Consiglio di Stato, sezione adunanza plenaria, Sentenza 25 giugno 2018, n. 9.
La massima estrapolata:
La piena applicazione del principio di primauté del diritto eurounitario comporta che, laddove una norma interna (anche di rango regolamentare) risulti in contrasto con tale diritto, e laddove non risulti possibile un’interpretazione di carattere conformativo, resti comunque preclusa al Giudice nazionale la possibilità di fare applicazione di tale norma interna.
Sentenza 25 giugno 2018, n. 9
Data udienza 18 aprile 2018
EPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Adunanza Plenaria
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2 di A.P. del 2018, proposto dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12
contro
Gi. Pa. Ma. St., rappresentata e difesa dagli avvocati Vi. Ri. Di. Me. e Fr. Br., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Vi. Ri. Di. Me. in Roma, piazza (…)
nei confronti
Pe. As. e Ma. Ba., rappresentati e difesi dagli avvocati Lu. Ra. Pe. e Cl. Te., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Lu. Ra. Pe. in Roma, via (…)
per la riforma della sentenza del T.A.R. del Lazio, Sezione II-quater, n. 6171/2017
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Pe. As., di Ma. Ba. e di Gi. Pa. Ma. St.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 18 aprile 2018 il Cons. Claudio Contessa e uditi per le parti l’avvocato dello Stato De. Ga., nonché gli avvocati Br., Pe., e Te.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue
FATTO
Con i provvedimenti impugnati dinanzi al T.A.R. del Lazio con il ricorso n. 1117/2016, il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (d’ora innanzi: ‘il Ministero appellanté o ‘il MIBACT’) ha conferito ai controinteressati in primo grado gli incarichi di «direttore del Palazzo Ducale di Mantova» (Pe. As.) e di «direttore della Galleria Estense di Modena» (Ma. Ba.).
L’odierna appellata, Gi. Pa. Ma. St., ha partecipato a entrambe le selezioni per il conferimento di tali incarichi ed è stata inclusa, con un punteggio di 77 punti su 100, nei corrispondenti elenchi dei dieci candidati ammessi al colloquio, ma non è stata inserita nelle due terne successivamente determinate per procedere alle corrispondenti nomine, che sono state attribuite invece ai controinteressati in primo grado.
Con ricorso proposto dinanzi al T.A.R. del Lazio e recante il n. 1117 del 2016 l’odierna appellata ha impugnato tutti gli atti del procedimento, chiedendone l’annullamento.
Il Tribunale amministrativo, con la sentenza n. 6171 del 2016, ha accolto alcune delle censure proposte ed ha annullato gli atti impugnati.
In particolare, il primo Giudice – dopo aver dichiarato sussistente la giurisdizione del Giudice amministrativo – ha dichiarato l’illegittimità degli atti impugnati per le ragioni qui sinteticamente richiamate:
a) non sarebbe stata congruamente motivata l’assegnazione dei punteggi;
b) i colloqui finali si sarebbero svolti ‘a porte chiusé, in violazione del principio per il quale le prove orali di un concorso devono essere pubbliche;
c) quanto alla nomina relativa al «Palazzo Ducale di Mantova», non si sarebbe potuto inserire nella terna il signor Pe. As. perché non in possesso della cittadinanza italiana.
Con l’appello principale il MIBACT ha impugnato la sentenza del T.A.R. n. 6171 del 2016, chiedendo che, in sua riforma, sia respinto il ricorso di primo grado.
L’atto di appello del Ministero è stato affidato a quattro motivi.
Si è costituita in giudizio l’appellata Gi. Pa. Ma. St. la quale ha concluso nel senso della reiezione dell’appello principale e ha proposto un appello incidentale, con cui ha riproposto quattro motivi, già formulati in primo grado e respinti dal T.A.R.
Con la “sentenza in parte definitiva e in parte parziale, con contestuale ordinanza di trasmissione all’Adunanza plenaria” n. 677 del 2 febbraio 2018 la Sesta Sezione di questo Consiglio di Stato:
a) ha respinto il primo motivo d’appello e ha conseguentemente riaffermato la sussistenza della giurisdizione amministrativa;
b) in parziale riforma della sentenza impugnata, ha accolto il secondo ed il terzo motivo dell’appello principale e, previa reiezione delle censure dell’appellante incidentale, ha respinto la domanda di primo grado, proposta per l’annullamento degli atti che hanno conferito l’incarico di direttore della «Galleria Estense di Modena», con compensazione delle spese dei due gradi del giudizio;
c) in parziale riforma della sentenza impugnata, ha accolto il secondo ed il terzo motivo dell’appello principale e ha respinto le censure dell’appellante incidentale, con riferimento alla domanda di primo grado, proposta per l’annullamento degli atti che hanno conferito l’incarico di direttore del «Palazzo Ducale di Mantova»;
d) sempre con riferimento a tale incarico, ha rimesso alla cognizione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99 del codice del processo amministrativo, le ulteriori questioni processuali e sostanziali (richiamate al paragrafo 66 della decisione) conseguenti all’esame del quarto motivo dell’appello del Ministero, unitamente a quelle concernenti le conseguenze dell’eventuale reiezione del medesimo quarto motivo e sul rilievo del ius superveniens rappresentato dal comma 7-bis dell’articolo 22 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50 (per come inserito dalla relativa legge di conversione);
e) ha rimesso all’Adunanza Plenaria la valutazione circa la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 99, comma 4, del codice del processo amministrativo.
Per quanto riguarda più in particolare le questioni rimesse all’Adunanza Plenaria ai sensi dell’articolo 99 cod. proc. amm. si osserva quanto segue.
In primo luogo la Sezione remittente ha chiesto che, previo esame della portata del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (specie in sede d’appello), venga valutato “se si possa accogliere in questa sede un motivo della Amministrazione statale, di per sé infondato (perché ha dato una lettura di una disposizione regolamentare, opposta a quella corretta), quando con esso non sia stata prospettata alcuna censura contro un regolamento, mentre poi nel corso del giudizio di secondo grado l’Amministrazione chieda la riforma della sentenza impugnata sulla base di una ratio decidendi diversa e di una impostazione opposta (secondo cui sarebbe illegittima e disapplicabile la norma regolamentare, all’opposto inizialmente invocata con l’atto d’appello)”.
In secondo luogo la Sezione ha chiesto a questa Adunanza Plenaria di chiarire se sussistano o meno i presupposti per disapplicare in parte qua il d.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174 (per la parte in cui riserva ai soli cittadini italiani i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo) e il d.P.R. 9 maggio 1994 n. 487 (il quale ha espressamente ribadito e richiamato le limitazioni di cui al d.P.C.M. 174, cit.), previa valutazione di coerenza della richiamata normativa secondaria nazionale con gli artt. 51 e 54 della Costituzione e con la normativa eurounitaria.
