Nel processo amministrativo la rinuncia alla domanda non va confusa con la rinuncia agli atti del giudizio

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Lo stesso dispositivo adottato in sentenza, del resto, non lascia adito a dubbi, essendo stata (l’estinzione del giudizio) pronunciata ai sensi degli artt. 35, comma 2, lett. c) e 84 c.p.a.: con una sentenza, quindi, pacificamente di mero rito. Da qui la ri-proponibilità dell’azione, non essendo stato nulla eccepito -da parte dell’amministrazione erariale- in punto di eventuale intervenuta prescrizione (o, altrimenti, estinzione) della sottostante pretesa sostanziale.

6. Nel merito, il ricorso è destituito di fondamento.

6.1. Va premesso, ai fini di un esatto inquadramento della fattispecie generale all’interno della quale collocare l’odierno petitum, che il giudizio di ottemperanza si svolge in una triplice operazione:

a) di interpretazione del giudicato, al fine di individuare il comportamento doveroso per l’amministrazione in sede di ottemperanza;

b) di accertamento del comportamento in effetti tenuto dalla medesima amministrazione;

c) di valutazione della conformità del comportamento tenuto dall’amministrazione a quello che avrebbe dovuto tenere.

6.2. Nel caso all’esame, quanto al profilo sub a) può osservarsi che:

a) Si. ha proposto fin dal primo grado del giudizio, in via gradata, tre tipi di azione: quella volta all’accertamento e alla conseguente condanna alla corresponsione degli importi a titolo di compensazione ex Regolamento CE n. 1191/1969; quella volta al risarcimento del danno; quella volta al pagamento dell’indebito arricchimento conseguito dall’amministrazione.

b) Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1405/2010, ha accolto la prima domanda e respinto le altre due. Il dispositivo della sentenza è chiaro nello statuire che: “accoglie l’appello e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di I grado e condanna il Ministero appellato al pagamento degli importi di cui in motivazione da determinare, a norma dell’art. 35 del d.lgs. n. 98 del 1998, nel termine e con le modalità ivi indicate”.

La motivazione, a sua volta, nel punto 3.3. della pag. 21, precisa che il diritto della società appellante riguarda “gli importi a titolo di compensazione ai sensi degli articoli 6, 10 e 11 del Regolamento CEE n. 1191/1969, il cui ammontare, ai sensi dell’art. 35 del D.lgs. n 80 del 1998, dovrà essere determinato dall’Amministrazione, nel termine di giorni 90 dalla comunicazione in via amministrativa della presente decisione – o, se anteriore, dalla notifica a cura di parte – sulla base dei dati certi, ricavabili dalla contabilità dell’interessata, dai quali emerga la differenza fra i costi imputabili alla parte dell’attività dell’impresa interessata dall’obbligo di servizio pubblico e gli introiti corrispondenti”.

Il successivo punto 3.4. della medesima pagina 21 contiene, invece, la statuizione relativa all’azione risarcitoria: “Ogni pretesa risarcitoria dedotta dall’appellante non può, allo stato, trovare accoglimento, in quanto solo all’esito della suddetta determinazione da parte dell’amministrazione, potrà eventualmente emergere un danno residuo non coperto da tale determinazione, che dovrà essere dedotto e dimostrato dalla società interessata”.

c) Il contenzioso successivo, svoltosi dinanzi al Consiglio di Stato adito per l’ottemperanza della sentenza n. 1405/2010, si è incentrato tutto sul (naufragato) tentativo, anche a mezzo di c.t.u. contabile collegiale, di determinare, in base allo studio della contabilità aziendale della società, le somme dovute a titolo di compensazione per i (riconosciuti, all’epoca) oneri di servizio pubblico. Questo giudizio, come già detto, è esitato in una declaratoria di estinzione per rinuncia, sicché in definitiva nessun importo è mai stato determinato, neppure in sede esecutiva, a titolo di compensazione.

d) Si. non ha mai instaurato un nuovo giudizio volto all’accertamento e alla condanna al risarcimento del danno asseritamente patito.

e) L’unico giudizio, successivo a quello estinto, è il presente: anche questo di mera ottemperanza alla sentenza n. 1405/2010.

