La massima
1. Le consulenze tecniche non sono lo strumento per ricercare il vero valore di mercato (atteso che questo è determinabile unicamente solo con l’effettiva messa in vendita del bene) ma servono unicamente a simulare il possibile comportamento delle parti coinvolti, qualora se ne presentassero le condizioni. È quindi un profilo ordinario, anzi ontologico, dell’azione di stima che questa fondi le sue valutazioni su situazioni non esattamente sovrapponibili a quella in esame, ma paragonabili sotto profili diversi. Sicché, le diversità delle situazioni prese in considerazione, non rappresentano un profilo patologico dell’azione dello stimatore, fino a che non viene provato che tra gli elementi presi a sostegno e quelli da valutare non vi fossero profili di somiglianza.
2. Il giudice, sia in sede di ottemperanza e a maggior ragione in sede di cognizione, non può imporre all’amministrazione di agire tramite il ricorso al procedimento di cui all’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001.
3. Se è vero che, in sede di ottemperanza, il giudice amministrativo può sostituire l’amministrazione anche nelle scelte che toccano il merito dell’azione, è anche vero che il giudizio di ottemperanza altro non è che il portato esecutivo del giudizio di cognizione. Quindi, se è pacifico che il giudice dell’ottemperanza è vincolato dal contenuto della sentenza da eseguire, è del pari evidente che la sentenza di cognizione ottemperanda è a sua volta legata ai limiti dati dalla domanda proposta dalla parte in sede di ricorso introduttivo. Si tratta cioè di un rapporto di successiva delimitazione e progressiva messa a fuoco, dal quale non si può prescindere se non dimenticando le interconnessioni tra i vari momenti del processo.
4. L’unico obbligo scaturente dalla sentenza che annulla gli atti di una procedura espropriativa è quello di restituzione del bene, mentre le altre opzioni sono rimesse alle scelte dell’amministrazione, visto che si pongono su un piano diverso da quello dell’esecuzione del giudicato. In particolare, proprio la maggiore incidenza economica del provvedimento ex art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001, impone che sia lasciata all’amministrazione la ponderazione comparativa delle alternative disponibili.
CONSIGLIO DI STATO
sezione IV
SENTENZA 19 marzo 2014, n.1344
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1108 del 2011, proposto da: Marco Campanile, Michele Campanile, Anna Campanile, Rosaria Campanile e Liliana Campanile, rappresentati e difesi dall’avv. Costantino Ventura, ed elettivamente domiciliati, unitamente al difensore, presso il dott. Marco Gardin in Roma, via L. Mantegazza n. 24, come da mandato a margine del ricorso introduttivo;
contro
Comune di Bari, in persona del sindaco legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Alessandra Baldi, ed elettivamente domiciliato, unitamente al difensore, presso l’avv. Roberto Ciociola in Roma, viale delle Milizie n. 2, come da mandato a margine della comparsa di costituzione e risposta;
sul ricorso numero di registro generale 7969 del 2013, proposto da: Marco Campanile, Michele Campanile, Anna Campanile, Rosaria Campanile e Liliana Campanile, rappresentati e difesi dall’avv. Costantino Ventura, ed elettivamente domiciliati, unitamente al difensore, presso il dott. Marco Gardin in Roma, via L. Mantegazza n. 24, come da mandato a margine del ricorso introduttivo;
contro
Comune di Bari, in persona del sindaco legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Alessandra Baldi, ed elettivamente domiciliato, unitamente al difensore, presso l’avv. Roberto Ciociola in Roma, viale delle Milizie n. 2, come da mandato a margine della comparsa di costituzione e risposta;
per la riforma
quanto al ricorso n. 1108 del 2011:
dell’ordinanza collegiale del T.A.R. della Puglia, sezione seconda, n. 284 del 30 dicembre 2010, resa tra le parti e concernente chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza dell’ordinanza istruttoria n. 244 del 2010 in tema di risarcimento per occupazione d’urgenza;
quanto al ricorso n. 7969 del 2013:
della sentenza del T.A.R. della Puglia, sezione seconda, n. 1213 del 29 luglio 2013, resa tra le parti e concernente l’ottemperanza alla sentenza n. 2908 del 2009 in tema di risarcimento danni a seguito di occupazione d’ugenza;
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Bari;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 14 gennaio 2014 il Cons. Diego Sabatino e uditi per le parti gli avvocati Costantino Ventura e Alessandra Baldi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con ricorso iscritto al n. 1108 del 2011, Marco Campanile, Michele Campanile, Anna Campanile, Rosaria Campanile e Liliana Campanile propongono appello avverso l’ordinanza collegiale del T.A.R. della Puglia, sezione seconda, n. 284 del 30 dicembre 2010, resa tra le parti nell’ambito del processo iscritto al n.r.g. 903/2010 e concernente chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza dell’ordinanza istruttoria n. 244 del 2010 in tema di risarcimento per occupazione d’urgenza.