In terzo luogo la Sezione ha chiesto all’Adunanza Plenaria di chiarire se, in presenza di una norma di apparente interpretazione autentica, quale l’articolo 22, comma 7-bis del decreto-legge 24 aprile 2017 – per come introdotto dalla relativa legge di conversione – la quale, con effetti retroattivi, verrebbe ad incidere su giudizio in corso, ponendosi la stessa in potenziale contrasto con l’art. 117 Cost., con gli articoli 6 e 13 della CEDU e con la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte EDU, sia possibile definire il giudizio non applicando la norma medesima, ovvero se sia necessario sollevare sul punto una questione di legittimità costituzionale.
Le parti costituite hanno ritualmente prodotto memorie con cui hanno preso posizione sulle questioni demandate al giudizio di questa Adunanza plenaria.
Alla pubblica udienza del 26 aprile 2018, uditi i difensori delle parti costituite, il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
1. Giunge alla decisione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato il ricorso in appello proposto dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (d’ora in seguito anche ‘il Ministero appellanté o ‘il MIBACT’) avverso la sentenza del T.A.R. del Lazio con cui, in parziale accoglimento del ricorso proposto da una candidata alla procedura per la copertura di posti di direttore del Palazzo Ducale di Mantova e della Galleria Estense di Modena, sono stati annullati gli atti conclusivi di tali procedure (e, in particolare, i decreti di nomina adottati nei confronti dei candidati Ma. Ba. e Pe. As.).
2. In primo luogo, e al fine di delimitare correttamente il thema decidendum, occorre osservare che con la “sentenza in parte definitiva e in parte parziale, con contestuale ordinanza di trasmissione all’Adunanza plenaria” n. 677 del 2 febbraio 2018, la Sesta Sezione di questo Consiglio di Stato ha definito in toto il giudizio per quanto riguarda l’assegnazione del posto di direttore della Galleria Estense di Modena e, in riforma della sentenza appellata, ha dichiarato l’infondatezza dei motivi di ricorso proposti avverso la nomina già disposta in favore della candidata Ma. Ba., che risulta conseguentemente confermata.
Il giudizio prosegue invece per ciò che concerne l’incarico di direttore del Palazzo Ducale di Mantova in quanto i quesiti che saranno esaminati nel prosieguo della presente decisione risultano riferiti unicamente alla relativa procedura.
Anche in relazione a tale parte della res controversa, comunque, la sentenza/ordinanza n. 677 del 2018 assume un carattere decisorio definitivo in ordine a taluni aspetti.
In particolare, con la decisione dinanzi richiamata, la Sesta Sezione di questo Consiglio di Stato:
i) ha esaminato e respinto l’istanza di sospensione del giudizio formulata dal Ministero appellante ai sensi dell’articolo 295 cod. proc. civ. in relazione al fatto che, in un diverso giudizio avente ad oggetto la nomina di altro direttore di museo ai sensi dell’articolo 14 del decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83, è stato proposto un regolamento preventivo di giurisdizione dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione;
ii) ha esaminato e respinto il primo motivo dell’appello principale, con il quale il MIBACT ha dedotto che non sussisterebbe la giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della controversia. Sotto tale aspetto il Collegio ha ritenuto applicabile alla procedura per cui è causa il comma 4 dell’articolo 63 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, secondo cui “restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni”;
iii) ha esaminato e respinto (anche se sulla base di argomenti diversi da quelli contenuti nella sentenza appellata) il primo motivo dell’appello incidentale con cui la ricorrente in primo grado, nel riproporre una censura già articolata dinanzi al T.A.R., ha lamentato la violazione delle disposizioni per le quali, prima di affidare un incarico dirigenziale a soggetti esterni, il Ministero avrebbe dovuto verificare se all’interno dell’amministrazione vi fossero “risorse umane in possesso dei requisiti professionali richiesti”;
iv) ha accolto il motivo con cui il MIBACT aveva chiesto che, in riforma della sentenza di primo grado, fossero dichiarate infondate le doglianze relative alle modalità di attribuzione dei punteggi ai candidati. In particolare, la Sezione remittente ha escluso che le operazioni di valutazione palesassero i lamentati profili di violazione di legge ed eccesso di potere;
v) ha esaminato e respinto il secondo, il terzo e il quarto dei motivi articolati con l’appello incidentale della ricorrente vittoriosa in primo grado (la quale aveva contestato sotto ulteriori e diversi profili l’attribuzione dei punteggi da parte della Commissione e circa le modalità di svolgimento dei colloqui);
vi) ha accolto il motivo di appello con cui il MIBACT aveva chiesto che, in riforma della sentenza di primo grado, fossero dichiarate infondate le doglianze relative alle modalità di svolgimento dei colloqui dei candidati (con speciale riguardo al rispetto del principio di pubblicità degli stessi e all’asserito svolgimento ‘a porte chiusé e alle modalità comunicative utilizzate nel corso dei colloqui).
In relazione ai profili dinanzi richiamati da i) a vi) la decisione n. 677 del 2018 assume quindi un carattere definitivo.
3. Resta invece da definire l’ultimo motivo di appello con cui il MIBACT ha impugnato la decisione del T.A.R. il quale, in accoglimento della censura formulata dalla ricorrente Gi. Pa. Ma. St., ha stabilito l’illegittimità della scelta di ammettere alla procedura candidati non aventi la cittadinanza italiana, ma quella di altro Stato dell’Unione europea (come il vincitore della selezione relativa al Palazzo Ducale di Mantova Pe. As., di nazionalità austriaca).
4. Con i paragrafi 50 e 51 della sentenza/ordinanza n. 677/2018 la Sezione remittente ha sottoposto a questa Adunanza plenaria una prima questione (di cui ha sottolineato il carattere preliminare ai fini della decisione).
In particolare, dopo aver richiamato la sentenza della Sesta Sezione 24 luglio 2017, n. 3666 (con la quale è stata disposta la disapplicazione dell’articolo 1, comma 1 del d.P.C.M. 174 del 1994 per contrasto con le previsioni di cui all’articolo 45 del TFUE) e dopo aver richiamato le ipotesi al ricorrere delle quali la giurisprudenza ha ammesso la disapplicazione regolamentare, la Sesta Sezione ha sottolineato le peculiarità che distinguerebbero la presente vicenda rispetto a quella definita con la citata sentenza n. 3666.
