiché, essendo “… incontestata la circostanza del carro unifit a distanza ravvicinata all’abitazione, costituiva nozione di comune esperienza la produzione di polveri da parte di detta attività…”, donde la correttezza dell’ordine di usare tale mezzo in luoghi e condizioni che potessero evitare la dispersione di polveri.
Gli appellanti affermano, da un lato, che l’uso del tempo condizionale non poté consentire che si accertasse la fonte dell’emissione di polvere e, dall’altro, che il foraggio preparato da detto carro Unifeed, essendo perlopiù trinciato di mais ad elevato tasso d’umidità poi triturato dalla coclea del carro stesso a bassa velocità, non è in grado di produrre polvere.
Pare invece al Collegio che quanto affermato dal TAR, nel citare in modo espresso la nozione di comune esperienza, non volle così esprimere in via diretta un’inferenza dalle massime d’esperienza, ai sensi, cioè, dell’art. 115, II c., c.p.c. Tali massime sono tutte le nozioni, regole, generalizzazioni, criteri, standard e leggi naturali o empiriche ritraibili da ogni uomo di media cultura in un dato contesto sociale, dall’esperienza del mondo. In realtà, il TAR interpretò il pensiero dell’ASL, che volle invece manifestare, in esito agli accertamenti svolti, l’alto grado di probabilità che quel tipo di polvere, che coinvolse pure il fondo Or., provenisse dalla lavorazione di quel tipo di foraggio mediante quel tipo di carro sito in prossimità di quel fondo. L’ASL verificò il pericolo attuale in cui versava l’incolumità e la salute pubblica, quindi non meramente ipotetico, ma basato sul riscontro di indizi gravi, precisi e concordanti.
7. Parimenti infondato è il ricorso n. 4492/2013 RG, con cui i sigg. Gi. si appellarono contro la sentenza n. 204/2013.
7.1. Ebbene, quanto al primo mezzo di gravame, gli appellanti non fecero altro che ribadire quanto già avevano affermato con il primo motivo del ricorso n. 4493/2013 RG, onde al Collegio non resta se non di rinviare il lettore ai §§ 6.1 e 6.2 della presente sentenza, per la motivazione del rigetto anche del motivo in esame.
7.2. Infondato è pure il secondo motivo, con cui gli appellanti richiamano il verbale di ispezione dell’ASL in data 5 agosto 2009 (“…dal punto di vista strutturale, i fabbricati che compongono la cascina non avevano subito modifiche rispetto a quanto evidenziato nel sopralluogo…”) per poter concludere che, in fondo, non vi fu la prova di emissioni nocive (e, quindi, mancò il presupposto per l’esercizio di poteri contingibili ed urgenti), a loro dire perché “… nel verbale non si dava minimamente atto dell’esistenza delle stesse ma unicamente e valutativamente che la presenza degli animali avrebbe potuto determinare conseguenze olfattive negative…”.
Il TAR giustamente reputò capziosa la lettura che già in prime cure gli odierni appellanti avevano offerto del predetto verbale, poiché il porticato, rispetto al precedente sopralluogo, era stato liberato dalla presenza di bovini, ma solo nella parte viciniore al fondo Or., sì da far rinvenire i bovini a m 15 dall’abitazione della sig. Or. di recente e sanata realizzazione ed a m 25 da quella esistente e che s’affaccia sul porticato stesso.
Invero, il verbale non si limitò a rappresentare l’uso strumentale della presenza dei bovini sotto tale porticato, o della loro assenza in un altro spazio un pò più lontano dal fondo Or., a seconda delle esigenze connesse ai sopralluoghi dell’ASL. Il verbale, che dunque va letto nella sua interezza per ben comprendere la correttezza del giudizio reso sul punto dal TAR, concluse dicendo che “… la vicinanza del paddock al porticato, proprio per la tipologia di stabulazione, avrebbe potuto determinare e accentuare le molestie olfattive…”.
A ben vedere, il senso delle parole, in particolare l’uso del tempo condizionale, non esprime una remota possibilità, come pare che l’intendano gli appellanti. La frase vuol solo significare, come già s’è visto dianzi col parere ASL del 26 novembre 2008, non già un’ipotesi, ma l’alta e ben evidente probabilità, propria delle massime d’esperienza che si reiterano nel tempo (ed anche dell’effusione dei poteri contingibili e urgenti), per cui è lecito inferire dalla viciniorità di tale paddock e dalla stabulazione libera dei capi bovini la causazione e l’incremento delle emissioni nocive verso il fondo Or..