Discussa in camera di consiglio alla data del 15 marzo 2011, il detto appello è stato respinto con ordinanza cautelare n. 1234/2011.
Con ricorso iscritto al n. 5556 del 2013, gli stessi soggetti propongono appello avverso la sentenza del T.A.R. della Puglia, sezione seconda, 1213 del 29 luglio 2013, con cui il primo giudice si è definitivamente espresso sulla questione sottoposta nel processo iscritto al n.r.g. 903/2010 e nel cui corso si è inserita l’ordinanza gravata con il sopracitato appello n. 1108/2011. Con la sentenza definitiva, il T.A.R. ha accolto il ricorso proposto contro il Comune di Bari per l’ottemperanza alla sentenza 25 novembre 2009 n. 2908, resa inter partes dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, terza Sezione, disponendo le modalità di quantificazione del danno.
La vicenda, che coinvolge i profili della cognizione e dell’ottemperanza, può così essere riassunta.
Gli appellanti Campanile erano proprietari di un’area nel centro urbano di Bari, compreso tra le vie Omodeo, Dorso, Salvemini e strada di nuova viabilità, tipizzato dalla variante al P.R.G., approvata con D.P.G.R. n. 1475 datato 8 luglio 1976, per la maggior parte a “verde pubblico – verde di quartiere” e in parte minima a viabilità.
Con decreto dirigenziale n. 54 del 7 ottobre 2002 veniva disposta l’occupazione d’urgenza dell’area in parola per la dichiarata realizzazione di un piazzale alberato.
Avverso tale decreto gli interessati proponevano gravame con ricorso iscritto al n. 1753/2002, lamentando che lo scopo effettivo della procedura avviata fosse la realizzazione di una struttura funzionale all’ubicazione del mercato settimanale, incompatibile con la destinazione a verde dell’area in questione; e che in ogni caso tale destinazione dovesse ritenersi caducata per effetto del decorso del termine di cui all’art. 2 della legge n. 1187/68.
Il T.A.R. della Puglia, sezione terza, con sentenza n. 1630 del 16 marzo 2004, confermata da questa Sezione con decisione 25 maggio 2005 n. 2718, rigettava il ricorso ritenendo tra l’altro che fosse ancora efficace la destinazione a verde in quanto vincolo conformativo e che alla destinazione stessa fosse conforme la realizzazione di un piazzale alberato. Successivamente, non ancora pronunziata la definitiva espropriazione, l’Amministrazione comunale disponeva il trasferimento del mercato settimanale sull’area con determinazioni gravate dagli interessati con il ricorso n. 234/2005, con cui chiedevano l’annullamento degli atti impugnati e la conseguente restituzione dell’immobile; in subordine, il risarcimento dei danni.
Emanato il decreto di esproprio (n. 364 del 24 aprile 2007), a firma del dirigente della ripartizione lavori pubblici, i Campanile proponevano l’ulteriore ricorso n. 1287/2008, chiedendo altresì il risarcimento dei danni conseguenti all’illegittima trasformazione dell’area.
Con lo stesso ricorso lamentavano anche l’occupazione e la trasformazione di una porzione di suolo pari a mq 1.426, costituita dalle particelle nn. 1147, 1148, 1150 e 1151, rinvenenti dal frazionamento delle particelle nn. 177 e 72, che sarebbero state oggetto di occupazione e non invece del decreto di esproprio stesso, conseguentemente formulando richiesta di restituzione dell’area in parte qua.