In particolare (ad avviso della Sezione remittente):
– mentre nel giudizio definito con la sentenza da ultimo richiamata il Giudice di appello ha potuto disporre la disapplicazione della disposizione regolamentare in contrasto con il diritto UE per essere stato proposto uno specifico motivo di appello in tal senso,
– al contrario, nel presente giudizio non sarebbe possibile procedere a una siffatta disapplicazione ex officio per non essere stato formulato uno specifico motivo di appello volto a lamentare l’illegittimità de iure communitario delle richiamate disposizioni regolamentari e a chiederne conseguentemente la disapplicazione. Oltretutto, l’eventuale rilievo ex officio di tale forma di illegittimità (e la conseguente disapplicazione regolamentare di carattere officioso) si porrebbe in contrasto con il principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato di cui all’art. 112 cod. proc. civ.
La Sezione remittente ha osservato, in particolare:
– che “con il quarto motivo dell’appello principale il Ministero non ha chiesto che siano disapplicati in parte qua l’art. 1, comma 1 del d.P.C.M. n. 172 del 1994 e l’art. 2, comma 1 del d.P.R. n. 487 del 1994” (pag. 55);
– che “il Ministero con quarto motivo di appello non ha prospettato alcuna illegittimità delle disposizioni regolamentari statali e non ne ha nemmeno chiesto la disapplicazione” (ivi);
– che “con il quarto motivo di appello il Ministero ha chiesto che il motivo di primo grado dovrebbe essere respinto, poiché l’art. 1, comma 1, lettera a) del d.P.C.M. n. 174 del 1994 (…) sarebbe stato legittimamente applicato con gli atti impugnati in primo grado, tanto che ha chiesto che in questa sede il regolamento dovrebbe essere interpretato in senso opposto a quello fatto proprio dal TAR” (pag. 56);
– che “col quarto motivo il Ministero non ha prospettato l’illegittimità delle disposizioni regolamentari del 1994 (di cui ha chiesto la disapplicazione solo nel corso della discussione finale, col richiamo al decisum della sentenza n. 3666 del 2017) e non ha dunque nemmeno indicato – nell’atto di appello – i possibili vizi che si dovrebbe ravvisare in questa sede” (ivi).
4.1. Il Collegio osserva al riguardo che i presupposti individuati nella sentenza/ordinanza n. 677/2018 non trovano puntuale riscontro in atti.
Risulta invero che, in sede di articolazione dell’appello, il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo ha – contrariamente a quanto dedotto nell’ambito della richiamata sentenza/ordinanza – individuato specifici motivi di illegittimità a carico delle previsioni del d.P.C.M. 174 del 1994 (in particolare, per violazione del diritto eurounitario) e ne ha contestualmente – ed espressamente – chiesto la disapplicazione.
In particolare, nell’articolare il quarto motivo di ricorso, il Ministero appellante ha richiamato in modo espresso il principio della disapplicazione dell’articolo 1 del d.P.C.M. 174, cit., laddove interpretato nel senso di impedire in concreto la partecipazione alle procedure selettive per cui è causa di soggetti aventi la cittadinanza di altri Paesi dell’Unione europea.
Ed infatti, nell’articolare il richiamato motivo di appello il Ministero
– in primo luogo ha invocato un’interpretazione restrittiva e comunque conforme ai dettami dell’ordinamento UE delle norme nazionali in tema di riserva di impieghi ai cittadini italiani (si tratta, al livello primario, dell’articolo 37 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e dell’articolo 38 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n 165 e, al livello regolamentare, dell’articolo 1, comma 1 del d.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174 e dell’articolo 2, comma 1 del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487);
– in secondo luogo (e per il caso in cui le richiamate disposizioni fossero da intendere nel senso di impedire in radice la partecipazione alle richiamate selezioni da parte di cittadini di altri Stati membri) ha espressamente invocato la disapplicazione delle medesime disposizioni.
In particolare:
– a pagina 24 del ricorso in appello il Ministero ha sottolineato l’efficacia diretta delle disposizioni del TFUE – e della pertinente giurisprudenza della Corte di giustizia – in tema di libera circolazione dei cittadini UE anche in relazione all’accesso agli impieghi pubblici (salve le eccezioni di cui al paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE, da interpretare comunque in modo restrittivo), sottolineando “[la] conseguente necessità di interpretare restrittivamente, quando non di disapplicare, le disposizioni nazionali in materia di riserva di accesso agli impieghi pubblici ai cittadini italiani (…)”;
– a pagina 26 del medesimo ricorso, dopo aver richiamato i restrittivi orientamenti della giurisprudenza della Corte di giustizia circa l’ambito applicativo del richiamato paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE, il Ministero appellante ha sottolineato l’obbligo di assumere “un comportamento conformativo, non solo [per la] P.A., ma anche [per i] giudici, anche in termini di disapplicazione delle norme nazionali con i principi affermati dalla Corte (…)”;
– a pagina 30 del ricorso il Ministero appellante ha conclusivamente osservato (dopo aver richiamato la giurisprudenza della Corte di giustizia relativa all’ambito di applicazione dell’articolo 45, cit.) che “ogni eventuale disposizione nazionale che limitasse ai cittadini nazionali la carica di direttore di museo dovrebbe essere interpretata nel senso che essa si riferisce anche ai cittadini comunitari e, ove ciò non sia possibile, deve essere disapplicata”.
4.2. In base a quanto appena esposto non si ravvisano nel caso in esame i presupposti per esaminare il primo ordine di ragioni sottese all’ordinanza di rimessione (più ampiamente richiamate in narrativa), difettando le condizioni per esaminare le evocate questioni di diritto.
In particolare:
– non rileva ai fini della definizione del giudizio la questione della possibilità di rilevare ex officio in grado di appello il contrasto fra una disposizione nazionale e una disposizione eurounitaria e di disporre conseguentemente la disapplicazione officiosa della prima, in quanto tale questione era stata in effetti concretamente dedotta nell’atto di appello (e non richiede quindi alcun rilievo officioso);
– non risulta altresì violato nel caso in esame il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato di cui all’articolo 112 del cod. proc. civ. (applicabile anche nel rito amministrativo grazie al rinvio esterno di cui all’articolo 39 del cod. proc. amm.). Ciò, in quanto risultava in effetti articolata nell’atto di appello una domanda di disapplicazione delle disposizioni nazionali in tema di riserva di impiego in favore dei cittadini nazionali, laddove risultanti in contrasto con i pertinenti principi e previsioni del diritto UE.
4.3. Fermo restando il carattere dirimente ai fini del decidere di quanto rilevato sub 4.1 e 4.2, il Collegio osserva che, almeno per il caso – che qui rileva – di regolamenti in contrasto con il diritto eurounitario, non risulta predicabile alcuna preclusione per il Giudice amministrativo nel rilevare la non applicabilità della disposizione in contrasto con il diritto UE.