7.3. Per quanto concerne poi il terzo motivo d’appello, occorre prender le mosse da quanto detto dal TAR sulla sussistenza delle ragioni d’interesse pubblico per la revoca in autotutela dell’ordinanza n. 392/2010. In particolare, sul punto il TAR precisò che il Comune diede congrua contezza di tale interesse, avendo richiamato “…in particolare… la violazione della norme a tutela delle stalle dalle abitazioni che hanno ontologicamente funzione prevalente sugli affidamenti privati…”.
Ebbene, i sigg. Gi. lamentano che la sentenza avrebbe così violato l’art. 38 del DPR 6 giugno 2001 n. 380, in assenza dei presupposti ex art. 21-nonies della l. 7 agosto 1990 n. 241 per l’esercizio della rimozione in autotutela della citata ordinanza n. 392, ma la tesi è manifestamente infondata.
Tre improprietà sono da rilevare, per sgombrare il campo da ogni equivoco.
La prima: a pag. 30 del ricorso n. 4492/2013, la citazione di ciò che disse il TAR alle pagg. 16/17 della sentenza appellata è erronea, perché il TAR usò i verbi al tempo indicativo e NON a quello condizionale. Tanto secondo l’assertivo stile sentenzioso, che tende ad esprimere certezze e non ad indicare dubbi nella risoluzione delle liti, manifestando nella specie una statuizione ben precisa sulla sussistenza dell’interesse pubblico all’autotutela.
La seconda: al di là di ogni questione se l’intervenuta revoca dopo due mesi dall’emanazione dell’atto revocato risponda al presupposto della motivazione rafforzata sulla ragionevolezza del termine entro cui l’autotutela può intervenire, comunque il richiamo all’art. 38 del DPR 380/2001, già lo disse a chiare lettere il TAR, non ha alcun senso nella specie. Invero, l’ordinanza revocata riguardò non già un pregresso PDC, ma il mero trasferimento dei capi bovini dal paddock ad altra struttura, soluzione, questa e come già l’ASL aveva previsto, rivelatasi foriera di ulteriori emissioni nocive, tanto da giustificarne la rapida correzione.
La terza: sfugge al Collegio, al di là della lunga dissertazione sull’annullamento in autotutela ed i suoi presupposti di cui al citato art. 38 in relazione all’art. 21-nonies della l. 241/1990, perché mai gli appellanti argomentino in relazione a tal forma d’autotutela, quando nella specie si versa in un caso di revoca vera e propria. Si rammenterà che l’ordinanza 392/2010 ritenne l’eliminazione del paddock, la liberazione del porticato dai bovini ed il loro trasferimento nella nuova struttura soluzioni utili a dar attuazione efficace a quanto statuito con la precedente ordinanza n. 344/2008; e che l’ordinanza n. 411/2010 revocò l’ordinanza n. 392/2010, non ritenendola più realizzabile a causa dell’eccessivo incremento della popolazione bovina. Non è chi non veda come la norma applicabile a tal vicenda sia non già il citato art. 21-nonies, ma il precedente art 21-quinquies della stessa legge n. 241, perché nel caso in esame fu rimossa a causa del mutamento della situazione di fatto (l’aumento del bestiame bovino), che determinò una nuova valutazione dell’interesse pubblico (la sopravvenuta inutilità della prima soluzione prescelta, perché maggiormente nociva per la salute collettiva).
7.4. Ma anche a voler seguire la tesi attorea, il risultato è pur sempre una statuizione di manifesta infondatezza.
La Sezione (cfr. Cons. St., VI, 27 gennaio 2017 n. 341; ma cfr. pure id., 10 dicembre 2015 n. 5625, con riguardo al DL 133/2014), da ultimo e pur occupandosi d’un caso di specie, ha puntualizzato, pure alla luce dei recenti approdi normativi ex l. 7 agosto 2015 n. 124 (c.d. “legge Madia”) che ha rivisto l’intero art. 21-nonies cit., le modalità di esercizio della discrezionale potestà di autotutela, con esito di annullamento, circa gli obblighi di motivazione a fronte sia dell’affidamento ingenerato nel destinatario sul consolidamento dell’efficacia dell’atto rimovendo, sia dell’incidenza del tempo trascorso tra quest’ultimo e la sua rimozione nel determinare tal affidamento, sia della qualità degli interessi coinvolti nell’autotutela.