6.3. Pertanto, in base alla suddette coordinate, può concludersi che – in punto di interpretazione del giudicato – al fine di individuare il comportamento doveroso per l’amministrazione in sede di ottemperanza, l’unica statuizione ad essere passata in cosa giudicata è quella concernente l’obbligo di corrispondere le dette compensazioni.

Solo ad avvenuta quantificazione delle suddette spettanze, infatti, sarebbe stato possibile per la società dedurre e provare, in un nuovo e diverso giudizio, l’esistenza di un eventuale profilo di danno, non coperto dalla remunerazione delle compensazioni legali, da allegarsi e provarsi secondo gli ordinari principi che governano il risarcimento del danno.

6.4. In relazione, invece, ai profili sub b) e c) concernenti l’accertamento del comportamento tenuto in concreto dalla medesima amministrazione e il raffronto con quello che avrebbe dovuto tenere in astratto, occorre rilevare che il Ministero, rimasto in un primo momento inottemperante, ha poi iniziato a dare esecuzione al decisum giudiziale, notificando alla Commissione Europea di avere concesso a Si. la compensazione di cui al regolamento n. 1191/1969.

L’evoluzione successiva della vicenda (principiata con l’adozione, da parte della Commissione Europea, di una decisione di infrazione comunitaria per violazione della normativa sugli aiuti di Stato; proseguita con la conferma, nella sede giurisdizionale europea, sia in primo che in secondo grado, della legittimità del predetto atto; passata attraverso una problematica – e mai conclusa – consulenza contabile interna per determinare l’esatto importo delle compensazioni; esitata, alfine, nella rinuncia da parte della stessa Si. al giudizio interno di esecuzione della sentenza) conferma l’estraneità dell’amministrazione erariale ad una eventuale critica di inottemperanza al giudicato, non potendo da essa esigersi un comportamento diverso da quello effettivamente tenuto.

6.5. Né tale comportamento potrebbe essere preteso oggi da Si..

La sopravvenienza giuridica rappresentata dalla pronuncia della Corte di Giustizia, che ha definitivamente accertato che le compensazioni riconosciute dallo Stato italiano dal giudicato interno sono qualificabili in termini di aiuto di Stato, e dunque vietate in base al diritto europeo, obbliga il giudice nazionale (chiamato nuovamente a pronunciarsi, con l’odierno ricorso, sull’ottemperanza alla sentenza) a rivalutare i predetti tre profili.

6.6. In argomento si è già pronunciato il Consiglio di Stato in sede di Adunanza plenaria con la sentenza 9 giugno 2016, n. 11.

Nel fondamentale arresto è chiarito che:

a) la preminente esigenza di conformità dell’ordinamento interno al diritto comunitario rileva anche in sede di ottemperanza, essendo dovere del giudice dell’ottemperanza interpretare la sentenza portata ad esecuzione e delinearne la portata dispositiva e conformativa evitando di desumere da essa regole contrastanti con il diritto comunitario;

b) la dinamicità e la relativa flessibilità che spesso caratterizza il giudicato amministrativo nel costante dia che esso instaura con il successivo esercizio del potere amministrativo permettono al giudice dell’ottemperanza – nell’ambito di quell’attività in cui si sostanzia l’istituto del giudicato a formazione progressiva – non solo di completare il giudicato con nuove statuizioni “integrative”, ma anche di specificarne la portata e gli effetti al fine di impedire il consolidamento di effetti irreversibili contrari al diritto sovranazionale;

c) il giudizio di ottemperanza può rappresentare un’opportunità (ulteriore) offerta dal sistema processuale anche per evitare che dal giudicato possano trarsi conseguenze anticomunitarie o che si consolidino violazioni del diritto comunitario.

6.7. Al lume degli anzidetti principi di diritto è da escludere, dunque, che la sentenza n. 1405/2010 possa essere portata ad esecuzione quanto alla spettanza (pur riconosciuta) delle compensazioni di cui al regolamento comunitario del 1969.

6.8. Si. – è da dire – con l’odierna azione esecutiva non domanda (non potrebbe) le suddette spettanze, ma formula un petitum diverso, volto ad ottenere la condanna del Ministero al risarcimento dei danni “in conformità a quanto stabilito e accertato dalla sentenza n. 1405/2010, oltre interessi e rivalutazione monetaria”.