E’ noto al riguardo che la giurisprudenza costituzionale ha ammesso la disapplicazione ex officio della norma interna (anche di fonte regolamentare) in contrasto con il diritto UE, conformemente – del resto – a consolidati orientamenti della Corte di giustizia dell’UE.
Ne consegue che il problema dei limiti alla disapplicazione officiosa del regolamento illegittimo risulti al più confinato alle ipotesi – che qui non ricorrono – in cui il profilo di illegittimità derivi da profili diversi dal contrasto con il diritto UE.
In particolare, con la sentenza 10 novembre 1994, n. 384 la Corte costituzionale ha chiarito che “[le] norme contrarie al diritto comunitario (…) dovrebbero comunque essere disapplicate dai Giudici e dalla P.A.”.
Con la successiva sentenza 7 novembre 1995, n. 482 la Corte costituzionale ha inoltre stabilito che le norme comunitarie muovono su un piano diverso da quello proprio delle norme nazionali (anche di rango regolamentare). Conseguentemente, “il rapporto tra le due fonti è di competenza e non di gerarchia o di successione nel tempo, con l’effetto che la norma nazionale diviene non applicabile se e nei limiti in cui contrasti con le disposizioni comunitarie precedenti o sopravvenute (sentenze nn. 389 del 1989 e 170 del 1984)”.
In definitiva, la piena applicazione del principio di primauté del diritto eurounitario comporta che, laddove una norma interna (anche di rango regolamentare) risulti in contrasto con tale diritto, e laddove non risulti possibile un’interpretazione di carattere conformativo, resti comunque preclusa al Giudice nazionale la possibilità di fare applicazione di tale norma interna .
I princìpi appena richiamati risultano tanto più pregnanti nelle ipotesi in cui – come nel caso in esame – non solo il Giudice nazionale debba astenersi dal dare applicazione nell’ordinamento interno a una disposizione in contrasto con il diritto UE, ma per di più possa (e anzi, debba) riconoscere diretta applicazione a una disposizione chiara e di fatto autoapplicativa quale il paragrafo 3 dell’articolo 45 del TFUE (il quale, come si avrà modo di rilevare, limita la possibilità di derogare al generale principio della libertà di circolazione dei lavoratori ad ipotesi nel complesso residuali).
5. Occorre a questo punto esaminare i numerosi argomenti (esposti ai paragrafi da 51 a 59 dell’ordinanza di rimessione) con cui la Sezione remittente osserva che, in disparte la questione della disapplicabilità ex officio della disposizione nazionale contrastante con il diritto UE, non sussisterebbero comunque nel caso in esame i presupposti e le condizioni per procedere a tale disapplicazione, non emergendo alcun contrasto fra le previsioni di cui all’articolo 45 del TFUE e l’ampia riserva di nazionalità fissata dall’articolo 1 del d.P.C.M. 174 del 1994 (e, con esso, dall’articolo 2, comma 1 del d.P.R. 487 del 1994).
Ai fini del più compiuto esame della questione:
– dapprima si procederà a richiamare le pertinenti disposizioni del diritto eurounitario e nazionale;
– in seguito si procederà a richiamare i pertinenti orientamenti della Corte di giustizia dell’UE e dei Giudici nazionali;
– successivamente si procederà a individuare le ragioni in base alle quali (secondo la tesi della Sezione remittente) sarebbe possibile escludere un contrasto fra la riserva di nazionalità – per come sancita dal richiamato d.P.C.M. 174 del 1994 – e il principio di libera circolazione dei lavoratori di cui all’articolo 45 del TFUE;
– infine, si esamineranno le ragioni per cui la tesi in parola non può essere condivisa.
5.1.1. Al livello costituzionale, vengono qui in rilievo (e sono stati evocati nel corso del giudizio):
– l’art. 51, secondo cui – “I. Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.
II. La legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica”;
– l’articolo 54, secondo cui – “I. Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi;
II. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle, con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.
5.1.2. Al livello eurounitario viene in rilievo l’art. 45 del TFUE il quale:
– al paragrafo 1 stabilisce che “la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione è assicurata”;
– al paragrafo 2 stabilisce che il principio di libera circolazione comporta la rimozione di qualunque discriminazione idonea a comprometterne l’affermazione;
– al paragrafo 3 individua i diritti connessi all’esercizio della libera circolazione dei lavoratori (e “fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica”);
– al paragrafo 4 (che assume un rilievo del tutto centrale ai fini della presente decisione) stabilisce che “le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione”.
5.1.3. Al livello normativo (primario e regolamentare) statale vengono in rilievo:
– l’articolo 37, commi 1 e 2 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (recante “Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della l. 23 ottobre 1992, n. 421”), secondo cui:
“1. I cittadini degli Stati membri dell’Unione europea possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale.
2. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, ai sensi dell’articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono individuati i posti e le funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana, nonché i requisiti indispensabili all’accesso dei cittadini di cui al comma 1”.
Va qui osservato che le previsioni in parola sono state sostanzialmente riprodotte (e senza modifiche di rilievo) dall’articolo 38 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”);
– l’articolo 1, comma 1, lettere a) e b) del d.P.C.M. 7 febbraio 1994, n 174 (“Regolamento recante norme sull’accesso dei cittadini degli Stati membri dell’Unione europea ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche”) il quale, nel dare attuazione alle previsioni di cui al richiamato articolo 37 ha stabilito che:
“I posti delle amministrazioni pubbliche per l’accesso ai quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana sono i seguenti:
a) i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, individuati ai sensi dell’art. 6 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, nonché i posti dei corrispondenti livelli delle altre pubbliche amministrazioni”;
b)i posti con funzioni di vertice amministrativo delle strutture periferiche delle amministrazioni pubbliche dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, degli enti pubblici non economici, delle province e dei comuni nonché delle regioni e della Banca d’Italia”;
– l’articolo 2, comma 1 del d.P.R. 4 maggio 1994, n. 487 (“Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi”) il quale, nel richiamare e confermare – ai fini che qui rilevano – le previsioni di cui al d.P.C.M. 174 del 1994, ha stabilito che:
“1. Possono accedere agli impieghi civili delle pubbliche amministrazioni i soggetti che posseggono i seguenti requisiti generali:
1) cittadinanza italiana. Tale requisito non è richiesto per i soggetti appartenenti alla Unione europea, fatte salve le eccezioni di cui al D.P.C.M. 7 febbraio 1994, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 15 febbraio 1994, serie generale n. 61 (…)”).
5.2. La Corte di giustizia ha più volte precisato i confini e i limiti entro i quali gli Stati membri possono applicare la c.d. ‘eccezione di nazionalità’ di cui al richiamato paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE.