Con la sentenza 10 luglio 2009 n. 1421, il T.A.R. rigettava il ricorso n. 1287/2008 (con riferimento sia alla domanda di annullamento sia alla conseguente richiesta risarcitoria) e dichiarava in parte inammissibile per carenza di interesse il ricorso n. 234/2005, non potendo i ricorrenti ottenere dall’annullamento delle relative delibere alcun’utilità, stanti i giudizi a loro sfavorevoli sugli atti presupposti.
Quanto invece alla richiesta di restituzione della porzione di suolo che gli istanti ricorrenti assumevano non ricompresa nel provvedimento finale di esproprio ma effettivamente occupata e trasformata, il T.A.R. ordinava al Comune di fornire chiarimenti in ordine all’effettiva trasformazione in strada delle particelle nn. 1147, 1148, 1150 e 1151, non ricomprese nel decreto di esproprio e rinvenenti dal frazionamento delle originarie particelle nn. 72 e 177.
All’esito dell’istruttoria, il primo giudice, con sentenza 25 novembre 2009 n. 2908, accertava, tramite la determinazione prot. n. 192950 del 30 luglio 2009, a firma del direttore della ripartizione edilizia pubblica e lavori pubblici, che in effetti le predette particelle erano state interamente interessate e trasformate dal progetto di realizzazione del piazzale alberato e della viabilità di via Salvemini e via Sorrentino. Il Comune rappresentava inoltre l’inopportunità della loro restituzione, vista la l’utilizzazione per scopi d’interesse pubblico.
Il T.A.R. quindi, facendo applicazione dall’art. 43, comma terzo, del D.P.R. n. 327/2001 (nella formulazione allora vigente), nella parte in cui prevedeva la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene stesso senza limiti di tempo, precisava, richiamando il sesto comma, “che il danno in tali casi debba essere rapportato al “valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità”, maggiorato degli interessi moratori, a decorrere dal giorno in cui il bene stesso sia stato occupato sine titulo; e che, se in particolare si tratta di “terreno edificabile”, il valore stesso debba essere determinato sulla base delle disposizioni dell’art. 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7”.
In particolare, la sentenza osservava:
“Orbene, se è vero che tale ultima disposizione evoca il criterio dell’edificabilità di fatto, giacché al comma 3 prescrive che la determinazione del valore venale debba tener conto delle “possibilità legali ed effettive di edificazione” esistenti al momento dell’emanazione del decreto di esproprio o dell’accordo di cessione (al momento cioè in cui la proprietà viene trasferita), è pur vero che, secondo il consolidato orientamento della Cassazione, il criterio stesso soccorre solo in via suppletiva nei casi di carenza di classificazione urbanistica, oppure in via complementare ed integrativa ai fini della determinazione del concreto valore di mercato delle aree che nello strumento urbanistico vigente siano classificate come edificabili.
“In effetti, il T.U. lo ha richiamato nella norma che si occupa della determinazione dell’indennità con riferimento specifico a tali aree.
“Ne discende che, in presenza di uno strumento urbanistico vigente ed efficace, è in primo luogo alla destinazione ivi prevista che deve farsi riferimento nella determinazione del valore di un’area, pur senza tener conto degli effetti del vincolo preordinato all’esproprio.
“Questa è la regola generale, stabilita per le aree comunque classificate nei piani urbanistici. In tal senso dispone infatti espressamente l’art. 32 del T.U. espropri.
“4.-Delineati dunque i principi generali non può dubitarsi, facendo applicazione degli stessi, che nel caso di specie il risarcimento del danno debba essere commisurato al valore venale dell’area tenuto conto della concreta destinazione urbanistica impressa alla stessa dal piano regolatore: la destinazione a servizi. Come anticipato in fatto, invero, tale destinazione è stata ritenuta tuttora efficace e vigente con sentenza di questa Sezione n.1630/04, confermata dal Consiglio di Stato e ormai passata in giudicato, che vi ha individuato un vincolo conformativo non soggetto a decadenza.
