Consiglio di Stato
sezione III
sentenza 3 luglio 2015, n. 3314
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL CONSIGLIO DI STATO
IN SEDE GIURISDIZIONALE
SEZIONE TERZA
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5442 del 2012, proposto da:
Ministero dell’Interno, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via (…);
contro
Gi.Ia., rappresentato e difeso dagli avv. Lu.La., Gi.Ce., con domicilio eletto presso Lu.La. in Roma, Via (…);
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LOMBARDIA – MILANO: SEZIONE III n. 01244/2012, resa tra le parti, concernente recupero forzoso somme corrisposte
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Gi.Ia.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 2 luglio 2015 il Pres. Pier Giorgio Lignani e uditi per le parti l’avvocato La. e l’avvocato dello Stato Ag.So.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. L’appellato, già ricorrente in primo grado, è dipendente della Polizia di Stato. Nel 2005, mentre era in servizio presso la Questura di Milano, ha avuto occasione di svolgere le funzioni di difensore di un collega assoggettato a procedimento disciplinare presso la Questura di Cosenza.
Il presente contenzioso – giunto ora in appello dopo una sentenza del T.A.R. Lombardia favorevole all’interessato – si concentra sulla questione se un dipendente della P.S., che funge da difensore di un collega in un procedimento disciplinare, abbia diritto al trattamento di missione (a carico dell’amministrazione) per le eventuali trasferte inerenti a quella attività.
Nel caso in esame, in un primo tempo l’amministrazione ha aderito alla richiesta dell’interessato corrispondendogli quanto spettante a titolo di missione. Successivamente l’amministrazione ha ritenuto che invece il trattamento di missione non sia dovuto in casi del genere; e, mediante trattenute sullo stipendio, ha recuperato quanto aveva corrisposto all’interessato.
E’ seguito il ricorso dell’agente al T.A.R. Lombardia, che ha accolto il ricorso condannando l’amministrazione a rimborsare l’interessato. L’amministrazione ha proposto appello davanti a questo Consiglio.
2. L’appello è fondato.
Nel procedimento disciplinare del personale della Polizia di Stato (d.P.R. n. 737/1981) l’intervento di un difensore non è obbligatorio, anzi non è neppure previsto, salvo che relativamente alla discussione davanti al consiglio (provinciale o centrale) di disciplina. Tale discussione peraltro ha luogo solo nei procedimenti concernenti le mancanze più gravi e rappresenta solo una fase intermedia del procedimento. Ma anche in questa ipotesi la presenza di un difensore è facoltativa, a scelta dell’inquisito. Così l’art. 20, comma secondo, del citato d.P.R.: “Il segretario… notifica per iscritto all’inquisito che dovrà presentarsi al consiglio di disciplina….. avvertendolo che ha facoltà…. di farsi assistere da un difensore appartenente all’Amministrazione della pubblica sicurezza…”.
Il comma successivo dispone: “Il difensore, se lo richiede, ha facoltà di prendere visione degli atti prima della data della riunione e di chiederne copia; lo stesso non può intervenire alle sedute degli organi collegiali senza l’assenso dell’interessato”. Ulteriori passi dello stesso articolo menzionano la presenza del difensore ed il suo intervento nella discussione orale, sempre con espressioni che ne sottolineano il carattere facoltativo, a discrezione dell’inquisito.
Si può aggiungere che queste disposizioni hanno superato il vaglio della Corte costituzionale, davanti alla quale era stato denunciato come una lesione del diritto di difesa il fatto che all’inquisito venga concesso di farsi difendere solo da un altro appartenente alla P.S., e non da un avvocato.
In proposito, la Corte costituzionale ha osservato: “Premesso che il diritto di difesa non ha una applicazione piena, nell’ambito dei procedimenti amministrativi, non può essere considerata manifestamente irragionevole la decisione del legislatore di consentire che l’accusato ricorra ad un difensore, ma di limitare, in considerazione della funzione svolta (tutela dell’ordine pubblico), la sua scelta ai dipendenti della stessa amministrazione, sicché la mancata previsione, nella norma censurata, della possibilità di nominare quale difensore un avvocato – anche se il legislatore potrebbe nella sua discrezionalità prevederla seguendo un modello di più elevata garanzia – non viola né il diritto di difesa, né il principio di ragionevolezza, considerato che la stessa norma consente all’inquisito di partecipare al procedimento e di difendere le proprie ragioni”.
3. Ciò posto, il Collegio osserva che dall’insieme di queste disposizioni emerge che l’attività del difensore, nel procedimento disciplinare, risponde solamente all’interesse dell’inquisito, tanto è vero che questi può liberamente decidere se avvalersene o meno.
Allo stesso modo, è da ritenere che il collega richiesto dall’inquisito di fungere da difensore sia libero di accettare o meno l’incarico.
Non si tratta dunque di una sorta di munus publicum, ossia di una funzione istituzionale di garanzia nell’interesse pubblico alla corretta e imparziale applicazione della legge, come si potrebbe forse dire se – analogamente al processo penale – la presenza di un difensore fosse obbligatoria, a pena di nullità del procedimento, anche contro la volontà dell’inquisito.
Nondimeno, una volta che la normativa consente all’inquisito di farsi assistere da un difensore scelto liberamente fra il personale della stessa amministrazione, è intuitivo che l’amministrazione non può ostacolare il difensore nell’esercizio delle sue funzioni e quindi deve accordargli i permessi necessari per assentarsi dal servizio nel momento in cui deve esplicare la sua attività. Si potrà discutere se egli debba essere considerato in servizio oppure assente giustificato con obbligo di recupero dell’assenza, ma non è questa la materia del contendere nel presente giudizio. In nessun caso i diritti del difensore designato (e correlativamente quelli dell’inquisito che lo ha designato) possono giungere sino al punto di mettere a carico dell’amministrazione, sotto il titolo di trattamento di missione, il costo della trasferta eventualmente necessaria.
4. In conclusione, l’appello dell’amministrazione deve essere accolto. Le spese dei due gradi possono essere compensate, per ragioni di equità.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) accoglie l’appello e in riforma della sentenza appellata rigetta il ricorso di primo grado. Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 luglio 2015 con l’intervento dei magistrati:
Pier Giorgio Lignani – Presidente, Estensore
Bruno Rosario Polito – Consigliere
Dante D’Alessio – Consigliere
Massimiliano Noccelli – Consigliere
Alessandro Palanza – Consigliere
Depositata in Segreteria il 3 luglio 2015.
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