5.2.1. In via generale va osservato che, trattandosi di eccezione rispetto a una delle libertà fondamentali del Trattato, la giurisprudenza della Corte ha serbato sul punto un atteggiamento di estremo rigore.
5.2.1.1. In particolare è stato stabilito che le eventuali misure nazionali volte ad affermare la c.d. ‘riserva di nazionalità’ devono essere limitate a “quanto strettamente necessario” a salvaguardare gli interessi sottesi all’adozione di tale misura (in tal senso: CGUE, sent. 3 luglio 1986 in causa C-66/85, Lawrie Blum, nonché – più di recente – CGUE, sent. 10 settembre 2014 in causa C-270/13 – Iraklis Haralambidis).
5.2.1.2. Un consolidato orientamento della Corte di giustizia ha altresì chiarito che gli Stati membri possono legittimamente invocare la riserva di nazionalità per i soli impieghi nell’amministrazione pubblica “che hanno un rapporto con attività specifiche della pubblica amministrazione in quanto incaricata dell’esercizio dei pubblici poteri e responsabile della tutela degli interessi generali dello Stato (…)” (in tal senso: CGUE, sent. 26 maggio 1982 in causa C-149/79 – Commissione c/ Regno del Belgio; id., sentenza 27 novembre 1991 in causa C-4/91 – Bleis c/ Ministère de l’Éducation Nationale; id., sentenza 2 luglio 1996 in causa C-290/94 – Commissione c/ Repubblica Ellenica).
I criteri in questione sono stati richiamati – con valenza evidentemente ricognitiva – dalla Commissione europea attraverso la Comunicazione interpretativa dal titolo “Libera circolazione dei lavoratori – realizzarne pienamente i vantaggi e le potenzialità” (Documento COM(2002) 694 def. dell’11 dicembre 2002).
Con tale documento l’Esecutivo comunitario – attraverso puntuali richiami alla giurisprudenza della Corte di giustizia – ha ricordato che “gli Stati membri sono autorizzati a riservare gli impieghi nella pubblica amministrazione ai loro cittadini solo se questi impieghi sono direttamente collegati ad attività specifiche della pubblica amministrazione, vale a dire quando questa sia investita dell’esercizio dell’autorità pubblica e della responsabilità di salvaguardare gli interessi generali dello Stato (…)”.
La stessa Commissione europea, con la Comunicazione dal titolo “Libera circolazione di lavoratori e accesso agli impieghi nella pubblica amministrazione degli Stati membri: l’azione della Commissione in materia di applicazione dell’articolo 48, paragrafo 4 del trattato CEE” (Documento 88/C 72/02 in GUCE C72 del 18 marzo 1988), ha chiarito che possono essere ricondotti alla ‘riserva di nazionalità’ “gli impieghi dipendenti dai ministeri statali, dai governi regionali, dalle collettività territoriali e da altri enti assimilati e infine dalle banche centrali, quando si tratti del personale (funzionari e altri) che eserciti le attività coordinate intorno ad un potere pubblico giuridico dello Stato o di un’altra persona morale di diritto pubblico, come l’elaborazione degli atti giuridici, la loro esecuzione, il controllo della loro applicazione e la tutela degli organi dipendenti”.
5.2.2. La Corte di Giustizia ha poi chiarito che l’eventuale esercizio di taluni compiti di interesse pubblicistico non giustifica di per sé la c.d. ‘riserva di nazionalità.
5.2.2.1. In particolare, nell’esaminare la normativa italiana in tema di rilascio della licenza per l’esercizio dell’attività di vigilanza privata e di guardia privata giurata (articoli 134 e 138 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza – R.D. 18 giugno 1931, n. 773) la Corte, pur non negando che tali figure professionali svolgono attività di interesse pubblicistico, ha tuttavia negato che ciò sia sufficiente al fine di giustificare la ‘riserva di nazionalità’ di cui al più volte richiamato paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE.
Al riguardo la Corte ha fatto riferimento alla giurisprudenza secondo cui, al fine di richiamare in modo legittimo la sopra indicata eccezione in relazione a talune figure, è necessario che queste siano connotate da “una partecipazione diretta e specifica all’esercizio di pubblici poteri” (in tal senso: CGUE, sentenza 31 maggio 2001 in causa C-283/99 – Commissione c/ Repubblica italiana -; id., sentenze 29 ottobre 1998, in causa C-114/97 – Commissione c/ Spagna e 9 marzo 2000, in causa C-355/98, Commissione c/ Belgio).
5.2.2.2. La Corte ha inoltre esaminato la questione se, anche ad ammettere che talune figure professionali esercitino in maniera diretta e specifica taluni poteri di carattere pubblicistico, tale circostanza legittimi di per sé il ricorso alla c.d. ‘riserva di nazionalità’, ovvero se – a tal fine – l’esercizio di tali poteri debba assumere un carattere del tutto prevalente in relazione al complesso delle funzioni e dei compiti demandati alla figura professionale di cui si discute.
Come è stato da taluni osservato, la Corte di Giustizia si è dunque domandata se, al fine di applicare legittimamente la riserva di nazionalità debba trovare applicazione il c.d. ‘criterio del contagiò (secondo cui è sufficiente che la figura di che trattasi eserciti anche un solo potere di carattere pubblicistico nel complesso dei compiti attribuiti), ovvero se debba trovare applicazione il diverso ‘criterio della prevalenzà (secondo cui è invece necessario che i poteri di matrice pubblicistica, autoritativa e coercitiva assumano valenza prevalente in relazione al complesso dei compiti attribuiti).
Ebbene, la Corte di giustizia ha risolto la questione nel secondo dei sensi richiamati.
In particolare, con la sentenza 10 settembre 2014 in causa C-270/13 – Iraklis Haralambidis la Corte di giustizia, pur non negando che talune delle funzioni demandate ex lege al Presidente di un’Autorità portuale italiana comportino l’adozione di provvedimenti di carattere coattivo intesi alla tutela degli interessi generali dello Stato (e che quindi rientrino – a rigore – nell’area di possibile esenzione propria della c.d. ‘riserva di nazionalità’), ha nondimeno escluso che tale circostanza legittimi ex se l’attivazione di tale riserva.
Secondo la Corte, in particolare, “il ricorso a tale deroga non può essere giustificato dal solo fatto che il diritto nazionale attribuisca poteri d’imperio (…). È necessario pure che tali poteri siano effettivamente esercitati in modo abituale da detto titolare e non rappresentino una parte molto ridotta delle sue attività”.
