segue pagina antecedente
[…]
Il TAR non avrebbe anche correttamente considerato che:
— l’appellante sarebbe stato assunto da una ditta italiana, risultando quindi pienamente integrato nel territorio italiano;
— la legittimità delle argomentazioni offerte dai giudici penali in sede di ordine di scarcerazione, dedotte in primo grado;
— l’azione criminosa era comunque risalente ad oltre tre anni e non era stata seguita da recidiva;
— per poter disporre il diniego di rinnovo, l’amministrazione avrebbe dovuto provare che l’appellante vivesse abitualmente dei proventi di attività delittuose e che fosse dedito alla commissione di reati tali da mettere in pericolo la sicurezza pubblica.
Pertanto sarebbe del tutto falso e comunque indimostrato il presupposto logico del diniego, opposto dalla Questura, relativo alla pericolosità dell’appellante.
L’appello è infondato.
Preliminarmente si deve ricordare che l’appellante, insieme con due fratelli suoi connazionali (il maggiore dei quali con recidiva infraquinquennale per i medesimi reati), era stato sorpreso alla guida di un’auto nella quale, in seguito ad una perquisizione, venivano ritrovati quattro involucri di cocaina per 84 g, e in una quantità quindi non destinata all’uso personale. In conseguenza, insieme con gli altri due imputati, è stato condannato alla identica pena di anni 1 e 10 mesi di reclusione oltre a Euro 12.000 ai sensi degli articoli 73 primo comma del d.p.r. n. 309/90 e 110 c.p.c..
Ciò posto, in linea di principio si deve notare come, ai sensi degli artt. 4 comma 3, e 5 comma 5, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, i reati inerenti allo spaccio e all’uso di stupefacenti sono testualmente considerati, per l’extracomunitario, causa preclusiva del rilascio o del rinnovo del titolo di soggiorno (cfr. Consiglio di Stato sez. III 04 aprile 2017 n. 1557). In materia di stupefacenti il grave disvalore che il legislatore attribuisce “a monte” a tali reati ai fini della tutela della sicurezza pubblica, implica che le relative condanne dell’extracomunitario sono ostative al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno, qualunque sia la pena detentiva riportata dal condannato, e non rilevando su tale piano la concessione della sospensione condizionale della pena.
Tale precetti che, peraltro, riflettono anche specifici impegni internazionali derivanti da convenzioni, trattati e normative di rango comunitario, dimostrano come la norma ha assunto a paradigma ostativo non certo la gravità del fatto, in sé e per sé considerata, ma soprattutto la specifica natura del reato, riposando la scelta del legislatore “su una esigenza di conformazione agli impegni di “inibitoria” di traffici riguardanti determinati settori reputati maggiormente sensibili” (Corte Cost., sent. n. 277 del 12 dicembre 2014).
Solo in via di eccezione, quando sussistono gli speciali presupposti indicati dalla nuova formulazione dell’art. 5, comma 5, t.u. n. 286 del 1998, come modificato dal d.lgs. n. 5 del 2007 e ulteriormente inciso dalla sentenza della Corte Cost. n. 202 del 2013, l’automatismo delle cause ostative viene meno, occorrendo pertanto una valutazione discrezionale circa la pericolosità sociale in capo all’appellante (cfr. Consiglio di Stato sez. III 20 ottobre 2017 n. 4898).
Il giudizio di pericolosità sociale non è un vuoto simulacro nelle ipotesi in cui la sentenza di condanna emessa a carico del cittadino straniero concerne ipotesi delittuose le quali, fra l’altro, spesso implicano contatti, a diversi livelli, con appartenenti ad organizzazioni criminali (cfr. Consiglio di Stato Sez. III 7/03/2017 n. 1557, Consiglio di Stato Sez. III 2/3/2017 n. 1069).
Nel caso in esame, peraltro, non appare nemmeno rilevante il richiamo al diritto al rispetto della “vita privata e familiare” di cui all’art. 8 della CEDU nell’interpretazione della relativa Corte, per la risolvente considerazione che l’Amministrazione ha puntualmente accertato anche l’assenza di legami familiari dello straniero, il quale, dichiaratosi celibe, peraltro “non aveva mai esercitato né attivamente né passivamente il diritto al ricongiungimento familiare”.
Del tutto correttamente il Tar ha ritenuto legittima la valutazione discrezionale dell’amministrazione che ha compiutamente valutato la condizione personale dell’appellante, in relazione alle circostanze per cui:
— era stato condannato per un reato inerente allo spaccio e all’uso di stupefacenti, testualmente considerato causa preclusiva del rilascio o del rinnovo del titolo di soggiorno per l’extracomunitario;
— aveva mantenuto stretti legami familiari e sociali con il paese d’origine nel quale si reca frequentemente, “come si rileva dai timbri apposti sul passaporto” e nonostante il fatto che “almeno apparentemente” svolgesse attività lavorativa.
Non sono peraltro stati forniti, sotto altro profilo, altri reali elementi idonei a dimostrare l’effettiva integrazione.
Al tale riguardo l’appellante non oppone nulla a proposito di tale profilo che, in un giudizio prognostico, potrebbe non apparire dovuto solo a ragioni di carattere affettivo-sentimentale.
Anche in base alla comune esperienza, al di là delle valutazioni con differenti finalità del giudice penale, l’essersi prestato come autista a due spacciatori costituisce un tipico c.d. entry level nell’organizzazione, per cui in relazione alle modalità ed allo spessore dei soggetti coinvolti, la valutazione di tale evento sul piano amministrativo ben poteva logicamente supportare il provvedimento di rifiuto di rinnovo del permesso di soggiorno.
In questo quadro, l’attività lavorativa svolta, peraltro grazie agli oneri sociali posti a carico dell’assistenza pubblica, finisce per assumere un valore del tutto recessivo nell’ambito degli interessi pubblici volti alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.
Anche la circostanza per cui, in precedenza, la Questura fosse stata di avviso differente, non appare realmente significativa, in quanto anzi dimostra che non vi era alcuna prevenuta e pregiudiziale ostilità nei suoi confronti ma una obiettiva valutazione della situazione al momento del rinnovo.
In definitiva l’appello è dunque infondato e, per l’effetto la decisione impugnata merita piena conferma con le integrazioni motivazionali di cui sopra.
Le spese tuttavia, in ragione dell’assenza di attività difensiva dell’amministrazione, possono essere integralmente compensate tra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Terza), definitivamente pronunciando:
1. Respinge l’appello di cui in epigrafe.
2. Spese compensate.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 1 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare ………….
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 gennaio 2018 con l’intervento dei magistrati:
Lanfranco Balucani – Presidente
Umberto Realfonzo – Consigliere, Estensore
Giulio Veltri – Consigliere
Pierfrancesco Ungari – Consigliere
Giovanni Pescatore – Consigliere
Leave a Reply