A sostegno della pretesa assume la grave ingiustizia subita dallo Stato italiano per essere stata indotta a formulare la domanda di concessione di servizio pubblico di trasporto secondo modalità (l’assunzione di specifici obblighi di servizio pubblico, al di fuori di un contratto di servizio) che, a norma del diritto comunitario, non sarebbero stati compensabili, sicché la decisione di eseguire queste diverse e più onerose prestazioni non avrebbe rappresentato una scelta libera, bensì necessitata dalla politica dei trasporti interna. Pertanto – assume ancora Si. – è in questa sede che andrebbe risarcito il danno conseguente alla perdita di competitività dell’impresa determinata dall’imposizione di illecite limitazioni nell’esercizio dell’attività di impresa; il rimborso delle maggiori spese sostenute; il riconoscimento del mancato utile. La liquidazione – conclude – potrebbe essere effettuata dal giudice anche in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c..

6.9. La pretesa è destituita di fondamento.

Secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale, “Nel processo amministrativo il giudizio di ottemperanza non può garantire al ricorrente una utilità maggiore o diversa da quella riconosciuta dalla sentenza da eseguire, né riconoscergli un bene della vita che il giudicato, nemmeno implicitamente, le ha riconosciuto, ma che anzi costituisce oggetto di diversi giudizi, tanto a livello sia nazionale che, addirittura, europeo” (Consiglio di Stato, Sezione III, sentenza 19 luglio 2016, n. 3203).

Nel caso all’esame, la sentenza n. 1405/2010 ha chiaramente rimesso ad un diverso e separato giudizio l’accertamento di un eventuale profilo di danno residuo all’esito della corresponsione della compensazione, tutto da allegare e provare, che non è stato mai oggetto di quel giudizio e di quella statuizione e, dunque, non potrebbe esserlo nemmeno nel presente, ostandovi il divieto di attribuzione, in sede di ottemperanza, di utilitas diverse o maggiori rispetto a quelle effettivamente accertate.

Le uniche statuizioni passate in cosa giudicata hanno riguardato la spettanza alla compensazione legale e all’utilizzo della tecnica liquidatoria basata sui riscontri oggettivi della contabilità aziendale.

La reinterpretazione del contenuto del giudicato, pertanto, è vietata dallo stesso diritto interno, che non consente – quanto al petitum – la sostituzione di un bene della vita definitivamente accertato (la spettanza delle compensazioni) con uno del tutto diverso e mai oggetto di accertamento giurisdizionale (il diritto al risarcimento del danno), eterogenei sia quanto a causa petendi sia quanto a regime probatorio: il primo, trovando la propria fonte nel contratto, e il secondo, rappresentando un illecito civilistico.

Pertanto, nel caso all’esame, addirittura nemmeno si pone il problema (affrontato dalla richiamata Plenaria n. 11/2016) di “completamento” del giudicato con nuove statuizioni “integrative” volte a specificarne la portata e gli effetti al fine di impedire il consolidamento di effetti irreversibili contrari al diritto sovranazionale, giacché è prima facie da escludere l’esistenza stessa di un giudicato condannatorio concernente il risarcimento di complesse voci di danno (perdita di competitività dell’impresa, rimborso delle maggiori spese sostenute; riconoscimento del mancato utile) eterogenee – come detto – rispetto alla mera spettanza alle compensazioni.

Anche ove così non fosse, in ogni caso, il giudice interno comunque dovrebbe interpretare il giudizio di ottemperanza come un’opportunità (ulteriore) offerta dal sistema processuale per evitare che dal giudicato possano trarsi conseguenze anticomunitarie o che si consolidino violazioni del diritto comunitario, il che – all’evidenza – si realizzerebbe proprio laddove si pretendesse di sostituire – con un’indebita operazione di ortodossia ermeneutica – il contenuto formale e sostanziale del giudicato.

L’anzidetta operazione interpretativa si appaleserebbe scorretta, inoltre, anche alla luce di un altro recente arresto reso dal Consiglio di Stato ancora in Adunanza plenaria (sentenza n. 2 del 12 maggio 2017) in materia di impossibilità (sopravvenuta) di esecuzione in forma specifica dell’obbligazione nascente dal giudicato.

Il Consiglio ha tratto, dalla suddetta evenienza, i seguenti convincimenti.

