1. Nel giudizio amministrativo, il divieto di integrazione della motivazione non ha carattere assoluto, in quanto non sempre i chiarimenti resi nel corso del giudizio valgono quale inammissibile integrazione postuma della motivazione: è il caso degli atti di natura vincolata di cui all’art. 21-octies, L. n. 241 del 1990, nei quali l’Amministrazione può dare anche successivamente l’effettiva dimostrazione in giudizio dell’impossibilità di un diverso contenuto dispositivo dell’atto, oppure quello concernente la possibilità di una successiva indicazione di una fonte normativa non prima menzionata nel provvedimento, quando questa, per la sua notorietà, ben avrebbe potuto e dovuto essere conosciuta da un operatore professionale.
2. Il divieto di integrazione giudiziale della motivazione non ha carattere assoluto, in quanto non sempre i chiarimenti resi nel corso del giudizio valgono quale inammissibile integrazione postuma della motivazione: è il caso degli atti di natura vincolata di cui all’art. 21-octies L. n. 241 del 1990, nei quali l’Amministrazione può dare anche successivamente l’effettiva dimostrazione in giudizio dell’impossibilità di un diverso contenuto dispositivo dell’atto, oppure quello concernente la possibilità di una successiva indicazione di una fonte normativa non prima menzionata nel provvedimento, quando questa, per la sua notorietà, ben avrebbe potuto e dovuto essere conosciuta da un operatore professionale.
3. Sebbene il divieto di motivazione postuma, costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, meriti di essere confermato, rappresentando l’obbligo di motivazione il presidio essenziale del diritto di difesa, non può ritenersi che l’Amministrazione incorra nel vizio di difetto di motivazione quando le ragioni del provvedimento siano chiaramente intuibili sulla base della parte dispositiva del provvedimento impugnato o si verta in ipotesi di attività vincolata.
4. Alla luce dell’attuale assetto normativo, devono essere attenuate le conseguenze del principio del divieto di integrazione postuma, dequotando il relativo vizio tutte le volte in cui l’omissione di motivazione successivamente esternata:
– non abbia leso il diritto di difesa dell’interessato;
– nei casi in cui, in fase infraprocedimentale, risultano percepibili le ragioni sottese all’emissione del provvedimento gravato;
– nei casi di atti vincolati.
5. La natura di atti meramente amministrativi dei decreti ministeriali (nella specie, il decreto del Ministero dell’economia e delle finanze del 23 gennaio 2004, attuativo del divieto di procedere all’aggiornamento dell’indennità di confine) rende ad essi inapplicabile il principio “iura novit curia” di cui all’art. 113 c.p.c., da coordinarsi, sul piano ermeneutico, con il disposto dell’art. 1 preleggi (che non comprende, appunto, i detti decreti tra le fonti del diritto).
6. Nell’ ordinamento italiano per costante elaborazione pretoria non trova riconoscimento la teoria c.d. del “one shot” (viceversa ammessa in altri ordinamenti). Detta regola prevede che l’Amministrazione possa pronunciarsi negativamente una sola volta, facendo in detta occasione emergere tutte le possibili motivazioni che si oppongono all’accoglimento della istanza del privato. Nel sistema italiano il principio è stato “temperato” accordandosi all’Amministrazione due chances: l’annullamento di un provvedimento amministrativo a carattere discrezionale, che abbia negato la soddisfazione di un interesse legittimo pretensivo, non determina la sicura soddisfazione del bene della vita, ma obbliga semplicemente l’amministrazione a rinnovare il procedimento tenendo conto della portata conformativa della sentenza. In sintesi: al diniego di atto ampliativo vittoriosamente gravato in sede giurisdizionale, non consegue sempre e comunque l’obbligo per l’Amministrazione rimasta soccombente di rilasciare il titolo ampliativo medesimo, potendo essa, quantomeno in sede di prima riedizione del potere, evidenziare ulteriori elementi preclusivi (una sola volta, però).