La Sezione ha ritenuto che, ove si abbia un affidamento dei destinatari sulla stabilità dell’assetto degli interessi posto dall’atto rimovendo, l’atto d’autotutela deve contenere, soprattutto se adottato a distanza di un lungo tempo dal primo, “… una motivazione particolarmente convincente… circa l’apprezzamento degli interessi dei destinatari dell’atto…, in relazione alla pregnanza e alla preminenza dell’interesse pubblico alla eliminazione d’ufficio del titolo… illegittimo…”. Pertanto, l’interesse pubblico specifico alla rimozione dell’atto illegittimo va integrato da ragioni differenti dalla mera esigenza di ripristino della legalità (cfr. ex multis Cons. St., VI, 29 gennaio 2016 n. 351) e va motivato con maggior rigore a seconda non solo del tempo trascorso, ma pure dell’effetto, istantaneo o prolungato, di ampliamento della sfera giuridica soggettiva del destinatario. In tal caso, assume “… nel giudizio comparativo degli interessi confliggenti, maggiore rilevanza quello dei privati destinatari dell’atto ampliativo e minore pregnanza quello pubblico all’elisione di effetti già prodotti in via definitiva e non suscettibili di aggravamento (Cons. St., sez. IV, 29 febbraio 2016 n. 816)…”.
Afferma allora il Collegio che: a) – esiste un unico modello normativo (tranne talune eccezioni di settore), latamente discrezionale e salvo (parimenti discrezionale) convalida, del procedimento di secondo grado con esito di annullamento per porre rimedio ai vizi di cui all’art. 21-octies, c. 1 della l. 241/1990; b) – tale discrezionalità non si confonde, anzi prescinde dal tipo di potere esercitato col provvedimento viziato; c) – l’esercizio della discrezionalità stessa va motivata in modo più o meno stringente e non tautologico (c.d. “in re ipsa”), poiché non pare sussistere un interesse pubblico in senso assoluto sempre e comunque tanto forte, da elidere ogni diversa soluzione e da coincidere, in pratica, nel mero ripristino della legalità violata; d) – tale motivazione sarà, quindi, più o meno doviziosa ed articolata, ma sempre su un interesse pubblico concreto, cioè a seconda sia del tipo di assetto di interessi formatosi col provvedimento viziato, sia del tempo trascorso tra esso e quello in cui la P.A. vuol intervenire per porvi rimedio, sia dell’efficacia istantanea, o no, dell’ampliamento della sfera giuridica del destinatario; e) – l’affidamento di quest’ultimo alla serietà ed alla stabilità di tal assetto dev’esser a sua volta serio ed incolpevole (cfr. Cons. St., VI, 5 maggio 2016 n. 1774), di talché l’obbligo di motivazione diminuisce sensibilmente a fronte d’un illecito del destinatario prima dell’esercizio del potere originario o se il vizio che ne colpisce la manifestazione sia stato indotto, prima o nella fase d’esecuzione del provvedimento viziato, dal destinatario (cfr. Cons. St., IV, 31 agosto 2016 n. 3735: id., 14 dicembre 2016 n. 5262) e viceversa, ove l’errore sia provocato dall’agire incauto della P.A.; e) – tal affidamento è presunto (oggi juris et de jure) dal lungo tempo trascorso e viceversa, onde l’intervento più rapido possibile della P.A. nell’autocorrezione dei propri errori ne esprime la capacità di buon governo dei principi costituzionali d’imparzialità e di efficacia e, se non ne elide del tutto l’obbligo di motivazione, le consente di far legittimamente emergere la preponderanza di un interesse pubblico ancora attuale alla regolazione legittima e corretta della fattispecie, quand’anche vi sia un diverso interesse del destinatario.
Calando tali assunti nel caso in esame, è facile ribattere alla tesi attorea che:
1) – il breve tempo intercorso tra le due ordinanze, entrambe contingibili, manifestò una capacità d’autocorrezione del Comune, ben efficace a seguito dell’accertata inutilità della prima di esse;
2) – il Comune diede una seria contezza delle ragioni della correzione, avendo affermato che lo “…spostamento di bovini… determinerebbe una popolazione complessiva dell’azienda agricola troppa elevata per la loro ubicazione rispetto alle abitazioni di terzi… (onde)… l’unica soluzione sia lo spostamento… nel rispetto delle distanze previste dalla normativa vigente in materia, lasciando alla azienda la libertà di trovare la soluzione più idonea rispetta all’economia aziendale…”:
3) – entrambe le ordinanze furono non già ampliative, ma conformative dei poteri aziendali sull’allocazione dei bovini, poiché imposero agli appellanti lo spostamento dei bovini non secondo un loro libero apprezzamento, bensì in modo che fossero rispettate le distanze dal fondo Or..
8. A diversa conclusione deve il Collegio pervenire con riguardo al ricorso n. 2260/2016 RG, in quanto esso è meritevole di accoglimento, per le ragioni qui di seguito indicate.