5.2.3. Si tratta, del resto, di un approccio del tutto analogo rispetto a quello osservato da alcuni Ordinamenti in area UE, evidentemente attenti ad assicurare la massima compatibilità fra le (residue) ipotesi di ‘riserva di nazionalità’ e il generale principio della libera circolazione dei lavoratori in ambito unionale.
Basti qui richiamare il parere dei Conseil d’État dell’11 settembre 2014 relativo alla possibilità di riservare a un cittadino di nazionalità francese l’incarico di Presidente dell’Agence Nationale de la Recherche.
Con il parere in questione, in particolare, il Conseil d’État:
– ha ricordato che, ai sensi del diritto interno, i cittadini di nazionalità non francese “n’ont pas accès aux emplois dont les attributions soit ne sont pas séparables de l’exercice de la souveraineté, soit comportent une participation directe ou indirecte à l’exercice de prérogatives de puissance publique de l’Etat ou des autres collectivités publiques” (in tal senso l’articolo 5-bis della l. 83??634 del 13 luglio 1983 sui diritti e i doveri dei funzionari pubblici);
– ha ricordato che, in termini generali, il vincolo di nazionalità sussiste solo per l’attribuzione delle posizioni che comportano la titolarità di funzioni pubblicistiche (e non anche nelle ipotesi di ‘agents non titulaires’, come nelle ipotesi dei cc.dd. ‘agents contractuels ou auxiliaires’);
– ha ricordato che la sussistenza di un potere di nomina governativa per un determinato incarico non implica in modo necessario che la relativa posizione implichi l’esercizio di poteri connessi con la sovranità nazionale;
– ha concluso, all’esito di un’indagine svolta in concreto circa le funzioni e i compiti demandati al Presidente dell’Agenzia, nel senso che essi non comportino, laddove complessivamente intesi, l’esercizio di “fonctions inséparables de la souveraineté nationale”.
5.3. La giurisprudenza nazionale si è occupata di recente della conformità con l’ordinamento eurounitario delle previsioni di cui all’articolo 1 del d.P.C.M. 174 del 1994.
5.3.1. In particolare, con la già richiamata sentenza 24 luglio 2017, n. 3666, la Sesta Sezione di questo Consiglio:
– ha in primo luogo richiamato l’orientamento enucleato in sede consultiva secondo cui l’articolo 51, Cost. non mira a riservare ai cittadini italiani l’accesso ai pubblici uffici, ma mira – piuttosto – a garantire l’uguaglianza dei cittadini, senza discriminazioni e limiti, in tal modo caratterizzandosi quale disposizione priva di finalità preclusive per i soggetti privi della nazionalità italiana (in tal senso: Cons. Stato, Sezione II, parere 20 gennaio 1990, n. 234);
– ha inoltre osservato che, al fine di applicare in modo corretto l’eccezione di cui al paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE, non giova aderire a una nozione di pubblica amministrazione in senso ‘strutturale e staticò, dovendo piuttosto farsi ricorso a una nozione di carattere ‘funzionale e dinamicò, tale da valorizzare la natura specifica delle attività in concreto poste in essere e da vagliarne l’effettiva coessenzialità rispetto alla spendita di poteri di carattere pubblicistico;
– ha concluso (nell’ambito di una controversia avente ad oggetto la legittimità dell’attribuzione dell’incarico di direttore del Parco archeologico del Colosseo) nel senso che l’indistinta preclusione posta dall’articolo 1 del d.P.C.M. 174 del 1994 e dall’articolo 2 del d.P.R. 487 del 1994 all’attribuzione di posti dirigenziali in favore di cittadini non italiani contrasta con i vincoli posti dal paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE in tema di (legittima) limitazione del principio di libera circolazione dei lavoratori, ragione per cui la richiamata disposizione regolamentare deve essere conseguentemente disapplicata;
– ha esaminato il complesso delle funzioni attribuite al direttore del Parco archeologico in questione e ha concluso nel senso che esse concretino essenzialmente “attività prevalentemente rivolt[e] alla gestione economica e tecnica del Parco”, così come “attività essenzialmente finalizzat[e] ad assicurare una migliore utilizzazione, nella prospettiva della valorizzazione, di beni pubblici”.
5.3.2. Il Collegio ritiene qui di richiamare anche la sentenza della Quarta Sezione di questo Consiglio 10 marzo 2015, n. 1210 (resa in sede di rinvio a seguito della sentenza della Corte di giustizia sul già citato ricorso per rinvio pregiudiziale C-270/13 – Iraklis Haralabidis).
Con la sentenza in questione questo Consiglio di Stato ha (fra l’altro) esaminato la questione se l’articolo 51, Cost. impedisca l’attribuzione a cittadini di altri Paesi membri dell’Unione europea di incarichi di funzioni dirigenziali.
Al riguardo il Collegio ha escluso tale eventualità sottolineando che, anche in base alla pertinente giurisprudenza costituzionale, “per il tramite dell’art. 11 Cost., le disposizioni sulla libertà di circolazione all’interno dell’Unione, poste dall’art. 45 T.F.U.E., [devono] considerarsi recepite nell’ordinamento interno, nell’ambito del quale il diritto dei cittadini dell’Unione di accedere a posti di lavoro nel nostro Paese è assistito dalla garanzia generale dell’art. 45 citato. Deve pertanto dirsi (…) che l’art. 51 Cost. non richiede alcuna disapplicazione, poiché va piuttosto letto in conformità all’art. 11, nel senso di consentire l’accesso dei cittadini degli Stati dell’Unione europea agli uffici pubblici e alle cariche pubbliche nazionali in via generale, sulla base del principio della libera circolazione delle persone ex art. 45 T.F.U.E., salvo gli eventuali limiti espressi o legittimamente ricavabili dal sistema, con riguardo alla concreta partecipazione all’esercizio di pubblici poteri o comunque alle circostanze poste in rilievo nella ricordata sentenza della Corte di giustizia (…)”.
5.4. Si richiameranno ora le principali ragioni in base alle quali (nella tesi della Sezione remittente) sarebbe possibile escludere un contrasto fra la riserva di nazionalità – per come sancita in via generale dal richiamato d.P.C.M. 174 del 1994 e dal d.P.R. 487 del 1994 – e il principio di libera circolazione dei lavoratori di cui all’articolo 45 del TFUE.