CONSIGLIO DI STATO
SEZIONE IV
SENTENZA 4 marzo 2014, n. 1018
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1185 del 2012, proposto da: Comune di San Vitaliano, in persona del legale rappresentante in carica rappresentato e difeso dall’avv. Francesco Di Lorenzo, con domicilio eletto presso Giancarlo Viglione in Roma, Lungotevere dei Mellini, 17;
contro
Società Ambro Group Immobiliare Srl;
per la riforma
della sentenza breve del T.A.R. della CAMPANIA – Sede di NAPOLI- SEZIONE II n. 03001/2011, resa tra le parti, concernente diniego permesso di costruire
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 4 febbraio 2014 il Consigliere Fabio Taormina e udito per parte appellante l’Avvocato D’Alterio (su delega di Di Lorenzo);
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado era stato chiesto dalla odierna parte appellata Ambro Group Immobiliare S.r.l., la declaratoria di illegittimità del preteso silenzio-inadempimento serbato dall’amministrazione comunale odierna appellante su una istanza per rilascio permesso di costruire proposta in data11/03/2010 PROT. 3025 avente ad oggetto la realizzazione di un fabbricato per attività produttiva-, lavorazione, confezionamento e deposito derrate alimentari-, con annessi uffici, punto vendita ed alloggio del custode.
Con successivo ricorso per motivi aggiunti, l’odierna appellata aveva gravato il provvedimento del responsabile UTC in data 18.2.2011 con il quale le si era comunicato il parere negativo espresso dalla commissione edilizia sulla istanza per contrasto con l’art. 3 delle NTA, il verbale della commissione edilizia del giorno 8.2.2011 non trasmesso ma riportato nell’atto di cui sopra, il verbale della commissione edilizia 1490 del 2.12.2010 che aveva espresso parere contrario, la nota del 14.12.2010 di avviso di avvio del diniego ed ogni altro atto preordinato, connesso e consequenziale chiedendo altresì la declaratoria del proprio diritto ad ottenere il rilascio del permesso di costruire
Erano stati prospettati numerosi motivi di censura incentrati sui vizi di eccesso di potere e violazione di legge mercè i quali sostanzialmente si era dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 delle NTA, in quanto il motivo ostativo addotto ( ossia l’essere riferita la previsione dell’art. 3 delle NTA solo alle costruzioni a carattere residenziale) non trovava riscontro alcuno nella lettera e nella ratio della normativa indicata.
Era stata inoltre affermata la avvenuta violazione dell’ art. 20 DPR 380/01 e del PUC essendo la richiesta compatibile con la destinazione urbanistica del lotto e con gli indici volumetrici per lo stesso previsti.
Il Tribunale Amministrativo Regionale con la impugnata sentenza resa all’adunanza camerale del 31.3.2011 ha analiticamente e partitamente esaminato le doglianze proposte e le ha accolte.
In particolare, il primo giudice ha preliminarmente dichiarato la improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della domanda proposta per la declaratoria di illegittimità del silenzio serbato sulla istanza posto che, in corso di causa era intervenuto il provvedimento esplicito di diniego della domanda.
Quanto a quest’ultimo, gravato con i motivi aggiunti, ha rilevato che l’avversato diniego si fondava sulla considerazione del superamento degli indici volumetrici assentibili per il lotto in questione posto che si era preteso di includere nella volumetria computabile anche il piano seminterrato (si trattava in particolare della parte di seminterrato compresa tra la quota di sistemazione esterna al fabbricato ed il pavimento del piano rialzato, che pacificamente non superava il livello di mt. 1dal piano di campagna).
In contrario senso a quanto opinato dal comune, era stata invocata dall’odierna appellata la valenza dirimente della disposizione dell’art. 3 delle NTA allegate al PRG le quali individuavano le condizioni in base alle quali il volume del piano seminterrato va escluso dal computo della volumetria di progetto, con riferimento alla quota dell’estradosso del solaio del piano rialzato (” Sono esclusi dal calcolo del volume:… il volume dei piani seminterrato quando l’estradosso del solaio è inferiore o eguale a mt 1,00 rispetto alla superficie del terreno circostante secondo la sistemazione prevista dal progetto approvato”.) .
Il Tar ha in proposito posto in luce che di tale disposizione l’amministrazione comunale aveva negato l’applicabilità sostenendo nel gravato provvedimento che la stessa operasse solo per le costruzioni a carattere residenziale:”.. in quanto alzando la quota di impostazione del piano terra di un metro non comporta aumento del volume residenziale.”.