8.1. La vicenda, come riassunta nelle premesse in fatto, prende le mosse dall’istanza dei sigg. Gi. del 13 novembre 2012, relativa al rilascio d’un PDC in sanatoria relativo ad una vasca, da loro stessi definita il 23 aprile 2013 una semplice vasca di raccolta e non per liquami del bestiame, previa assicurazione che il relativo numero presente in azienda non avrebbe mai superato il numero di 200.
Quest’ultimo, però, fu smentito dall’UTC a seguito del sopralluogo dell’11 giugno 2013, sicché i sigg. Gi. inviarono al Comune integrazioni progettuali e la conferma della presenza di non più 200 capi in area aziendale. L’ASL, tuttavia e con la nota del 4 settembre 2013, espresse parere negativo all’intervento edilizio e, anzi, ritenne non sufficiente la mera riduzione temporanea dei capi, concludendo invece, stante la potenzialità dell’azienda di accogliere fino a 280 bovini, per la riduzione effettiva di essa a non oltre i 200 capi.
Sicché i sigg. Gi. produssero l’istanza in data 24 settembre 2013, intesa ad ottenere il rilascio d’una PDC a sanatoria per la vasca in c.a., destinata a raccogliere i liquami del bestiame ed ubicata all’interno dell’immobile aziendale (nella specie, in quella distinta al fg. 1, part. 756). Il Comune, con la nota prot. n. 7193 del successivo 1° ottobre, comunicò ai sigg. Gi. l’avviso di rilascio del PDC in sanatoria, a condizione, tra l’altro, dell’atto d’obbligo, unilaterale e trascritto, in cui si sarebbe dovuto dichiarare che “… l’allevamento presente nell’immobile a cui è unita la vasca liquami oggetto della sanatoria non è superiore a 200 capi e che gli stessi non verranno aumentati…”. È così intervenuto l’atto d’obbligo dei sigg. Gi. in data 14 gennaio 2014, col quale i sigg. Gi. si sono impegnati “… a mantenere l’allevamento presente nell’immobile a cui è unita la vasca liquami oggetto della sanatoria con un numero di capi non superiore a 200… e comunque con peso vivo massimo allevabile di 900… quintali, così come stabilito dal Regolamento locale di igiene della Regione Lombardia…”. L’atto ha precisato altresì che, in caso di superamento di detti parametri, “… la vasca liquami determinerà violazione delle distanze previste nel regolamento d’igiene… e dovrà essere demolita…”.
Il Comune ha allora rilasciato, in via definitiva e senza far riferimento all’ordinanza n. 155/2014, il PDC n. 3511/E del 18 febbraio 2014.
Contro la nota n. 7193/2013 la sig. Or. s’è gravata, col ricorso n. 42/2014 RG, innanzi al TAR Brescia che, con l’ordinanza n. 155 del 21 marzo 2014, ne ha respinto la domanda cautelare. Il TAR ha però previsto: I) la sanatoria della predetta vasca è subordinata al rispetto delle distanze minime, se del caso derogabili; II) la condizione giuridica della vasca varia sensibilmente, a seconda che l’allevamento di cui è pertinenza contenga più o meno di 200 capi; III) se tal numero supera siffatta soglia, bisogna rispettare distanze maggiori, stante la pressoché completa difformità rispetto al RLI ed alle NTA verso i controinteressati, rendendo così difficile giustificare la deroga che si traduce in un indebito vantaggio a favore di chi produce le molestie olfattive ed i rischi igienico-sanitari; IV) per ottenere tal deroga, allora si devono limitare nella misura massima possibile dette molestie, con la rinuncia ad una parte delle proprie utilità, ossia senza superare la soglia dei 200 capi e, quindi, producendo una minor quantità di liquami; V) solo a queste condizioni, la distanza minima scende a m 50 dalla proprietà Or.; VI) anche rispettando tali condizioni, non sarebbero mantenute le altre distanze minime (m 200 dalle zone filtro E2; m 100 dalle zone produttive e commerciali, sebbene il RLI dia la facoltà di deroga ove siano adottati sistemi di abbattimento delle molestie; VII) al fine di evitare che l’allevamento compia comportamenti opportunistici (diminuendo il numero dei capi in occasione delle verifiche ed aumentandolo nei restanti periodi), come dice il Comune si terrà conto del fascicolo SIARL e dell’anagrafe bovina (alla quale va comunicata, entro sette giorni, ogni variazione nel numero dei capi); VIII) per l’abbattimento delle molestie, occorre riferirsi alle varie prescrizioni dell’autorità veterinaria imposte in sede di deroga delle distanze.