“Quanto poi al momento cui rapportare la valutazione, è altrettanto indubitabile che debba farsi riferimento alla data di pubblicazione della presente sentenza. Inoltre l’Amministrazione sarà tenuta a corrispondere, in aggiunta al valore venale della porzione di suolo in questione, gli interessi moratori (calcolati nella misura degli interessi legali ex art.1224 c.c.) a decorrere dal giorno in cui il terreno è stato occupato sine titulo, ai sensi dell’art. 43 più volte richiamato, comma 6, lett. b); salva l’indennità di occupazione per il periodo di occupazione legittima”.
Il Giudice affidava poi al meccanismo di cui all’art. 35, comma secondo, del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 80 – oggi corrispondente all’articolo 34, comma quarto, del codice del processo amministrativo – la quantificazione del ristoro (con condanna del Comune di Bari al pagamento delle somme risultanti nel termine di novanta giorni), prevedendo che, in caso di mancato accordo, la liquidazione sarebbe stata effettuata in via giudiziale, secondo quanto stabilito dal medesimo art. 35.
Non avendo le parti raggiunto l’accordo sul quantum, i Campanile producevano il ricorso n. 903/2010, per l’ottemperanza alla sentenza n. 2908/2009 e dunque per la liquidazione delle somme dovute a titolo di risarcimento.
Con ordinanza 21 ottobre 2010 n. 244, il T.A.R. nominava c.t.u. il dott. Giuseppe Garofalo, perché determinasse l’ammontare dell’importo dovuto dall’Amministrazione ai ricorrenti secondo le indicazioni contenute nella motivazione della richiamata sentenza n. 2908/2009.
Con ordinanza 2 dicembre 2010 n. 284, su richiesta dell’Ente di chiarimenti sulle modalità di esecuzione, ai sensi dell’art. 112, ultimo comma, del codice del processo amministrativo, il T.A.R. esplicitava che “quando si è statuito nella precedente sentenza di questa Sezione n. 2908/2009 del 25.11.2009 che per la quantificazione del danno dovesse farsi riferimento –testualmente- “..al valore venale dell’area tenuto conto della concreta destinazione urbanistica impressa alla stessa dal piano regolatore: la destinazione a servizi” si è inteso far riferimento ai possibili servizi ivi allocabili secondo le previsioni dello strumento urbanistico generale della cui vigenza non si poteva –ne può- dubitarsi in virtù del giudicato formatosi sulla sentenza della terza Sezione di questo Tar n.1630/04 confermata dal C.d.S. (attrezzature per svago, come chioschi bar, teatri all’aperto, impianti sportivi per allenamento e spettacolo e simili, secondo un’elencazione evidentemente non esaustiva); nonché si è inteso tener conto delle concrete possibilità di utilizzazione e di edificazione dell’area stessa, secondo le previsioni dello strumento urbanistico stesso.
Riformulava di conseguenza il quesito al perito incaricato nei termini seguenti: “Accerti il C.T.U. il valore venale dell’area tenendo conto delle concrete possibilità di utilizzazione ed edificazione della stessa secondo le previsioni dello strumento urbanistico vigente (art. 31 N.T.A.)”.
Questa Sezione respingeva l’appello cautelare con ordinanza 15 marzo 2011 n. 1234, già sopra ricordata, constatata la coerenza con l’impianto argomentativo della sentenza ottemperanda.
Il Comune reiterava poi la stessa istanza, dichiarata inammissibile con ordinanza 11 gennaio 2011 n. 98.
Al dott. Garofalo veniva concessa una proroga dei termini fissati per l’espletamento dell’incarico (ordinanza 16 febbraio 2011 n. 354) e veniva liquidato il compenso (ordinanza 21 luglio 2011 n. 1222).