L’impossibilità sopravvenuta di esecuzione:

a) dà vita in capo all’amministrazione ad una responsabilità assoggettabile al regime della responsabilità di natura contrattuale, che l’art. 112, comma 3, c.p.a. sottopone ad un regime derogatorio rispetto alla disciplina civilistica;

b) non estingue l’obbligazione, ma la converte, “ex lege”, in una diversa obbligazione, di natura risarcitoria, avente ad oggetto l’equivalente monetario del bene della vita riconosciuto dal giudicato in sostituzione della esecuzione in forma specifica.

L’insorgenza di tale obbligazione può essere esclusa solo dalla insussistenza originaria o dal venir meno del nesso di causalità, oltre che dell’antigiuridicità della condotta.

Il legislatore, dunque, ha fatto riferimento ad una impossibilità di esecuzione che trova la sua causa in un fatto diverso dalla violazione o elusione del giudicato, prevedendo l’azione di risarcimento del danno -e non un semplice indennizzo- anche nel caso in cui, pur non configurandosi un inadempimento, non è comunque possibile attuare il giudicato.

Ciò, ovviamente, nel presupposto che ci sia un giudicato da eseguire e, soprattutto che sia “eseguibile”.

Ma le vicende processuali interne ed europee, come sopra spiegate, escludono la stessa eseguibilità del decisum interno, avendo la Corte di Giustizia – in materia riservata alla competenza del diritto europeo – definitivamente acclarato che corrispondere alla Si. le compensazioni di cui al regolamento comunitario del 1969 equivarrebbe a porre in essere una condotta vietata e, dunque, sanzionabile, di aiuto di Stato.

Laddove corrisposte, invece, le spettanze andrebbero recuperate.

Pertanto – anche sotto questo profilo e in disparte le dirimenti considerazioni sopra esposte circa l’impossibilità di ampliare il perimetro del giudicato a un bene della vita non oggetto di accertamento giurisdizionale – è da escludere la possibilità di convertire l’obbligazione originaria (la spettanza delle compensazioni) con una di natura risarcitoria: per effetto del pronunciamento della Corte di Giustizia, infatti, è venuto a mancare proprio il bene della vita (il diritto alle compensazioni, a termini del regolamento comunitario del 1969) il quale, solo, avrebbe consentito una forma di sostituzione ex lege.

Nel caso all’esame, del resto, un’eventuale soluzione risarcitoria si rivelerebbe addirittura contra legem, involgendo la possibilità stessa, nella situazione data, di far ricorso alla giurisdizione di ottemperanza (Cassazione civile SS.UU., 19 gennaio 2012, n. 736, che ha qualificato il vizio come afferente alla violazione del limite esterno di giurisdizione).

6.10. Non spetta invece a questo giudice – esulando dal perimetro riservato al giudizio di ottemperanza – la valutazione della (sostenuta) violazione, da parte dell’amministrazione dello Stato membro, del diritto alla libertà di impresa riconosciuto al cittadino dalla normativa comunitaria.

Non è infatti in discussione – in astratto – la spettanza della giurisdizione al giudice nazionale in ordine all’accertamento della responsabilità dello Stato membro, con tutti i suoi apparati, per la violazione di un diritto direttamente attribuito o riconosciuto al cittadino dal diritto europeo, ma è nel concreto di questo tipo di giudizio (circoscritto, come più volte detto, alla sola esecuzione del giudicato) che tale attribuzione va esclusa.

Pertanto, se Si. intende proseguire sulla strada della dimostrazione della “induzione” o della “costrizione” operata dallo Stato legislatore con la legge n. 1822/1939 (e di cui, poi, si sarebbe avvantaggiato lo Stato amministratore con tutto il suo apparato ministeriale), tramite l’imposizione di determinate modalità di presentazione (indicazione obbligata di oneri di servizio pubblico) della domanda di concessione al fine del buon esito della pratica concessoria, può certamente farlo, ma in un ordinario giudizio di cognizione.

7. Il ricorso in ottemperanza, pertanto, per tutte le considerazioni che precedono, va dichiarato inammissibile.

8. La difficoltà ricostruttiva della vicenda e la delicatezza delle questioni trattate suggeriscono l’equa compensazione delle spese di lite tra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale

(Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 novembre 2017 con l’intervento dei magistrati:

Filippo Patroni Griffi – Presidente

Fabio Taormina – Consigliere

Leonardo Spagnoletti – Consigliere

Giuseppe Castiglia – Consigliere

Daniela Di Carlo – Consigliere, Estensore

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