Il TAR ha individuato lo strumento di raccordo delle esigenze urbanistiche ed igienico-sanitarie nel citato atto d’obbligo, recante l’impegno dei sigg. Gi. a: 1) non superare la soglia di 200 capi bovini presenti in azienda (condizione, questa, necessaria sia per il rilascio, sia per il mantenimento del PDC in sanatoria), 2) adottare le migliori tecniche indicate dall’autorità veterinaria per mitigare le predette molestie; 3) prestare la massima collaborazione agli uffici comunali ed all’ASL per le verifiche sul rispetto della soglia stessa; 4) trasmettere alla sig. Or. la copia di tale atto (quale soggetto direttamente interessato alla mitigazione degli effetti negativi della vasca liquami).
8.2. A seguito di sopralluogo dell’ASL – Distr. veterin. di (omissis) e dei NAS dei CC, s’è appurato che in azienda sostavano un numero superiore ai 200 capi bovini tra adulti e vitelli (nella specie, 223 bovini, numero corrispondente a quello indicato dalla Banca dati regionale). Dal 18 dicembre 2014 in poi, il numero dei bovini presenti in azienda ha subito talune variazioni, attestandosi comunque ad un numero sempre superiore alla soglia di 200.
Alla fine e con l’ordinanza n. 25 del 4 maggio 2015, il Comune, in assenza di giustificazioni da parte dei sigg. Gi. al riguardo e vista la persistente violazione dell’ordinanza del TAR n. 155/2014, ha ingiunto loro la demolizione della vasca liquami oggetto del PDC in sanatoria n. 3511/E.
Avverso tal statuizione, i sigg. Gi. hanno a loro volta adito il TAR Brescia che, con ordinanza n. 2074 dell’11 maggio 2015, ha disposto, previa concessione di misura cautelare, una verificazione con riguardo alla circostanza, emersa dalla relazione del tecnico dei ricorrenti ed inerente al PUA del 2001, se “… l’azienda agricola del ricorrente, allo stato, abbia la disponibilità e utilizzi, abitualmente, due vasche di stoccaggio di cui una, quella oggetto del condono, collegata alla stalla “nuova” e l’altra, presumibilmente, collegata alla stalla “vecchia”…”.
In particolare, l’ordinanza ha chiesto di: “… 1. verificare se l’Azienda agricola… disponga di una o due vasche per lo stoccaggio del liquame; 2. accertare se l’eventuale seconda vasca (oltre a quella oggetto di condono) è attualmente in uso e, in caso di risposta positiva, se essa risulta essere in regola con la vigente normativa. In caso di risposta negativa stabilire, se possibile, da quanto tempo essa risulta inutilizzata; 3. verificare dove vengono stoccate le deiezioni (liquame) dei capi la cui presenza è stata rilevata nel deposito-magazzino realizzato in forza del permesso di costruire n. 3038 del 2008 a ridosso della stalla nuova…”. La verificazione è stata affidata al responsabile dell’UTC che, in contraddittorio con i soli sigg. Gi. e con l’assistenza dell’ASL (e, dunque, nel corso di un sopralluogo congiunto), avrebbe dovuto accertare quanto chiesto dal TAR.
In esito a questa, s’è appurato anzitutto che le vasche sono due, quella autorizzata e realizzata nel 1996 in una con la stalla nuova (sia pur con talune difformità, ma sanate con il PDC n. 3649 del 10 agosto 2015) e quella oggetto del presente contenzioso, entrambe collegate sì alla stalla ma che non raccolgono liquami, trattati in altro modo.
Dal che, come s’è visto, l’accoglimento della pretesa azionata in prime cure che, tuttavia, non aveva pregio alcuno e sarebbe dovuta esser respinta fin dall’inizio, giacché già in altro e poco precedente contenzioso tra le parti il Comune aveva precisato che, a tutto concedere, la vasca de qua, oggetto di sanatoria, rispettava le distanze di RLI solo per allevamenti inferiori a 200 capi.
8.3. Ma l’appello è anzitutto da accogliere già in base ai primi tre motivi in rito, che qui si possono trattare congiuntamente.
S’è accennato poc’anzi dell’evidente anomalia in cui è incorso il TAR, quando, pur essendo la sig. Or. controinteressata anche in questo contenzioso, ha disposto la verificazione sulle vasche dei sigg. Gi. senza prevedere il necessario contraddittorio tra tutte le parti. La sig. Or. ha fatto constare tal situazione nella memoria conclusiva depositata al TAR il 7 novembre 2015 (pag. 8), dove ella ha affermato come la sua presenza in contraddittorio era reclamata “… quale parte necessaria del processo… dal principio del giusto processo che impone il rispetto della parità delle parti… dove ciascuna (di esse)… abbia la possibilità di confutare in maniera efficace le altrui argomentazioni… (onde)…l’assenza della… controinteressata non è senza effetti sulla verificazione disposta…” dal TAR. L’impugnata sentenza ha reputato irrilevante tal circostanza, in quanto la sig. Or. “… avrebbe dovuto, dunque semmai, tempestivamente impugnare l’ordinanza… che l’ha esclusa dalla verificazione…”.