Senonchè, ad avviso del Tar, detta tesi non era accoglibile, poiché l’indicato articolo 3 delle NTA non era collocato in un capo delle disposizioni relativo alle costruzioni a carattere residenziale, ma nel titolo I intitolato “Generalità”, subito dopo le due norme definitorie che individuavano applicazione e finalità del piano, e nozione di intervento di trasformazione urbanistico- edilizia.
L’articolo 3 intitolato “Definizione degli indici urbanistico edilizi e misurazione delle altezze ,delle distanze, dei volumi e della superficie del lotto” rivestiva pertanto carattere generale , come denotava anche la formulazione del suo comma 2 ” Coerentemente con le norme nazionali e regionali in materia, ai fini della loro applicazione, si assumono le seguenti definizioni:….”
Il Tar ha infine osservato che l’amministrazione comunale odierna appellante aveva introdotto un ulteriore motivo di diniego, precisando come il presidente della commissione edilizia con nota del 5.3.2011 avesse rilevato la contrarietà del progetto alle disposizioni dell’art 57 RE nel senso che le stesse avrebbero neutralizzato l’efficacia delle disposizioni dell’art. 3 delle NTA in riferimento alla volumetria esclusa .
Senonchè, ad avviso del primo giudice, tali ulteriori motivazioni -del tutto postume e non espresse attraverso l’organo deputato alla formazione della volontà dell’ente- non potevano trovare ingresso nel giudizio ( il cui oggetto era circoscritto all’esame della legittimità del provvedimento come cristallizzato nella motivazione esplicitata attraverso il gravato provvedimento di diniego).
Il Tar ha pertanto accolto il mezzo, annullando il provvedimento del responsabile UTC in data 18.2.2011 con il quale si era comunicato il parere negativo espresso dalla commissione edilizia sulla istanza per contrasto con l’art. 3 delle NTA,il verbale della commissione edilizia del 8.2.2011 ed il verbale della commissione edilizia n. 140 del 2.12.2010 espressivo del parere contrario alla istanza dando atto altresì dell’avvenuta rinuncia da parte della originaria ricorrente alla domanda risarcitoria,
Avverso la sentenza in epigrafe l’amministrazione comunale originaria resistente rimasta soccombente ha proposto un articolato appello evidenziando che la motivazione della impugnata decisione era apodittica ed errata.
L’appellante ha in via preliminare chiarito le tappe del procedimento avviato dall’Amministrazione ed ha fatto presente che l’ Assessore all’ Urbanistica con nota 2094/2011 aveva chiesto chiarimenti in merito ai pareri espressi al presidente della commissione edilizia;
il presidente della commissione edilizia con nota del 5.3.2011 aveva rilevato la contrarietà del progetto alle disposizioni dell’art 57 RE nel senso che le stesse avrebbero neutralizzato l’efficacia delle disposizioni dell’art. 3 delle NTA in riferimento alla volumetria esclusa.
Erroneamente il Tar non aveva ritenuto integrabile la motivazione reiettiva, ed aveva valutato soltanto parzialmente quanto dedotto e prodotto in giudizio: ciò contrariamente a quanto affermava ormai la prevalente giurisprudenza in punto di proponibilità dei motivi aggiunti, integrabilità della motivazione, e necessità di un vaglio esteso all’intero rapporto.
La nota interpretativa del Presidente della Commissione urbanistica, peraltro, era nel merito corretta, e da ciò doveva discendere l’accoglimento del mezzo.
Con memoria del 2.1.2014 l’appellante ha puntualizzato e ribadito le proprie censure.
Alla odierna camera di consiglio del 4 febbraio 2014 la causa è stata posta in decisione dal Collegio.
DIRITTO
1.L’appello è infondato e va respinto alla stregua delle argomentazioni che seguono.