A seguito della richiesta del professionista di un’integrazione delle competenze liquidate, veniva emessa l’ordinanza 26 ottobre 2011 n. 1629 che rigettava l’istanza, ritenendo il compenso, come calcolato dall’interessato, esorbitante, perché a sua volta era reputata esorbitante la stessa stima dei beni posta a base del computo. In particolare, l’atto reiettivo si fondava sulle seguenti ragioni:
“Considerato che l’area oggetto di valutazione, che si compone di numero tre particelle catastali, ha una consistenza complessiva di appena 1.426 mq con indice planovolumetrico pari a 0,05 mc/mq, con destinazione a servizi;
“Considerato che a fronte dell’offerta del Comune a titolo di risarcimento della somma di € 57.000 circa oltre accessori di legge, e di una proposta transattiva per l’importo di € 200.000,00 (importo ritenuta satisfattiva dai ricorrenti), proposta non andata a buon fine, il predetto C.T.U. ha invece determinato un valore venale del bene di € 4.800.000,00 ritenendo l’ipotesi di una edificazione sotterranea, la quale porterebbe ad un presunto reddito annuo di € 120.000,00.
“Rilevato che, ferma restando la discrezionalità tecnica riservata al C.T.U. nell’espletamento dell’incarico di che trattasi, emerge ictu oculi l’abnormità della stima del valore venale del bene;
“Rilevato che detto importo di € 4.800.000,00 ha costituito la base di calcolo utilizzata dal medesimo C.T.U. per la quantificazione del cospicuo compenso professionale richiesto dal suddetto tecnico”.
Con ordinanza 26 ottobre 2011 n. 1742 veniva disposta una verificazione (sempre per la valutazione del fondo), nominando, a tal fine, il dirigente dell’Agenzia del territorio di Bari, con facoltà di delega e fissando, quale anticipo, sul compenso la somma € 1.000,00, a carico di entrambe le parti in via solidale.
Con ordinanza 17 maggio 2012 n. 1094, il T.A.R. ha disposto un approfondimento istruttorio, investendo il verificatore della questione relativa alle opere e ai manufatti che sul suolo espropriato si trovavano al momento dell’occupazione legittima, quali risultano dalla nota integrativa al verbale di consistenza del 5 novembre 2002, redatto all’atto dell’immissione in possesso, laddove risultano stimati per un valore complessivo di 75 milioni di lire.
Dopo il deposito della relazione del verificatore sul punto, i ricorrenti lamentavano sia il persistente mancato inserimento del valore di tali opere nel calcolo dell’indennità di occupazione sia la mancata considerazione nella stima del valore delle opere stesse (consistenti in opere di recinzione) delle fondazioni e degli oneri di sicurezza; perciò, con ordinanza 8 novembre 2012 n. 2110, la Sezione disponeva un ulteriore approfondimento sulla questione, nel contraddittorio delle parti, al fine eventualmente di rideterminare il valore delle opere, sia ai fini del calcolo dell’indennità di esproprio sia di quella di occupazione.
All’udienza del 25 luglio 2013, il ricorso veniva discusso e deciso con la sentenza appellata. In essa, il T.A.R. riteneva fondate le doglianze delle parti, accogliendo la loro domanda risarcitoria sebbene in maniera non completamente satisfattiva.
Contestando le statuizioni del primo giudice nei limiti del mancato accoglimento della totalità delle loro domante, le parti appellanti evidenziano l’erroneità della ricostruzione in fatto e in diritto operata dal T.A.R. e ripropongono le proprie argomentazioni.
In entrambi i giudizi si è costituito il Comune di Bari, chiedendo di dichiarare inammissibile o, in via gradata, rigettare il ricorso e dispiegando appello incidentale teso all’accoglimento delle domande rigettate o assorbite in prime cure.
Alla camera di consiglio del 14 gennaio 2014, i due ricorsi sono stati congiuntamente discussi e assunti in decisione.
DIRITTO
1. – In via preliminare e a norma dell’art. 70 del codice del processo amministrativo, va disposta la riunione dei diversi appelli, in quanto connessi perché proposti in relazione allo stesso giudizio di primo grado.
2. – Ancora in via preliminare, va dichiarata l’improcedibilità del ricorso n. 1108/2011. Questo è stato, infatti, proposto contro l’ordinanza collegiale del T.A.R. della Puglia, sezione seconda, n. 284 del 30 dicembre 2010. Si trattava quindi di una vicenda incidentale, già decisa dalla Sezione con ordinanza n. 1234 del 15 marzo 2011 e pertanto erroneamente portato in discussione in udienza. Per altro verso, tutte le questioni di eventuale rilevanza contenute nell’appello sono state assorbite dalla pubblicazione della sentenza n. 1213 del 29 luglio 2013, con cui si è chiuso il giudizio e che ha quindi reso improcedibile il primo giudizio.
