Nel giudizio di ottemperanza, l’applicabilità del termine dilatorio di centoventi giorni decorre dalla notificazione della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale recante il pagamento di somme di denaro, ancorché privo della formula esecutiva, e comporta, soltanto, che il creditore non può portare a esecuzione il titolo medesimo prima del decorso del detto termine e che il relativo giudizio è improcedibile fino alla sua infruttuosa scadenza
Consiglio di Stato
sezione V
sentenza 13 aprile 2017, n. 1766
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quinta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5974 del 2016, proposto da:
ATER Teramo – Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale della Provincia di Teramo, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avvocati Sa. Pa. e Fa. Pa., con domicilio eletto presso lo studio Ro. Re., in Roma, via (…);
contro
An. Mo. e Ma. Ma., rappresentati e difesi dagli avvocati Gi. Ce. e St. Co., con domicilio eletto presso lo studio Da. Va., in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del T.A.R. Abruzzo – L’Aquila, n. 00347/2016, resa tra le parti, concernente ottemperanza sentenza n. 171/2011 della Corte d’Appello di L’Aquila – pagamento somme.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di An. Mo. e di Ma. Ma.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 16 marzo 2017 il Cons. Alessandro Maggio e uditi per le parti gli avvocati Fa. Pa., Sa. Pa. e Gi. Ce.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Con sentenza 1/2/2011, n. 171, passata in giudicato, la Corte d’Appello di L’aquila ha condannato l’ATER di Teramo – Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale della Provincia di Teramo (succeduta all’Istituto Au. Ca. Po. di Te.), a pagare, in favore della Ma. & Mo. s.n. c. – cancellata dal registro delle imprese in data 15/6/2010 – la somma di € 152.247,93 oltre interessi legali e spese di giudizio.
Stante l’inerzia dell’ATER nel dare esecuzione al giudicato, i sig.ri An. Mo. e Ma. Ma. – il primo nella veste di socio della detta società estinta, il secondo quale erede legittimo e rappresentante degli altri eredi del sig. Gi. Ma. (già socio della stessa società) – hanno proposto ricorso in ottemperanza al TAR Abruzzo – L’Aquila, il quale, con sentenza 7/6/2016 n. 347, lo ha accolto.
Ritenendo la sentenza n. 347/2016 erronea e ingiusta l’ATER l’ha impugnata chiedendone l’annullamento.
Per resistere all’appello si sono costituiti in giudizio i sig.ri Mo. e Ma..
Con successive memorie entrambe le parti hanno ulteriormente illustrato le rispettive tesi difensive.
Alla camera di consiglio del 16/3/2017, la causa è passata in decisione.
In via pregiudiziale va affrontata la questione sollevata dalla difesa dell’appellante in camera di consiglio.
Si sostiene che la memoria di replica presentata dagli appellati sarebbe inammissibile in quanto la precedente memoria difensiva della stessa appellante sarebbe meramente riepilogativa di quanto già esposto nei precedenti scritti.
La richiesta non può trovare accoglimento.
Infatti, ai sensi dell’art. 73, comma 1, c.p.a. presupposto indefettibile, e allo stesso tempo sufficiente, per la presentazione di memorie di replica e l’avvenuto deposito di memorie conclusionali, indipendentemente dal contenuto di queste ultime, atteso che la citata norma è finalizzata a garantire a ciascuna parte la possibilità di controbattere agli argomenti, ancorché ripetitivi, spesi dall’altra nelle proprie conclusioni.
Col primo motivo l’ATER deduce, in sintesi, che il giudice di prime cure avrebbe errato nel ritenere sufficiente, ai fini dell’ottemperanza, la notifica della sentenza da eseguire priva di formula esecutiva.
Infatti, ai sensi dell’art. 14 del D.L. 31/12/1996, n. 669, perché inizi a decorrere il termine di centoventi giorni, concesso alle pubbliche amministrazioni per pagare, occorrerebbe la notifica della sentenza munita di formula esecutiva, mentre la copia della sentenza notificata all’ATER ne era priva.