1.1. L’appellante amministrazione non contesta la tesi del Tar volta a dimostrare la inconsistenza degli argomenti reiettivi consacrati negli atti gravati: detto capo motivazionale è quindi ormai coperto da giudicato. L’unico motivo di censura si snoda sulla (doverosa ad avviso del comune) possibilità di integrare la motivazione in corso di causa; sulla fondatezza dell’argomento reiettivo integrativo della motivazione riferibile alla nota del 5.3.2011 sulla quale di qui a poco ci si soffermerà; sulla asserita erroneità della sentenza che tale integrazione non ha consentito.
Così inquadrato l’oggetto del contendere è evidente che l’appello del comune non ha alcuna possibilità di essere accolto.
2. E’ ammesso, pacifico, ed incontestato che una “porzione” della motivazione reiettiva (quella riposante nella dedotta circostanza che il presidente della commissione edilizia con nota del 5.3.2011 aveva rilevato la contrarietà del progetto alle disposizioni dell’art 57 RE nel senso che le stesse avrebbero neutralizzato l’efficacia delle disposizioni dell’art. 3 delle NTA in riferimento alla volumetria esclusa) fosse successiva alla emissione dei provvedimenti gravati.
2.1. Sostiene l’appellante amministrazione che il Tar avrebbe dovuto ritenere che la motivazione reiettiva potesse essere in tal modo integrata e quindi avrebbe dovuto valutare anche tale caposaldo motivazione e (in tesi) respingere il mezzo di primo grado.
2.2. La censura è del tutto errata.
2.3. Non è ignoto al Collegio il dibattito, anche dottrinario che dopo la introduzione, nel 2005, nel sistema giuridico italiano dell’art. 21 octies della legge n. 241/1990 si è sviluppato intorno a tale tematica.
Non è da alcuno contrastato, però, il principio per cui, ammesso che tale possibilità possa essere concessa alle amministrazioni, ciò è limitato al perimetro applicativo scolpito ex art. 21 octies della legge n. 241/1990.
Il Collegio non intende discostarsi, infatti, da quanto di recente affermatosi in giurisprudenza (Cons. Stato Sez. V, 20-08-2013, n. 4194) laddove si è lucidamente colto che “nel giudizio amministrativo, il divieto di integrazione della motivazione non ha carattere assoluto, in quanto non sempre i chiarimenti resi nel corso del giudizio valgono quale inammissibile integrazione postuma della motivazione: è il caso degli atti di natura vincolata di cui all’art. 21-octies L. n. 241 del 1990, nei quali l’Amministrazione può dare anche successivamente l’effettiva dimostrazione in giudizio dell’impossibilità di un diverso contenuto dispositivo dell’atto, oppure quello concernente la possibilità di una successiva indicazione di una fonte normativa non prima menzionata nel provvedimento, quando questa, per la sua notorietà, ben avrebbe potuto e dovuto essere conosciuta da un operatore professionale
E’ infatti insegnamento tradizionale e consolidato quello in base al quale, nel processo amministrativo la motivazione deve precedere e non seguire il provvedimento, a tutela oltre che del buon andamento e dell’esigenza di delimitazione del controllo giudiziario degli stessi principi di parità delle parti e giusto processo (art. 2 c.p.a.) e di pienezza della tutela secondo il diritto Europeo (art. 1 c.p.a.) i quali convergono nella centralità della motivazione quale presidio del diritto costituzionale di difesa.
Nella citata decisione è stato condivisibilmente posto in luce che (si riporta un breve passaggio motivazionale della stessa) “il divieto di integrazione giudiziale della motivazione non ha carattere assoluto, in quanto non sempre i chiarimenti resi nel corso del giudizio valgono quale inammissibile integrazione postuma della motivazione: è il caso degli atti di natura vincolata di cui all’art. 21-octies L. n. 241 del 1990, nei quali l’Amministrazione può dare anche successivamente l’effettiva dimostrazione in giudizio dell’impossibilità di un diverso contenuto dispositivo dell’atto, oppure quello concernente la possibilità di una successiva indicazione di una fonte normativa non prima menzionata nel provvedimento, quando questa, per la sua notorietà, ben avrebbe potuto e dovuto essere conosciuta da un operatore professionale (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 9 ottobre 2012, n. 5257).