3. – Ancora in via preliminare, deve valutarsi l’eccezione proposta dal Comune di Bari il quale, evidenziando di aver proposto una somma a titolo di ristoro, come richiesto nella sentenza ottemperanda, ritiene inammissibile il ricorso. Si tratta di doglianza che, per i suoi contenuti, mira a paralizzare l’azione stessa proposta in prime cure, ed ha quindi valore pregiudiziale intrinseco.
3.1. – La censura non può essere accolta.
Come si vedrà nel prosieguo, il primo giudice ha valutato il risarcimento non congruo, tanto da procedere alla rideterminazione del dovuto. Pertanto, nel caso in esame, non è il T.A.R. ma il Comune di Bari a leggere la norma di cui al previgente art. 35 del D.Lgs. n. 80 del 1998 in maniera formale, come se questo imponesse una mera attività procedimentale. Al contrario, e quindi correttamente, il primo giudice ha evidenziato come la finalità della norma fosse quella di pervenire ad un corretto risarcimento del danno, e non quella unicamente di sollecitare un’attività procedimentale dell’amministrazione.
Peraltro, il T.A.R. ha espressamente rilevato l’effettivo inadempimento, considerando che, a prescindere dal quantum effettivamente calcolato, il Comune non aveva comunque ristorato i proprietari dopo aver occupato senza titolo il loro terreno.
La censura va quindi respinta, dovendosi quindi procedere alla disamina delle ragioni dell’appello principale.
4. – Nel merito, l’appello iscritto al n. 7969 del 2013 non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.
5. – Con il primo motivo di diritto, articolato sotto quattro profili, viene lamentata l’inadeguata determinazione del risarcimento spettante anche alla luce della sentenza ottemperanda n. 2908 del 2009. Nel dettaglio, la valutazione operata dal primo giudice è censurata sotto i seguenti profili: a) incoerenza con la sentenza ottemperanda che aveva imposto di accertare il valore venale dell’area tenendo conto delle concrete possibilità di utilizzazione e edificazione della stessa, laddove la sentenza gravata ha eliso la valutazione delle destinazioni impresse; b) l’erroneità della valutazione di correttezza delle operazioni di stima svolte, laddove il verificatore si era avvalso dei valori deducibili da sei atti di compravendita che non sono stati allegati alla documentazione; c) l’errata considerazione sulla correttezza del metodo sintetico – comparativo, non applicabile alla fattispecie in esame; d) inadeguata valutazione dei manufatti, per mancata considerazione delle fondazioni del muretto di recinzione.
5.1. – Le censure, attinenti tutte i profili e il metodo di stima usato, possono essere congiuntamente considerate e respinte, in quanto infondate.
Riguardo alle potestà edificatorie non considerate, occorre evidenziare come il primo giudice si sia correttamente correlato alle indicazioni contenute nella sentenza ottemperanda, laddove le censure proposte dalle parti appellanti mirano ad introdurre ulteriori elementi, quali quelli attinenti al ristoro di una possibile gestione economica privata dell’area (pag. 7 dell’atto di appello) non inclusi nell’ambito del giudicato della sentenza da eseguire.
In merito alla base di giudizio su cui si è fondata la verificazione, occorre sottolineare come le consulenze tecniche non sono lo strumento per ricercare il vero valore di mercato (atteso che questo è determinabile unicamente solo con l’effettiva messa in vendita del bene) ma servono unicamente a simulare il possibile comportamento delle parti coinvolti, qualora se ne presentassero le condizioni. È quindi un profilo ordinario, anzi ontologico, dell’azione di stima che questa fondi le sue valutazioni su situazioni non esattamente sovrapponibili a quella in esame, ma paragonabili sotto profili diversi. Pertanto, gli elementi di criticità evidenziati, ossia le diversità delle situazioni prese in considerazione, non rappresentano un profilo patologico dell’azione dello stimatore, fino a che non viene provato, evento qui non realizzatosi, che tra gli elementi presi a sostegno e quelli da valutare non vi fossero profili di somiglianza.