Inoltre, a prescindere da quanto sopra esposto, prima di notificare il ricorso in ottemperanza gli odierni appellati avrebbero dovuto attendere lo spirare del suddetto termine dilatorio, non essendo sufficiente, diversamente da quanto si afferma nell’appellata sentenza, che il medesimo fosse trascorso al momento del passaggio in decisione della causa.
Il motivo è infondato.
Dispone il menzionato art. 14: “Le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completano le procedure per l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l’obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto”.
La trascritta norma, evidentemente calibrata sul processo civile, è stata ritenuta applicabile al procedimento di ottemperanza (fra le tante Cons. Stato, Sez. IV, 7/4/2015, n. 1772 e 22/5/2014, n. 2654), ovviamente con i necessari adattamenti.
La giurisprudenza amministrativa ha, infatti, affermato i seguenti condivisibili principi.
a) La disciplina del giudizio di ottemperanza è racchiusa nelle disposizioni del c.p.a. (artt. 112 – 115) e ad essa, in linea generale, non si applicano le disposizioni dell’esecuzione civile stabilite dal c.p.c.
b) La formula esecutiva apposta in calce alla sentenza da ottemperare non costituisce presupposto o requisito dell’azione di ottemperanza.
Ed invero, occorre distinguere tra “titolo esecutivo” – ovvero l’atto che ai sensi dell’art. 474, c.p.c., attribuisce un diritto certo, liquido ed esigibile realizzabile coattivamente – e “spedizione in forma esecutiva”, che, in base all’art. 475 c.p.c., costituisce requisito necessario affinché le sentenze – e gli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria – possano essere effettivamente portati a esecuzione secondo il rito civile.
L’art. 14 del D.L. n. 669/1996, di cui si assume, a torto, la violazione, si riferisce al “titolo esecutivo” (che, ai fini dell’esecuzione civile, deve essere spedito in forma esecutiva); al contrario l’art. 115, comma 3, c.p.a. stabilisce espressamente che, ai fini del giudizio di ottemperanza, non è necessaria l’apposizione della formula esecutiva.
Sul punto è insuperabile il dato testuale della del citato art. 115, comma 3, secondo cui: “Ai fini del giudizio di ottemperanza di cui al presente Titolo non è necessaria l’apposizione della formula esecutiva”. In contrario non possono invocarsi le ulteriori norme di cui ai commi 1 e 2 del medesimo articolo, perché esse si limitano a stabilire che i provvedimenti del giudice amministrativo, che dispongono pagamenti di somme di denaro, possono essere portati ad esecuzione con le forme previste dal Libro III del c.p.c. e costituiscono titolo per l’iscrizione di ipoteca: a questo solo scopo è possibile, su richiesta di parte, attribuire loro la c.d. formula esecutiva.
Deve, pertanto, ritenersi che il termine di centoventi giorni, di cui al suddetto art. 14, nel giudizio di ottemperanza, inizi a decorrere dalla notifica del titolo esecutivo presso la sede dell’ente debitore, anche se privo di formula esecutiva.
c) Nel giudizio di ottemperanza, l’applicabilità del ricordato termine dilatorio di centoventi giorni decorre dalla notificazione della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale recante il pagamento di somme di denaro, ancorché come precisato, privo della formula esecutiva, e comporta, soltanto, che il creditore non può portare a esecuzione il titolo medesimo prima del decorso del detto termine e che il relativo giudizio è improcedibile fino alla sua infruttuosa scadenza (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 6/5/2015, n. 2257; Sez. IV, 13/6/2013, n. 3280; C. Si., 27/7/2012, n. 725).
Nella specie, la sentenza n. 171/2011, benché mancante di formula esecutiva, è stata notificata all’ATER nel luglio 2015 e al momento del passaggio in decisione del ricorso (11/5/2016), era già trascorso il prescritto termine dilatorio, con la conseguenza che non sussisteva alcun ostacolo all’esame nel merito della domanda.
Col secondo motivo l’appellante denuncia, sotto due distinti, profili l’errore in cui sarebbe incorso l’adito TAR nel ritenere i sig.ri Mo. e Ma. legittimati ad agire.
1) Per un verso, la gravata pronuncia si baserebbe sul falso presupposto che all’estinzione della Ma. & Mo. s.n. c. abbia fatto seguito una fase di liquidazione, all’esito della quale sarebbe sorto il credito oggetto della proposta azione di ottemperanza.