Infatti, sebbene il divieto di motivazione postuma, costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, meriti di essere confermato, rappresentando l’obbligo di motivazione il presidio essenziale del diritto di difesa, non può ritenersi che l’Amministrazione incorra nel vizio di difetto di motivazione quando le ragioni del provvedimento siano chiaramente intuibili sulla base della parte dispositiva del provvedimento impugnato o si verta in ipotesi di attività vincolata (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 27 agosto 2012, n. 4610 e sez. IV, 7 giugno 2012, n. 3376).
Inoltre, ed in particolare, la facoltà dell’Amministrazione di dare l’effettiva dimostrazione dell’impossibilità di un diverso contenuto dispositivo dell’atto, nel caso di atti vincolati, esclude in sede processuale che l’argomentazione difensiva dell’Amministrazione, tesa ad assolvere all’onere della prova, possa essere qualificato come illegittima integrazione postuma della motivazione sostanziale, cioè come un’indebita integrazione in sede giustiziale della motivazione stessa.
Pertanto, alla luce dell’attuale assetto normativo, devono essere attenuate le conseguenze del principio del divieto di integrazione postuma, dequotando il relativo vizio tutte le volte in cui l’omissione di motivazione successivamente esternata:
– non abbia leso il diritto di difesa dell’interessato;
– nei casi in cui, in fase infraprocedimentale, risultano percepibili le ragioni sottese all’emissione del provvedimento gravato;
– nei casi di atti vincolati.”.
Sin qui la lucida motivazione della richiamata decisione, che il Collegio condivide e fa propria.
Nel caso di specie, all’evidenza, non sussiste alcuna di tali eventualità: trattavasi di atto discrezionale, la norma asseritamente collidente non era stata mai da alcuno evidenziata, le conseguenze della stessa non erano preconizzabili.
Considerare legittima una simile forma di integrazione motivazionale avrebbe comportato sostanzialmente la dequotazione di tutte le garanzie partecipative o, per meglio dire, l’avallo di un simulacro di procedimento amministrativo, non incentrato sulle “vere” questioni da esaminare.
La sentenza del Tar è pertanto pienamente condivisibile, e tale statuizione riveste portata pregiudiziale ed assorbente ed impedisce di prendere in esame gli argomenti volti a dimostrare la fondatezza del diniego espresso dall’amministrazione appellante proprio con riferimento alla citata nota (si veda anche: Cons. Stato, 18-12-2012, n. 6507 “non è ammissibile il motivo di appello con cui l’amministrazione porta a giustificazione del provvedimento impugnato un argomento -nel caso di specie la nullità del precedente provvedimento per macroscopica violazione di legge- che non si evince nemmeno implicitamente dalla sua motivazione , costituendo la stessa un’ integrazione postuma, in sede di giudizio, e come tale non consentita.”).
2.4. Quanto alle ulteriori specificazioni della censura (talune delle quali in ultimo contenute nella memoria datata il 2.1.2014) né è palese la fragilità.
L’appellante si spinge a sostenere l’applicabilità del principio iura novit curia alle disposizioni delle Nta (riferendo ciò sia alla delibazione giudiziale che all’originario istante “operatore professionale del settore”).
Quanto alla posizione dell’originario istante, valgono le considerazioni prima esposte: in più verrebbe fatto di chiedersi, retoricamente, per qual ragione, trattandosi di disposizione asseritamente ostativa nota e conosciuta o conoscibile l’Amministrazione comunale (che più di ogni altro avrebbe dovuto esserne edotta, avendola essa stessa introdotta nel sistema) essa non ne fece alcun cenno in prima battuta né nel corpo del provvedimento reiettivo.