In relazione al metodo utilizzato, va evidenziato come la richiesta delle parti che, tramite l’auspicato ricorso al metodo analitico – ricostruttivo, tendono a far valutare le stesse utilità già oggetto del primo motivo di doglianza, si scontra, da un lato, con i limiti sopra indicati di rispetto delle statuizioni della sentenza passata in giudicato e, dall’altro, dalla correttezza del criterio sintetico – comparativo utilizzato, giustificato non solo dalla considerazione giurisprudenziale (Consiglio di Stato, sez. IV, 15 luglio 2011, n. 4311) ma anche dalle difficoltà oggettive, evidenziate in sede di confutazione del primo profilo, date dalla difficoltà di calcolare un valore venale per una zona di uso collettivo.
Infine, in merito alla determinazione del valore del muretto di recinzione, il primo giudice lo ha considerato nel complesso, e quindi comprendendone anche le fondazioni, quando ha affermato che “deve tenersi conto del valore della recinzione (accedendo al suolo e risultando espressamente dai verbali d’immissione in possesso), che l’ing. Percoco Morea ha determinato in euro 26.000,00, sulla base dei detti verbali e delle relative fotografie, non essendo l’opera di protezione più esistente”. La valutazione operata appare corretta, essendo stata peraltro oggetto di tre diversi approfondimenti istruttori, mentre le censure opposte sono basate su considerazioni del tutto carenti di riscontro.
Conclusivamente, il motivo appare del tutto infondato e va respinto.
6. – Con il secondo motivo di diritto, le parti appellanti lamentano la mancata applicazione dell’art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001 e, in particolare, ha ritenuto non risarcibile il danno non patrimoniale.
6.1. – La censura non può essere condivisa.
Va innanzi tutto evidenziato come la Sezione non ritenga che il giudice, sia in sede di ottemperanza e a maggior ragione in sede di cognizione, possa imporre all’amministrazione di agire tramite il ricorso al procedimento di cui all’art. 42 bis del d.P.R. n. 380 del 2001.
A tal fine va osservato come si sia oramai consolidato l’insegnamento per cui l’ente pubblico possa procedere al recupero della legittimità violata secondo una serie di scansioni derivanti dall’ordinamento (e riassunte nella sentenza n. 4969 del 2 settembre 2011 di questa Sezione dove si legge: “l’amministrazione può legittimamente apprendere il bene facendo uso unicamente dei due strumenti tipici, ossia il contratto, tramite l’acquisizione del consenso della controparte, o il provvedimento, e quindi anche in assenza di consenso ma tramite la riedizione del procedimento espropriativo con le sue garanzie. L’illecita occupazione, e quindi il fatto lesivo, permangono quindi fino al momento della realizzazione di una delle due fattispecie legalmente idonee all’acquisto della proprietà, indifferentemente dal fatto che questo evento avvenga consensualmente o autoritativamente. A questi due strumenti va altresì aggiunto il possibile ricorso al procedimento espropriativo semplificato, già previsto dall’art. 43 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 ‘Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità’ ed ora, successivamente alla sentenza della Corte costituzionale, 8 ottobre 2010, n. 293, che ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, nuovamente regolamentato all’art. 42 bis dello stesso testo, come introdotto dall’articolo 34, comma 1, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98 ‘Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria’, convertito in legge 15 luglio 2011 n. 111”).
La Sezione non ignora come sia rinvenibile in giurisprudenza un orientamento che addirittura impone all’amministrazione, o al commissario ad acta che agisce in via sostitutiva, di attivarsi in tal senso (Consiglio di Stato, sez. VI, 1 dicembre 2011, n. 6351), ma intende evidenziare le ragioni che fanno apparire impraticabile tale soluzione, sulla scorta di una ricostruzione istituzionale dei poteri del giudice in merito.
Infatti, se è vero che, in sede di ottemperanza, il giudice amministrativo può sostituire l’amministrazione anche nelle scelte che toccano il merito dell’azione, è anche vero che il giudizio di ottemperanza altro non è che il portato esecutivo del giudizio di cognizione. Quindi, se è pacifico che il giudice dell’ottemperanza è vincolato dal contenuto della sentenza da eseguire, è del pari evidente che la sentenza di cognizione ottemperanda è a sua volta legata ai limiti dati dalla domanda proposta dalla parte in sede di ricorso introduttivo. Si tratta cioè di un rapporto di successiva delimitazione e progressiva messa a fuoco, dal quale non si può prescindere se non dimenticando le interconnessioni tra i vari momenti del processo.