Ha ragione la sig. Or. a contestare l’evidente erroneità di tal assunto, ma con alcune precisazioni.
È noto l’avviso della giurisprudenza per cui la verificazione (accertamento a funzione descrittiva ed illustrativa per completare la conoscenza dei fatti non desumibili dalle risultanze documentali: cfr. così Cons. St., VI, 12 novembre 2014 n. 5552) è il mezzo di prova che consente a questo Giudice, nel processo amministrativo, di richiedere gli opportuni chiarimenti, oltre che ad una P.A. “terza”, anche alla stessa P.A. che ha emanato il provvedimento impugnato. Né ciò implica la violazione del principio di terzietà, del diritto di difesa e del contraddittorio, poiché l’onere di tal istruttoria è così diretto alla P.A. quale “Autorità pubblica” che, in tal specifica veste, è tenuta a collaborare con questo Giudice al fine di accertare la verità dei fatti (cfr., per tutti, Cons. St., VI, 26 marzo 2013 n. 1671; id., III, 4 maggio 2016 n. 1757). Ma soccorre altresì il parimenti noto principio (formulato da Cons. St., IV, 26 novembre 2013 n. 5628), in virtù del quale pure nella verificazione va garantito il pieno contraddittorio tra le parti, atteso che essa costituisce un mezzo istruttorio che non si può ritenere meno garantista rispetto alla consulenza tecnica.
Quanto agli effetti di tal pretermissione, sovviene al Collegio un isolato arresto di questo Giudice (cfr. Cons. St., IV, 8 marzo 2012 n. 1343), che reputò applicabile l’art. 105 c.p.a. al caso di difetto di contraddittorio, tra le parti in causa, in occasione della disposta verificazione, sicché il Giudice di appello è tenuto a rimettere la causa al Giudice di prime cure.
Più articolata è la giurisprudenza civile (cfr. gli arresti contenuti in Cass., II, 24 maggio 2000 n. 6808; id., I, 31 gennaio 2007 n. 2201), secondo cui la violazione del principio del contraddittorio processuale, che è un vizio non formale ma di attività, ben può verificarsi anche con riguardo al provvedimento di ammissione d’una prova relativa ad una circostanza di fatto decisiva. Tanto, tra l’altro, quando l’ammissione sia stata disposta dal Giudice valendosi dei suoi poteri discrezionali ed ammettendo una prova di fronte alla quale una delle parti sia stata privata di ogni possibilità di concreta difesa istruttoria. Ciò determina sì, in una con l’invalidità dell’intero giudizio e della pronuncia che sulla prova inammissibile s’è basata, l’effettiva compressione del diritto di difesa della parte pretermessa, ma soggiace pure alla regola di sanatoria per raggiungimento dello scopo. In pratica (ben lo dice Cass., II, n. 6808/2000), la violazione del contraddittorio non rileva se l’atto ha egualmente raggiunto lo scopo di instaurarne uno regolare o se comunque l’inosservanza di esso non ha causato pregiudizio alla parte. Nella specie, evidente è stata la violazione del contraddittorio ex ante, nonché il concreto pregiudizio che quest’ultima ha provocato all’odierna appellante, tant’è che ella ha dovuto far constare, in una con tal pretermissione e l’omessa partecipazione all’attività istruttoria, l’erroneità delle conclusioni della verificazione, pur se il TAR ha reputato tali argomenti del tutto irrilevanti.
Pare allora al Collegio preferibile la tesi, nei termini adesso enunciati, non dell’annullamento della sentenza con rinvio al primo Giudice, ma più semplicemente dell’inammissibilità della prova così erroneamente assunta e, soprattutto, sussunta in sentenza, che in tal caso è irretita da un evidente error in judicando, anch’esso parimenti censurato col ricorso in epigrafe.
Anzi, siffatta scansione di eventi (difettoso contraddittorio nell’assunzione della prova, denuncia di ciò in vista dell’udienza collegiale di merito e motivo d’appello sull’erronea statuizione sulla prova irregolare) in sostanza realizza il modello, ben investigato nella giurisprudenza civile e che dimostra l’erroneità dell’appellata sentenza sul punto, dell’irrilevanza della mancata proposizione di un reclamo ex art. 178 c.p.c. contro un’ordinanza istruttoria concernente l’ammissione o l’espletamento delle prove.