Quanto alla posizione dell’organo giudicante l’affermazione del comune è sinanco temeraria: trattavasi di atti amministrativi in ordine ai quali è noto il consolidato principio secondo il quale il brocardo iura novit curia non ha diritto di cittadinanza (ex aliis: Cassazione civile sez. un. 29/04/2009 n.9941 “la natura di atti meramente amministrativi dei decreti ministeriali (nella specie, il decreto del Ministero dell’economia e delle finanze del 23 gennaio 2004, attuativo del divieto di procedere all’aggiornamento dell’indennità di confine) rende ad essi inapplicabile il principio ‘iura novit curia’ di cui all’art. 113 c.p.c., da coordinarsi, sul piano ermeneutico, con il disposto dell’art. 1 preleggi (che non comprende, appunto, i detti decreti tra le fonti del diritto), con la conseguenza che, in assenza di qualsivoglia loro produzione nel corso del giudizio di merito, deve ritenersene inammissibile l’esibizione, ex art. 372 c.p.c., in sede di legittimità, dovendosi comunque escludere, ove invece gli atti e i documenti siano stati prodotti nel corso del giudizio di merito, la sufficienza della loro generica indicazione nella narrativa che precede la formulazione dei motivi, attesa la necessità della ‘specifica’ indicazione della documentazione posta a fondamento del ricorso, ai sensi dell’art. 366, comma 1 n. 6, c.p.c., che richiede la precisa individuazione della fase di merito in cui la stessa sia stata prodotta.”; si veda sul punto anche Consiglio di Stato sez. II 24/10/2007 n. 1677, ma si veda anche:T .A.R. Cagliari sez. II 22/01/2013 n.45 “n relazione gli atti di normazione secondaria non soggetti a pubblicazione in Gazzetta Ufficiale o in altre analoghe fonti pubbliche -come per l’appunto i regolamenti comunali quali quello di specie- non opera la regola ‘iura novit curia’, con la conseguenza che spetta alla parte che li invoca l’onere di produrli in giudizio in base al generale principio sull’onere probatorio espresso dall’art. 2697 c.c.”).
3. Per completezza si evidenzia che siffatto modo di procedere adottato dal Tar, e pienamente condiviso dal Collegio da un canto appare rispettoso delle prerogative infraprocedimentali del privato ed improntato alla affermazione del “giusto procedimento”; per altro verso, non “condanna” irrimediabilmente le amministrazioni al rilascio di provvedimenti ampliativi,laddove esse abbiano errato nel non evidenziare tempestivamente un elemento ostativo al soddisfacimento dell’interesse pretensivo del privato.
3.1. Chiamata a delibare sull’affare a seguito di un giudicato annullatorio attingente un provvedimento reiettivo di un interesse pretensivo del privato, l’Amministrazione non potrebbe ribadire il proprio diniego supportandolo con l’affermazione presa in esame dal giudice e giudicata illegittima (chè a ciò osterebbe il giudicato formatosi).
Potrebbe però nuovamente negare il provvedimento favorevole ampliativo, adducendo motivi nuovi ( ovvero motivi già addotti, censurati dal privato, ma sui quali non si sia formato il giudicato in quanto “assorbiti” dal Giudice).
E tra tali motivi “nuovi” potrebbe pacificamente rientrare, con più specifico riferimento al procedimento per cui è causa, quello che correttamente è stato ritenuto costituire inammissibile integrazione motivazionale dell’originario provvedimento reiettivo.
3.2. Si evidenzia per completezza, l’ulteriore approdo raggiunto dalla dottrina e dalla giurisprudenza amministrativa.
E’ ben ovvio infatti che potendo in teoria l’Amministrazione pronunciarsi un numero di volte in via di principio infinito sullo stesso affare, ove questa ogni volta ponesse a sostegno del “nuovo” provvedimento fatti “nuovi” (in quanto non precedentemente esaminati) verrebbe vanificata la portata accertativa e soprattutto conformativa di ogni decisione.
Ogni controversia sarebbe destinata, in potenza, a non conludersi mai con un definitivo accertamento sulla spettanza – o meno- del “bene della vita”.
Se quindi deve escludersi che ogni questione insorta dopo la formazione del giudicato e in esecuzione dello stesso vada sottoposta al vaglio del giudice dell’ottemperanza tuttavia occorre che la controversia fra l’Amministrazione e l’amministrato trovi ad un certo punto una soluzione definitiva, e dunque occorre impedire che l’Amministrazione proceda più volte all’emanazione di nuovi atti, in tutto conformi alle statuizioni del giudicato, ma egualmente sfavorevoli all’originario ricorrente, in quanto fondati su aspetti sempre nuovi del rapporto, non toccati dal giudicato.
