Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 4 maggio 2018, n. 2666.
Nel processo amministrativo la rinuncia alla domanda non va confusa con la rinuncia agli atti del giudizio atteso che, nel caso di rinuncia agli atti del giudizio, si può parlare di estinzione del processo, cui consegue una pronuncia meramente processuale, potendo essere la domanda riproposta nel caso in cui siano ancora aperti i termini per far valere in giudizio la pretesa sostanziale; la rinuncia all’azione comporta, invece, una pronuncia con cui si prende atto di una volontà del ricorrente di rinunciare alla pretesa sostanziale dedotta in giudizio, con la conseguente inammissibilità di una riproposizione della domanda; in quest’ultimo caso non vi può essere estinzione del processo, in quanto la decisione implica una pronuncia di merito, cui consegue l’estinzione del diritto di azione, atteso che il giudice prende atto della volontà del ricorrente di rinunciare alla pretesa sostanziale dedotta nel processo.
Sentenza 4 maggio 2018, n. 2666
Data udienza 9 novembre 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 8516 del 2010 proposto dalla società Si. S.p.A., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avvocato An. Cl., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (…);
contro
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via (…);
per l’ottemperanza
della sentenza del Consiglio di Stato, Sezione IV n. 1405 del 3 marzo 2010, resa tra le parti, concernente compensazione di obblighi di servizio, di trasporto e tariffari.
Visti il ricorso per ottemperanza e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 9 novembre 2017 il consigliere Daniela Di Carlo e uditi per le parti l’avvocato Cl. e l’avvocato dello Stato Br.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. La controversia riguarda il ricorso proposto dalla società Si. s.p.a. per il risarcimento del danno in conformità a quanto disposto dal giudicato rappresentato dalla sentenza del Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 1405 del 3 marzo 2010, in materia di compensazione di obblighi di servizio, di trasporto e tariffari.
1.1. La società premette di avere svolto, in qualità di concessionaria di pubblico servizio, attività di trasporto pubblico interregionale di persone; di avere ricevuto, per un certo periodo di tempo, le compensazioni previste dal d.P.R. n. 1227 del 1969 (per le annualità 1972-1974) e poi dal Regolamento CE n. 1191/1969 e dalla Legge n. 877 del 1986 (per le annualità 1975-1986), e poi nulla più; di avere pertanto intentato azione dinanzi al T.a.r. del Lazio volta ad ottenere: 1) l’accertamento del diritto ad ottenere gli importi a titolo di sovvenzione annua; 2) in via gradata, il risarcimento del danno per equivalente monetario; 3) in via ancora ulteriormente gradata, l’accertamento dell’indebito arricchimento conseguito dal Ministero dei trasporti in dipendenza dell’imposizione di obblighi di servizio pubblico, non remunerati. Ciò limitatamente al periodo 1 dicembre 1993-31 dicembre 2003 e per un totale di complessivi euro 66.891.982,00.
1.2. Il T.a.r. per il Lazio, Roma, con la sentenza n. 112 del 12 gennaio 2009:
a) dichiarava inammissibile la domanda di riconoscimento del diritto alla sovvenzione ex Regolamento CE 1893/91, sul rilievo della preesistenza di una decisione di rigetto resa in sede di ricorso straordinario (il decreto del Presidente della Repubblica del 10 ottobre 2002) in ordine al medesimo petitum, idonea a coprire interamente il dedotto e deducibile;
b) rigettava la domanda di risarcimento del danno, non ravvisando l’ingiustizia del danno;
c) rigettava, infine, l’azione di arricchimento ex art. 2041 c.c., non ravvisando la sussistenza del presupposto legale della residualità.
1.3. Sull’appello della società, il Consiglio di Stato riformava il decisum con la sentenza n. 1405/2010, di cui oggi è chiesta l’ottemperanza. In particolare:
a) dichiarava ammissibile la domanda di accertamento del diritto alle compensazioni di cui al Regolamento CE n. 1191/69;
b) riconosceva, nel merito, la spettanza dell’anzidetto diritto, in base agli articoli 6, 10 e 11 del cit. Regolamento;
c) rimandava la determinazione dell’esatto ammontare del credito al Ministero dei trasporti, nel termine di novanta giorni dalla comunicazione in via amministrativa della presente decisione o, se anteriore, dalla notificazione a cura della parte, “sulla base dei dati certi, ricavabili dalla contabilità dell’interessata, dai quali emerga la differenza fra i costi imputabili alla parte dell’attività dell’impresa interessata dall’obbligo di servizio pubblico e gli introiti corrispondenti”;
d) rigettava la domanda di risarcimento del danno, ritenendo che solo all’esito dell’anzidetta rideterminazione in via amministrativa potesse emergere – eventualmente – un profilo di danno residuo non coperto;
e) rigettava, infine, la domanda di indebito arricchimento, a motivo dell’accoglimento della domanda azionata in via principale;
f) compensava tra le parti le spese di lite del doppio grado.