Tal omissione di per sé non preclude alla parte interessata di dolersene davanti al collegio quando questo sia investito di tutta la causa ai sensi del successivo art. 189 c.p.c., sempre che, in sede di conclusioni definitive, abbia richiesto la revoca di detta ordinanza. In caso contrario resta preclusa al collegio la decisione in ordine all’ammissibilità della prova, onde tal questione non può neanche esser proposta in sede d’impugnazione (cfr. così, per tutti, Cass., I, 1° agosto 2007 n. 16993; id., II, 23 maggio 2012 n. 8162; id., sez. un., 23 settembre 2013 n. 21670, in tema di prova testimoniale; id., II, 23 novembre 2016 n. 23896). Come si vede, l’omessa impugnazione dell’ordinanza di verificazione, in sé non impugnabile (arg. ex. Cons. St., V, 25 giugno 2010 n. 4068, sull’ordinanza ex art. 116 c.p.a., invocata a sproposito dagli appellati; id., IV, 12 luglio 2013 n. 3759; id., 26 novembre 2014 n. 5850), non ha determinato alcuna preclusione in capo all’appellante. Né avrebbe in alcun caso impedito al TAR di pronunciarsi tanto sul profilo di rito, quanto su quello del merito, ossia sul contenuto specifico dell’esito della verificazione stessa. E ciò in quanto ha natura non decisoria l’ordinanza istruttoria, che è un atto strettamente inerente ai poteri istruttori di questo Giudice e non è quindi autonomamente appellabile, ferma restando la possibilità di contestarne il contenuto in sede d’impugnazione di merito.
È solo da soggiungere la fondatezza anche del secondo motivo d’appello, giacché, stante il chiaro disposto dell’art. 66, c. 1, c.p.a., il potere di delega, in difetto di un’espressa volizione della citata ordinanza n. 2074/2015, non era nell’autonoma determinazione del capo dell’organismo verificatore neppure attraverso l’escamotage di nominare il delegato quale responsabile del procedimento, Tale scelta, in sé ineccepibile nell’esercizio dei poteri organizzativi del dirigente dell’unità operativa nel gestire i procedimenti amministrativi, non ha alcun senso quando essa sia direttamente compiuta dall’ausiliario del Giudice, i cui poteri sono fissati dalle statuizioni di quest’ultimo, più che dalle norme di organizzazione proprie della struttura amministrativa.
8.4. Ferma, dunque, la nullità di quanto p(omissis) con la verificazione, parimenti da accogliere sono le deduzioni dell’appellante nel merito della controversia.
In particolare e solo per una miglior comprensione di queste ultime censure, si rammenti che da tale verificazione si può evincere la presenza, all’interno del compendio Gi., due vasche, di cui la prima eseguita a fianco della stalla nuova ed in difformità del progetto e che poi sarà sanata in un momento successivo ai fatti della presente causa. La vasca n. 2, menzionata già dal PUA del 2001. Quest’ultima, che il TAR indica come sanata, è in realtà quella oggetto del preavviso comunale di condono (nota n. 7193/2013) impugnato dalla sig. Or. col ricorso n. 42/2014 RG e, poi, dal PDC n. 3511/2014, nonostante il parere negativo dell’ASL. Il PDC è dunque quello preceduto dall’atto d’obbligo dei sigg. Gi., ma che avrebbe dovuto rispettare pure l’ordinanza TAR n. 155/2014, anche se il Comune non l’ha affatto richiamata nel PDC stesso. Nondimeno, proprio a causa del perdurante inadempimento delle prescrizioni statuite nell’ordinanza n. 155/2014, il Comune è stato indotto ad emanare a sua volta l’ordinanza di demolizione n. 25/2015
Ciò posto, col quarto motivo la sig. Or. rammenta proprio come detta ordinanza n. 25 si basasse sul superamento del numero massimo di capi bovini che sarebbero potuti restare nella stalla, poiché solo il rispetto della soglia imposta dallo stesso TAR, con l’ordinanza n. 155/2014, avrebbe potuto consentire il mantenimento del bestiame a m 50 dal fondo Or..
Non dura fatica il Collegio ad ammettere che sia la nota n. 7193/2013, sia l’atto d’obbligo recano la precisazione per cui “… l’allevamento presente nell’immobile a cui è unita la vasca liquami oggetto della sanatoria non è superiore a 200 capi e che gli stessi non verranno aumentati…”.