Come conciliare dette –opposte – esigenze (garanzia della inesauribilità del potere di amministrazione attiva e portata cogente del giudicato)?
Il punto di equilibrio è stato individuato in via empirica dalla giurisprudenza imponendo all’Amministrazione – dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo – di esaminare l’affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati.
Questo principio costituisce jus receptum in giurisprudenza (tra le tante, si veda Consiglio di Stato Sez. VI, 09-02-2010, n. 633; per completezza espositiva e rigore logico si segnala Consiglio di Stato sez. V, 06-02-1999, n. 134, laddove, intervendosi sul tema del difetto di motivazione e del giudicato, ha ritenuto che una volta passata in giudicato la sentenza di annullamento di un diniego di concessione edilizia, non è ammesso il ricorso per l’esecuzione del giudicato se l’amministrazione abbia rinnovato il diniego sulla base di diversa motivazione, affermando comunque che “è onere dell’amministrazione, dopo il giudicato, esaminare la pratica nella sua interezza, con la conseguenza che, una volta rinnovato il diniego, non può più assumere ulteriori provvedimenti sfavorevoli per profili non ancora esaminati.”).
Esso appare equo contemperamento (o quantomeno il migliore che sia stato sinora individuato) tra esigenze all’apparenza inconciliabili ( la “forza”della res iudicata e la stessa funzione ed utilità di quest’ultima la continuità del potere amministrativo ex art. 97 della Costituzione, il principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 della Costituzione medesima).
Tale regola può soffrire di una limitata eccezione unicamente in relazione a rilevanti fatti sopravvenuti o che non sono stati esaminati in precedenza per motivi indipendenti dalla volontà dell’Amministrazione ovvero su una nuova normativa (purchè essa non persegua il fine di incidere sull’esercizio della funzione giurisdizionale, chè altrimenti si dovrebbe dubitare della compatibilità costituzionale della stessa).
Se la prima rieffusione del potere è tendenzialmente “libera”, quindi, le eventuali ulteriori valutazioni che seguano ad un giudicato demolitorio non possono giovarsi di materiale cognitivo prima non esaminato né fondarsi su motivazione “diversa”.
Nell’ ordinamento italiano quindi, per costante elaborazione pretoria non trova riconoscimento la teoria c.d. del ‘one shot’ (viceversa ammessa in altri ordinamenti).
Detta regola prevede che l’Amministrazione possa pronunciarsi negativamente una sola volta, facendo in detta occasione emergere tutte le possibili motivazioni che si oppongono all’accoglimento della istanza del privato.
Nel sistema italiano il principio è stato “temperato” accordandosi all’Amministrazione due chances: si è infatti costantemente affermato che l’annullamento di un provvedimento amministrativo a carattere discrezionale che abbia negato la soddisfazione di un interesse legittimo pretensivo non determina la sicura soddisfazione del bene della vita, ma obbliga semplicemente l’amministrazione a rinnovare il procedimento tenendo conto della portata conformativa della sentenza.( ex multis,T.A.R. Lazio Roma Sez. I, 23-04-2009, n. 4071).
In sintesi: al diniego di atto ampliativo vittoriosamente gravato in sede giurisdizionale, non consegue sempre e comunque l’obbligo per l’Amministrazione rimasta soccombente di rilasciare il titolo ampliativo medesimo, potendo essa, quantomeno in sede di prima riedizione del potere, evidenziare ulteriori elementi preclusivi (una sola volta, però).
A fortiori, non è fuor di luogo rammentare che l’esercizio dell’autotutela (non ovviamente ponendovi a sostegno argomenti la cui fondatezza è esclusa dal giudicato formatosi) è certamente presidio esercitabile: il tutto, però, deve avvenire non de quotando i diritti e le facoltà infraprocedimentali del privato, come avverrebbe semplicemente evidenziando in corso di giudizio asseriti elementi ostativi “nuovi” e mai oggetto di confronto con il privato istante.
4. Alla stregua delle superiori argomentazioni l’appello deve essere disatteso
5. Nessuna statuizione è dovuta sulle spese stante la mancata costituzione in giudizio della parte appellata.
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P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto,lo respinge.
Nulla per le spese
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
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