Trasponendo tali lineari considerazioni nel caso concreto dell’esecuzione di sentenza di annullamento di una procedura espropriativa, si è di fronte ad una vicenda così riassumibile: la domanda posta è una domanda demolitoria degli atti espropriativi; l’accoglimento della domanda, cui consegue l’annullamento della procedura e il contestuale riconoscimento della mancata acquisizione alla mano pubblica della proprietà, comporta l’obbligo della restituzione del bene illegittimamente sottratto; stante l’inerzia dell’amministrazione, il giudice dell’ottemperanza deve muoversi con i poteri di merito e nell’ambito dei limiti della domanda proposta e accolta.
Appare quindi arduo immaginare che, di fronte alla domanda introdotta in giudizio e ivi considerata fondata, ossia alla domanda di declaratoria d’illegittimità della procedura espropriativa, il giudice dell’ottemperanza, chiamato dal ricorrente insoddisfatto a conseguire quanto ha diritto, decida nel senso di ordinare all’amministrazione di provvedere ex art. 42 bis. Si assisterebbe alla singolare situazione per cui lo stesso giudice, che in sede di cognizione ha ritenuto che il bene dovesse essere restituito al legittimo proprietario, in sede di ottemperanza ordinerà invece all’amministrazione di impossessarsi dello stesso bene, anzi addirittura la sostituirà, mandando un suo ausiliario a mettere in atto tale proposito.
Un tale singolare esito, della cui coerenza con l’art. 24 della Costituzione è lecito dubitare, può essere invece superato se si tiene presente che l’unico obbligo scaturente dalla sentenza è quello di restituzione del bene, mentre le altre opzioni (come esaurientemente indicate nella citata sentenza n. 4969 del 2 settembre 2011) sono rimesse alle scelte dell’amministrazione, visto che si pongono su un piano diverso da quello dell’esecuzione del giudicato.
La Sezione non ignora che, a seguito delle modifiche intervenute in tema di quantificazione delle indennità e dei risarcimenti spettanti a seguito di procedure espropriative illegittime, gli interessi economici delle parti possano seguire percorsi diversi da quelli immaginati originariamente dal legislatore, tanto da far ritenere vantaggioso per gli espropriati il ricorso alla procedura di cui all’art. 42 bis, ma proprio la maggiore incidenza economica di tale provvedimento impone che sia lasciata all’amministrazione la ponderazione comparativa delle alternative disponibili.
Conclusivamente, correttamente il primo giudice ha ritenuto non applicabile l’art. 42 bis e, in relazione alle singole voci di danno, non ha considerato il danno non patrimoniale, considerandolo voce esterna al contenuto del giudicato già in sé risarcitorio. Si noti peraltro che le parti appellanti, fondando integralmente la propria pretesa sulla quantificazione forfetaria di cui all’inapplicabile art. 42 bis del d.P.R. n. 380 del 2001, non ha comunque allegato alcun elemento a sostegno della sua pretesa.
Conclusivamente, anche il secondo motivo di diritto deve essere respinto.
7. – Gli appelli riuniti non possono quindi essere accolti, in quanto il primo, iscritto al n. 1108 del 2011, va dichiarato improcedibile e il secondo, iscritto al n. 7969 del 2013, va respinto, unitamente all’appello incidentale proposto nella stessa sede dal Comune di Bari. Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. Sussistono peraltro motivi per compensare integralmente tra le parti le spese processuali, determinati dalla particolarità della questione decisa.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunziando in merito al ricorso in epigrafe, così provvede:
1. Dispone la riunione dei ricorsi n. 1108 del 2011 e n. 7969 del 2013;
2. Dichiara improcedibile il ricorso n. 7969 del 2013 per sopravvenuta carenza di interesse;
3. Respinge l’appello n. 1108 del 2011;
4. Compensa integralmente tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa
Leave a Reply