1.4. Si apriva, di qui in avanti, un lungo e complesso contenzioso (r.g.n. r. 8516/2010) per l’esecuzione della sentenza, caratterizzato da tentativi volti – anche mediante consulenza tecnica d’ufficio collegiale – a esattamente determinare e quantificare il credito spettante (v. tutte le ordinanze rese dal Consiglio di Stato per addivenire alla soluzione della lite: n. 2072/2011; n. 270/2012 e n. 5247/2012).
Il giudizio esitava, tuttavia, in una declaratoria di estinzione per rinuncia al ricorso, accettata dalla controparte, ai sensi degli artt. 35, comma 2, lett. c) e 84 c.p.a. (Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza n. 4235/2013).
2. Con l’odierno ricorso Si. ripropone l’azione esecutiva ma – questa volta – sotto il profilo esclusivamente risarcitorio, in conformità a quanto stabilito e accertato dalla sentenza n. 1405/2010.
2.1. In particolare, Si. rappresenta che:
a) in data 18 maggio 2011, il Ministero dei trasporti aveva notificato alla Commissione europea di avere concesso alla società, in esecuzione della sentenza n. 1405/2010, le compensazioni di cui al regolamento CE n. 1191/1969;
b) in data 2 ottobre 2013, la Commissione europea (decisione 2014/201/UE) aveva dichiarato che la misura notificata dalle autorità italiane costituiva aiuto di Stato, come tale incompatibile con il diritto dell’Unione;
c) sia il Tribunale di primo grado (sentenza del 3 marzo 2016 nella causa T-15/14) che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (ordinanza del 9 marzo 2017 nella causa C-232/16) avevano respinto il ricorso presentato dalla società avverso la decisione della Commissione Europea;
d) le ragioni del decisum europeo riposavano sul contrasto della legge n. 1822/1939 con il regolamento comunitario n. 1191/1969 che, in attuazione del Trattato UE, aveva liberalizzato il settore dei trasporti, vietando agli Stati membri (per quanto di interesse, nell’ambito delle linee di trasporto interregionale) che tale attività fosse svolta sotto forma di servizio pubblico, in quanto distorsivo della concorrenza. Pertanto, né lo Stato avrebbe potuto imporre ai concessionari obblighi di servizio pubblico, né questi ultimi avrebbero potuto a richiedere una compensazione a tale titolo al di fuori dei casi previsti dal diritto comunitario.
2.2. Secondo Si., il pregiudizio economico subito dall’azienda sarebbe stato cagionato direttamente dalla legge italiana (nella misura in cui la stessa aveva previsto che la domanda di concessione venisse corredata con l’indicazione degli obblighi di percorso, di fermata, di orario e di prezzo) e in aggiunta dal Ministero dei trasporti (nella misura in cui lo stesso, anziché disapplicare la legge per contrasto con il diritto comunitario, ne aveva beneficiato, consentendo di far figurare come una sorta di “libera scelta” del privato quella che invece – nella sostanza – era una “soluzione necessitata”: l’amministrazione, infatti, – si assume – non avrebbe preso in considerazione domande di concessione non formulate in quella maniera.
2.3. Pertanto, sempre secondo la ricorrente, la stessa avrebbe oggi diritto al risarcimento del danno patito in conseguenza della violazione, da parte dell’amministrazione erariale, di un diritto (la libertà di impresa e di iniziativa economica) riconosciutole dalla normativa comunitaria.
Non sussisterebbe, inoltre, ancora a suo avviso, contrasto alcuno tra il giudicato del Consiglio di Stato e la sentenza della Corte di Giustizia, in ragione della diversità di petitum e causa petendi: il primo, infatti, concernerebbe l’accertamento di un diritto secondo le previsioni della normativa interna, successivamente scoperta contrastante col diritto comunitario; la seconda, invece, riguarderebbe l’accertamento della responsabilità dello Stato membro per la violazione di una situazione giuridica riconosciuta dal diritto comunitario.
2. Si è costituito il Ministero dei trasporti eccependo, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso sotto due autonomi profili:
2.1.) il primo, concernente il contrasto del giudicato interno con la pronuncia della Corte di Giustizia, con conseguente obbligo di disapplicazione in capo al giudice interno;
2.2.) il secondo, dipendente dall’avere – Si. – già rinunciato ad una pregressa azione di esecuzione intentata avverso la medesima pronuncia, sicché non le sarebbe consentito agire di nuovo a tale titolo.