Tuttavia:
a) gli originari ricorrenti non sono stati parte del giudizio civile concluso con la sentenza della Corte d’Appello di L’aquila n. 171/2011;
b) quest’ultima è stata pronunciata nei confronti della Ma. & Mo. s.n. c. in persona degli amministratori Gi. Ma. e An. Mo.; sennonché il primo è deceduto in corso di causa senza essere sostituito e senza che il giudizio sia stato interrotto, per cui la sentenza successivamente intervenuta non gli ha attribuito alcun diritto.
In conclusione i crediti divenuti liquidi, come quello di specie, dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese e, dunque, dopo la sua estinzione, non sarebbero trasmissibili ai soci e ai loro eredi, dovendosi interpretare, il mancato svolgimento di attività da parte del liquidatore prima dell’estinzione della società come implicita volontà di rinunciare al diritto.
2) Per altro verso, il giudice amministrativo potrebbe pronunciare sul ricorso per l’ottemperanza solo qualora colui che agisce risulti ictu oculi il titolare del diritto azionato e non, invece, nei casi, come quello di specie, in cui per individuare il legittimato ad agire occorrano complesse indagini di diritto civile, commerciale o societario, essendo precluso al giudice dell’esecuzione compiere valutazioni in fatto e in diritto ulteriori rispetto a quelle effettuate nell’ambito del giudizio definito con la sentenza da ottemperare.
Il motivo è infondato sotto ciascuno dei due profili in cui si articola.
Con riguardo al primo di essi occorre premettere in punto di fatto che:
a) con sentenza 13/1/1997 n. 22 il Tribunale di Teramo ha condannato l’Istituto Au. Ca. Po. a pagare in favore della Ma. & Mo. s.n. c. – i cui soci e amministratori erano i sig.ri Gi. Ma. e An. Mo. – la somma di £ 32.419.472;
b) ritenendo non completamente soddisfatte le proprie pretese la società ha appellato la sentenza;
c) nelle more del giudizio d’appello il sig. Gi. Ma. è deceduto;
d) all’udienza del 2/12/2009 la causa è stata trattenuta in decisione e in data 15/6/2010 la Ma. & Mo. s.n. c. è stata cancellata dal registro delle imprese, ai sensi dell’art. 3 del D.P.R. 24/7/2004, n. 247;
e) con sentenza 1/2/2011, n. 171, passata in giudicato, la Corte d’Appello di L’Aquila ha condannato l’ATER Teramo, subentrata nei rapporti del disciolto Istituto Au. Ca. Po., al pagamento in favore della Ma. & Mo. s.n. c. la somma di € 152.247,93 oltre interessi legali e spese di giudizio;
f) per ottenere l’esecuzione del giudicato i sig.ri An. Mo. e Ma. Ma. – il primo nella veste di socio della detta società, il secondo quale erede legittimo e rappresentante degli altri eredi del sig. Gi. Ma. – hanno proposto ricorso in ottemperanza al TAR Abruzzo – L’Aquila.
Orbene, nel descritto contesto fattuale, non può negarsi agli odierni appellati la legittimazione ad agire per ottenere l’ottemperanza della citata sentenza n. 171/2011.
Occorre intanto puntualizzare che nessuna rilevanza può assumere in questa fase la circostanza che, a seguito della morte del sig. Gi. Ma., il giudizio, poi definito con la sentenza n. 171/2011, non sia stato interrotto.
Ogni questione interna a quel processo resta, infatti, assorbita e superata dal giudicato sul medesimo formatosi.
Per il resto il Collegio ritiene che – indipendentemente dal fatto che vi sia stato o meno una fase di liquidazione – una volta estintasi la società (per effetto della cancellazione dal registro delle imprese), i crediti divenuti liquidi successivamente alla sua estinzione, ma che traggono origine, come nella specie, da presupposti di fatto verificatisi durante l’esistenza in vita della persona giuridica, si trasmettano ai soci per effetto di un meccanismo successorio analogo a quello che si realizza in relazione ai debiti societari.