La Sezione remittente ha osservato al riguardo:
– che sarebbe coerente con il pertinente paradigma normativo eurounitario la previsione di cui all’articolo 1 del d.P.C.M. 174 del 1994 (per come richiamato dall’articolo 2 del d.P.R. 487 del 1994) per la parte in cui riserva ai cittadini italiani la titolarità di tutti i posti di funzione dirigenziale delle amministrazioni dello Stato, sia perché si tratta di “funzioni di vertice amministrativo” (secondo quanto previsto dall’articolo 1, comma 1, lettera b) del medesimo d.P.C.M.), sia perché la titolarità di tali funzioni dirigenziali comporta comunque “l’elaborazione, la decisione, l’esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi” (secondo quanto previsto dal successivo articolo 2);
– che, ai fini dell’applicazione dell’eccezione di cui al paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE non potrebbe richiamarsi il criterio ‘della prevalenzà fra funzioni di carattere pubblicistico e funzioni di gestione economica e tecnica, dovendo – piuttosto – ritenersi che la richiamata ‘riserva di nazionalità’ possa essere correttamente invocata per le posizioni (di ‘vertice amministrativò) di direttore degli istituti della cultura statali di rilevante interesse nazionale di cui al decreto-legge n. 83 del 2014;
– che gli articoli 51 e 54, Cost. costituirebbero essi stessi espressione della regola della riserva di sovranità degli Stati ai sensi del paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE;
– che, conformemente alla giurisprudenza della Corte di giustizia, nel caso di impieghi alle dipendenze di amministrazioni pubbliche, il riconoscimento di funzioni pubblicistiche di carattere autoritativo legittimerebbe comunque la riserva di nazionalità, senza che possa operare l’ulteriore criterio del carattere sporadico o minoritario del relativo esercizio (che la stessa Corte di giustizia avrebbe enucleato ad altri e diversi fini);
– che sarebbe del tutto coerente con i dettami dell’ordinamento UE (per come richiamati dalle comunicazioni interpretative della Commissione europea) la previsione del d.P.C.M. 174 del 1994 laddove stabilisce che tutti i dirigenti (in quanto titolari di funzioni di vertice amministrativo di contenuto pubblicistico e incaricati di esercitare la “funzione pubblica nazionale”) siano interessati dalla riserva di nazionalità;
– che non potrebbe attribuirsi rilievo dirimente (e in senso contrario rispetto a quanto prospettato dal Collegio remittente) a quanto affermato dalla Corte di giustizia con la sentenza del settembre del 2014 sul caso dell’Autorità portuale di Brindisi. Ed infatti, gli effetti di quella pronuncia resterebbero limitati al caso – che qui non ricorrerebbe – di un ente pubblico avente una personalità giuridica diversa dallo Stato e le statuizioni rese in relazione alla posizione di tale ente non potrebbero essere estese al diverso caso del direttore di un museo;
– che potrebbe senz’altro essere invocata la riserva di cui al paragrafo 4 dell’articolo 45, cit. nel caso del direttore di un museo, da intendersi (in quanto dirigente dello Stato) quale “organo amministrativo di vertice del Ministero, con il quale si attua l’indirizzo politico del Governo”, ovvero quale “[organo] che incardina le funzioni del potere esecutivo, quale organo dello Stato le cui scelte di merito sono per di più insindacabili dal Ministro”;
– che la legittimità della richiamata riserva in relazione a tutti i dirigenti dello Stato emergerebe se solo si consideri “che tali autorità sono poste al’vertice amministrativò e sono titolari di consistenti poteri autoritativi, il cui esercizio è idoneo ad incidere unilateralmente sulle altrui sfere giuridiche, con l’applicazione di ‘regole esorbitanti dal diritto comuné”;
– che la generale conformità della riserva di cittadinanza di cui all’articolo 1 del d.P.C.M 174 del 1994 e di cui all’articolo 2 del d.P.R. 487 del 1994 con il diritto UE per ciò che riguarda la posizione dei dirigenti dello Stato in generale dovrebbe essere confermata anche con riguardo alla particolare figura dirigenziale dei direttori dei musei di cui al decreto-legge n. 83 del 2014, non rinvenendosi alcuna ragione per negare tale assimilazione;
– che, anche in relazione all’applicazione del generale principio di reciprocità, non risulterebbero norme o prassi amministrative di altri Stati membri dell’UE i quali abbiano consentito a cittadini italiani di acquisire lo status di dirigenti aventi una posizione di ‘verticé all’interno del loro ordinamento.
5.5. Ebbene, così richiamato il complesso delle ragioni poste dal Collegio rimettente a fondamento della tesi della non disapplicabilità dell’articolo 1 del d.P.C.M. 174 del 1994 (in ragione della sua ritenuta conformità con l’ordinamento UE), questa Adunanza plenaria ritiene che tali ragioni non risultino, nel loro complesso, condivisibili.
5.5.1. In primo luogo il Collegio osserva che, sulla base degli atti di causa, non appare suffragata la tesi (in più punti affermata nell’ambito dell’ordinanza di rimessione) secondo cui la posizione di direttore del Palazzo Ducale di Mantova presenterebbe un carattere di apicalità nell’ambito dell’amministrazione statale e comporterebbe l’esercizio di “funzioni di vertice amministrativo” con spendita di funzioni prevalentemente di stampo pubblicistico e autoritativo, in tal modo giustificando la ‘riserva di nazionalità’ di cui al paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE.
Si osserva al riguardo:
– che, ai sensi del comma 2-bis dell’articolo 14 del decreto-legge n. 83 del 2014, il Palazzo Ducale di Mantova rientra fra “i poli museali gli istituti della cultura nazionali di rilevante interesse nazionale”;
– che il d.P.C.M. 29 agosto 2014, n. 171 (‘Regolamento di organizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, degli uffici della diretta collaborazione del Ministro e dell’Organismo indipendente di valutazione della performance, a norma dell’articolo 16, comma 4, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66’), all’articolo 30, ha – sì – riconosciuto autonomia speciale all’istituzione in parola (riconoscendola come “di rilevante interesse nazionale”), ma non ne ha delineato le funzioni e le attribuzioni con peculiarità tali da giustificarne il riconoscimento quale “organo amministrativo di vertice del Ministero, con il quale si attua l’indirizzo politico del Governo”.