Di per sé sola, tale frase si presta facilmente all’interpretazione secondo cui il valore – soglia di 200 capi si sarebbe potuto riferire al solo fabbricato (la stalla nuova) cui era stata unita quella che i sigg. Gi. indicano come la vasca liquami (n. 2), tant’è che il TAR ha concluso in questo senso. Ma in tal modo gli appellati (ed il TAR) hanno equivocato sul necessario collegamento della stalla alla vasca liquami oggetto di sanatoria, mentre l’unico significato possibile del PDC n. 3511/2014, non rinvenendosi più in esso il richiamo espresso alla predetta frase, è e resta soltanto quello evincibile sul punto dall’ordinanza n. 155/2014. In altre parole, il rispetto del valore – soglia globale (ossia per tutta l’azienda) di 200 capi è la condicio sine qua non sarebbe stato possibile ottenere la deroga alle distanze minime indicate dal RLI.
Infatti, l’ordinanza del TAR n. 155/2014 ha conformato l’intera attività delle parti (e, quindi, anche del Comune), al di là della previetà rispetto ad essa dell’atto di obbligo e del PDC n. 3511/E/2014, sicché, per ottenere tal deroga, si sarebbero dovute limitare al massimo le molestie igienico-sanitarie con la rinuncia ad una parte delle utilità aziendali, senza cioè superare la soglia dei 200 capi e così producendo una minor quantità di liquami.
È facile allora rispondere all’assunto degli appellati, i quali non comprendono perché mai il numero degli animali allevabili sarebbe dovuto essere solo di 200 capi senza distinzione tra la stalla vecchia e la stalla nuova (e tra l’immobile cui era collegata la vasca liquami oggetto di sanatoria e la stalla vecchia), rinvenendone il criterio ermeneutico proprio nel loro titolo edilizio, a quanto consta mai contestato nel presente o in altro giudizio. Esso non avalla tal ricostruzione e va letto in una con quanto il TAR disse con le linee-guida recate dalla citata ordinanza n. 155 sul rispetto delle distanze minime sia verso il fondo Or., sia nei riguardi degli altri immobili. Si può discettare se in realtà tale limite non sia in sé superabile ma, in disparte l’unitarietà dell’allevamento come si evince ed è descritto nel PUA, nel SIARL ed all’Anagrafe bovina, in tal caso scatterebbe comunque la clausola di salvaguardia recata dall’art. 2 dell’atto d’obbligo (illiceità della vasca ed obbligo di demolizione). Resta così assorbito l’ottavo motivo di gravame.
Inoltre, e ciò implica l’accoglimento pure del quinto motivo, la presenza ad libitum dei capi stessi in azienda sarebbe in violazione delle distanze minime imposte dal RLI.
Da accogliere è il sesto motivo, giacché, a fronte della lettiera permanente indicata in verificazione, il TAR ben avrebbe dovuto assumere una diversa statuizione, ad onta del diverso parere degli appellati, imponendo al riguardo il RLI regole stringenti sullo stoccaggio delle deiezioni animali, il quale non sussiste o non è espressamente descritto nella verificazione.
Il settimo motivo, che riguarda le pretese degli appellati sul principio di prevenzione (il quale certo non si applica alla stalla nuova), resta assorbito da quanto già detto dal Collegio per gli altri ricorsi qui riuniti.
9. In definitiva, i primi due appelli vanno rigettati ed il terzo va accolto nei sensi fin qui esaminati. Tutte le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta al Collegio, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come si evince dalla giurisprudenza costante: cfr., ex plurimis, Cass., II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, più di recente, id., V, 16 maggio 2012 n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.
Le spese di giudizio seguono, come di regola, la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sez. VI), definitivamente pronunciando sugli appelli come in epigrafe proposti e previa loro riunione, respinge i ricorsi n. 4492/2013 RG e n. 4493/2013 RG e accoglie il ricorso n. 2260/2016 RG e per l’effetto, in integrale riforma della sentenza gravata, rigetta il ricorso di primo grado proposto dai sigg. Gi. e dalla loro Azienda agricola.
Condanna i sigg. Gi. e l’Azienda agricola Gi. Ma. Da. e Ma. o s.s. al pagamento, in solido ed in misura uguale tra loro, delle spese del doppio grado di giudizio a favore della sig. Or., le quali sono nel complesso liquidate in € 10.000,00 (Euro diecimila/ 00), oltre IVA ed accessori come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 19 gennaio 2017, con l’intervento dei sigg. Magistrati:
Luciano Barra Caracciolo – Presidente
Carlo Deodato – Consigliere
Silvestro Maria Russo – Consigliere, Estensore
Oreste Mario Caputo – Consigliere
Dario Simeoli – Consigliere
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