Ed invero, se l’esistenza dell’ente collettivo e l’autonomia patrimoniale che lo contraddistingue impediscono, pendente societate, di riferire ai soci la titolarità dei beni e dei diritti unificati dalla destinazione impressa loro dal vincolo societario, è ragionevole ipotizzare che, venuto meno tale vincolo, la titolarità dei beni e dei diritti residui o sopravvenuti torni ad essere direttamente imputabile a coloro che della società costituivano il substrato personale. Il fatto che sia mancata la liquidazione di quei beni o di quei diritti, il cui valore economico sarebbe stato altrimenti ripartito tra i soci, comporta soltanto che, venuta meno la società, s’instauri tra i soci medesimi, ai quali quei diritti o quei beni pertengono, un regime di contitolarità o di comunione indivisa, onde anche la relativa gestione seguirà il regime proprio della contitolarità o della comunione (Cass. Civ. Sez. I, 29/10/2014, n. 22988).
La prospettata soluzione è tanto più valida nell’odierna fattispecie in cui la società si è estinta dopo il passaggio in decisione della causa conclusasi con la sentenza n. 171/2011 e quindi in un momento in cui non era più richiesta alcuna attività processuale da parte della stessa società.
Né può intravedersi nell’intervenuta cancellazione dal registro delle imprese in pendenza del giudizio, un’ipotesi di rinuncia tacita al diritto di credito, posto che la volontà abdicativa deve risultare da un’esplicita manifestazione di volontà o da elementi concludenti, univoci ed incompatibili con l’intento di conservare il diritto (Cass. Civ., Sez. I, 21/12/2002, n. 18224), elementi questi che non possono riscontrarsi nella situazione concreta, posto che la cancellazione dal registro delle imprese è avvenuta ex officio e non risulta sia mai stato nominato un liquidatore.
Tanto basta a riconoscere la legittimazione ad agire quantomeno al sig. An. Mo..
Essendo egli socio della Ma. & Mo. s.n. c. era sicuramente titolato ad esercitare, anche singolarmente, le azioni a tutela del diritto di credito di cui alla citata sentenza.
Ma la stessa legittimazione va riconosciuta anche al sig. Ma. Ma..
Come emerge dalla ricostruzione degli eventi più sopra operata, il diritto di credito di cui si controverte origina da presupposti fattuali verificatisi durante l’esistenza in vita del sig. Gi. Ma..
Deve quindi ritenersi che nella posizione di quest’ultimo sia subentrato, quale erede legittimario e discendente legittimo, il sig. Ma. Ma. sulla base di un fenomeno analogo alla rappresentazione (artt. 467 e segg. cod. civ.).
Alla luce degli enunciati principi deve pertanto concludersi nel senso che gli odierni appellati fossero legittimati ad agire in ottemperanza per ottenere l’esecuzione della sentenza n. 171/2011: il sig. An. Mo. in quanto socio della disciolta società, il sig. Ma. Ma. per rappresentazione del defunto sig. Gi. Ma..
Relativamente al secondo profilo è, invece, sufficiente rilevare che, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, la verifica della sussistenza delle condizioni dell’azione – tra cui la legittimazione ad agire – rientra sicuramente nell’ambito delle questioni rimesse alla disamina del giudice dell’ottemperanza.
Col terzo motivo l’ATER lamenta la violazione dell’art. 475 c.p.c. in quanto a suo dire gli appellati, non potendo essere considerati “eredi” della Ma. & Mo. s.n. c., non sarebbero stati legittimati a richiedere il rilascio del titolo in forma esecutiva.
Il motivo è inconferente atteso che, come più sopra rilevato, ai fini del giudizio di ottemperanza non occorre che la sentenza da eseguire sia munita di formula esecutiva.
L’appello va, in definitiva, respinto.
Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi od eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Spese e onorari di giudizio, liquidati come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento delle spese processuali in favore degli appellati, liquidandole forfettariamente in € 4.000/00 (quattromila) per ciascuno di essi, oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 marzo 2017 con l’intervento dei magistrati:
Francesco Caringella – Presidente
Paolo Troiano – Consigliere
Claudio Contessa – Consigliere
Fabio Franconiero – Consigliere
Alessandro Maggio – Consigliere, Estensore
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