Nel merito, invece, il Ministero ha contestato la fondatezza dell’avversa pretesa sulla base delle seguenti considerazioni:
a) Si. non è mai stata soggetta ad obblighi di servizio pubblico né ha mai concluso alcun contratto di servizio;
b) la legge n. 1822/1939 non prevedeva alcun obbligo in tal senso in capo ai concessionari, che rimanevano liberi di assumere (o meno) obblighi di servizio pubblico all’atto della presentazione delle domande di concessione, costituendo – l’eventuale declinazione di essi – una modalità di presentazione della domanda medesima;
c) tale declinazione, come esattamente statuito dalla Corte di Giustizia, non integra gli estremi dell’obbligo di servizio pubblico soggetto a compensazione a termini del regolamento n. 1191/1969: non si tratta, infatti, di servizi che l’impresa di trasporto, ove avesse considerato il proprio interesse commerciale, non avrebbe assunto o lo avrebbe fatto a condizioni diverse o in diversa misura;
d) se Si. fosse stata nella convinzione, all’atto della presentazione della domanda, di essere costretta a formulare una domanda secondo modalità contrastanti col diritto comunitario, avrebbe dovuto agire in giudizio per l’annullamento dell’atto nazionale ritenuto illegittimo, cosa invece mai avvenuta;
e) il disciplinare di concessione stipulato tra il Ministero e l’impresa ha sempre escluso l’erogazione di sussidi o contributi, specificando che il servizio era esercitato a tutto rischio e pericolo dell’impresa esercente;
f) la successiva giurisprudenza del Consiglio di Stato (n. 4324/2012) ha mutato di orientamento su questione analoga a quella per cui è giudizio;
g) in ogni caso, anche la sentenza del Consiglio di Stato di cui è chiesta l’esecuzione ha rigettato la domanda risarcitoria proposta dalla società, limitandosi a statuire (nel senso dell’accoglimento) sulla sola domanda svolta in via principale: mancherebbe, pertanto, una statuizione di natura condannatoria da eseguire;
h) sarebbe irragionevole, oltre che del tutto contrastante con le regole del processo, il pretendere di riqualificare la statuizione di accoglimento contenuta nella sentenza n. 1405/2010 (limitata all’accertamento delle spettanze a titolo di compensazione legale) come avente ad oggetto la condanna al risarcimento del danno arrecato dall’imposizione di obblighi di servizio pubblico in violazione della normativa comunitaria;
i) se anche tale riqualificazione venisse operata, il principio del primato del diritto europeo osterebbe all’applicazione di una norma interna (come l’art. 2909 c.c.) volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata in materia riservata alla competenza del diritto europeo (come la disciplina degli aiuti di Stato e il loro recupero);
j) in ogni caso, l’interpretare – da parte del giudice amministrativo – una norma di diritto interno in senso contrastante con una pronuncia della Corte di Giustizia successivamente intervenuta, darebbe luogo alla violazione del limite esterno di giurisdizione.
3. Le parti hanno insistito sulle rispettive tesi difensive.
4. All’udienza del 9 novembre 2017 la causa è stata discussa e trattenuta dal Collegio in decisione.
5. Va, in primo luogo, esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla difesa erariale.
L’eccezione – come sopra illustrato – è stata formulata sotto due autonomi e distinti profili.
La stessa è destituita di fondamento in relazione ad entrambi i profili.
5.1. Il primo profilo (con cui si rappresenta il contrasto del giudicato interno da eseguire rispetto alla successiva sentenza della Corte di Giustizia) afferisce, infatti, direttamente al merito della controversia, sicché è in quella sede che ne dovrà essere valutata la fondatezza o meno. L’eccezione, infatti, nei termini in cui è stata proposta, non è idonea ad integrare, in senso tecnico-giuridico, una questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito suscettibile di esitare in una declaratoria di inammissibilità del ricorso.
5.2. Il secondo profilo, invece, è ex sé infondato.
5.2.1. Secondo il consolidato indirizzo del Consiglio di Stato “Nel processo amministrativo la rinuncia alla domanda non va confusa con la rinuncia agli atti del giudizio atteso che, nel caso di rinuncia agli atti del giudizio, si può parlare di estinzione del processo, cui consegue una pronuncia meramente processuale, potendo essere la domanda riproposta nel caso in cui siano ancora aperti i termini per far valere in giudizio la pretesa sostanziale; la rinuncia all’azione comporta, invece, una pronuncia con cui si prende atto di una volontà del ricorrente di rinunciare alla pretesa sostanzialededotta in giudizio, con la conseguente inammissibilità di una riproposizione della domanda; in quest’ultimo caso non vi può essere estinzione del processo, in quanto la decisione implica una pronuncia di merito, cui consegue l’estinzione del diritto di azione, atteso che il giudice prende atto della volontà del ricorrente di rinunciare alla pretesa sostanziale dedotta nel processo” (ex multis, di recente, Consiglio di Stato sez. III 21 giugno 2017 n. 3058).
5.2.2. Dalla piana lettura della rinuncia depositata il 19 marzo 2013 dalla Si. e della conseguente statuizione assunta dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 4235/2013 è possibile evincere che si è trattato di una rinuncia agli atti, non all’azione di esecuzione, tanto è vero che la ricorrente aveva fatto espressamente salva la possibilità di riproporre l’azione esecutiva all’esito della decisione assunta dalla Commissione Europea.
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