– che il richiamato regolamento di organizzazione ha qualificato l’istituzione di cui trattasi quale ufficio di livello dirigenziale non generale (i.e.: quale ufficio dirigenziale ‘di terzo livellò sottoposto in primo luogo al potere di coordinamento e organizzazione del pertinente livello dirigenziale generale – articolo 16 del decreto legislativo n. 165 del 2001 – e, in secondo luogo, al più generale potere di indirizzo e coordinamento del Segretariato generale del Ministero – articolo 11 del d.P.C.M. 171, cit. -), non differenziandone in modo davvero significativo le attribuzioni rispetto a quanto previsto in via generale per il secondo livello dirigenziale dall’articolo 17 del decreto legislativo n. 165 del 2001
– che, pur non essendo del tutto chiaro se l’ordinanza di rimessione abbia riferito il carattere di ‘apicalità’ (e quindi la legittima apposizione della ‘riserva di sovranità’) ai soli istituti e musei di rilevante interesse nazionale ovvero all’intero novero degli uffici dirigenziali statali, la tesi in esame non risulterebbe condivisibile né se riferita al primo ambito, né se riferita al secondo;
– che, per quanto riguarda i compiti e le funzioni demandati ai direttori degli istituti e musei di rilevante interesse nazionale (fra cui quello che qui viene in rilievo), l’elencazione di cui al comma 4 dell’articolo 35 non giustifica né la qualificazione in termini di apicalità, né l’affermazione secondo cui si tratterebbe di plessi deputati in via prevalente o esclusiva ad esprimere “[il] potere esecutivo [costituendo] l’organo amministrativo di vertice del Ministero, con il quale si attua l’indirizzo politico del Governo” (sul punto si tornerà fra breve);
– che la medesima qualificazione in termini di apicalità non risulta giustificata neppure se riferita in modo indistinto a tutte le posizioni dirigenziali dell’amministrazione statale (per come richiamate – e senza distinzioni di sorta – dall’articolo 1, comma 1, lettera a) del d.P.C.M. 174, cit.). Ed infatti una tale qualificazione sembra fondarsi sull’indimostrato riconoscimento del carattere di apicalità a tutti i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, a prescindere dall’esame dei compiti e delle funzioni in concreto esercitati;
– che non si rinviene invero alcuna ragione per riconoscere in modo indistinto l’esercizio dell’autorità pubblica e la responsabilità di salvaguardare gli interessi generali dello Stato (e quindi la possibilità di attivare la ‘riserva di nazionalità’) a fronte di qualunque posto di livello dirigenziale dello Stato (quand’anche deputato – ad esempio – a mere attività di consulenza, studio e ricerca ai sensi del comma 10 dell’articolo 19 del decreto legislativo n. 165 del 2001, cit.);
– che non rinviene pertanto un puntuale conforto testuale o sistematico la tesi secondo cui tutti i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato (articolo 1, comma 1, lettera a) del d.P,C.M. 174, cit.) sarebbero qualificabili sempre e comunque come posti con funzioni di vertice amministrativo e implicherebbero l’esercizio prevalente di funzioni di stampo autoritativo. Giova al riguardo richiamare l’articolo 2 del medesimo decreto il quale, con previsione ‘di chiusurà evidentemente compatibile con l’ordinamento UE, stabilisce che qualunque posizione lavorativa (di livello dirigenziale o meno) la quale comporti l’elaborazione, la decisione e l’esecuzione di “provvedimenti autorizzativi e coercitivi” comporta ex se il vincolo della nazionalità. Al contrario, tale disposizione non può certamente essere intesa (a meno di non incorrere in un evidente ‘salto logicò) nel senso che tutti i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato siano – per una sorta di qualità intrinseca – caratterizzati di per sé da speciali connotazioni pubblicistiche e autoritative e che sia per ciò stesso loro riferibile la riserva di nazionalità di cui al più volte richiamato articolo 45.
5.5.2. In secondo luogo il Collegio rileva che non può essere condivisa la tesi (richiamata nell’ordinanza di rimessione) secondo cui, ai fini dell’applicazione dell’eccezione di cui al paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE, non potrebbe richiamarsi il criterio della prevalenza fra funzioni di carattere pubblicistico e funzioni di gestione economica e tecnica, potendo tale eccezione essere invocata a fronte di qualunque posizione funzionale che implichi (e in qualunque misura) l’esercizio di funzioni di stampo autoritativo.
Si osserva al riguardo:
– che la prospettazione proposta nell’ambito dell’ordinanza di rimessione appare tributaria di una sorta di ‘tesi del contagiò, secondo la quale l’esercizio di funzioni di stampo pubblicistico – quand’anche di carattere sporadico o del tutto minoritario – giustificherebbe comunque la riserva di nazionalità;
– che, al contrario, la giurisprudenza della Corte di giustizia dinanzi richiamata sub 5.2 conforta l’opposta conclusione secondo cui l’eccezione in parola non può essere invocata nelle ipotesi in cui la posizione lavorativa di cui si discute implichi – sì – l’esercizio di talune funzioni autoritative, ma in modo sporadico e comunque non prevalente rispetto al complesso delle funzioni attribuite (in tal senso la richiamata sentenza in causa C-270/13);
– che pertanto, pur dubitandosi in assoluto che il titolare della funzione dirigenziale di cui si discute sia titolare di taluni compiti e funzioni di stampo pubblicistico e autoritativo, nondimeno (e anche ad ammettere che detta titolarità sussista) tale circostanza non consentirebbe di invocare in modo legittimo la riserva di nazionalità;
– che non può essere condivisa la tesi trasfusa nell’ordinanza di rimessione (par. 54.6) secondo cui le statuizioni rese dalla Corte di giustizia nel settembre del 2014 sul caso dell’Autorità portuale di Brindisi resterebbero confinate alle sole ipotesi di enti pubblici aventi una personalità giuridica distinta da quella dello Stato. Si osserva, in contrario, che la richiamata decisione della Corte di giustizia, nell’indicare il principio della prevalenza quale criterio orientativo per l’applicazione della ‘riserva di nazionalità’ di cui al paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE, assume evidentemente valenza generale e non ammette limitazioni nella sfera applicativa derivanti da categorie e distinzioni proprie dell’ordinamento interno.
5.5.3. In terzo luogo il Collegio osserva che (una volta spostato l’ambito dell’indagine sul piano sostanziale dell’assetto dei compiti e delle funzioni in concreto demandate alla posizione dirigenziale all’origine dei fatti di causa) ne risulta confermata la conclusione secondo cui tali compiti e funzioni non comportano affatto in modo prevalente l’esercizio di attribuzioni di carattere pubblicistico e autoritativo, ma implicano al contrario – e in modo del tutto prevalente – funzioni gestionali e di valorizzazione delle risorse museali.
Sotto tale aspetto giova esaminare il complesso delle attribuzioni dei direttori (di livello dirigenziale non generale) degli istituti e dei musei di rilevante interesse nazionale, per come delineate e definite dal comma 4 dell’articolo 35 del richiamato regolamento di organizzazione n. 171 del 2014.
Ebbene, fra i tredici ambiti funzionali in cui si esplicano le funzioni di questa particolare categoria dirigenziale emerge in modo evidente la prevalenza di attribuzioni attinenti al profilo organizzativo, gestionale e di valorizzazione delle risorse.
Basti richiamare (solo a mò di esempio) le attribuzioni relative: i) alla programmazione, all’indirizzo, al coordinamento e al monitoraggio delle attività di gestione del museo (lettera a)); ii) alla fissazione degli importi dei biglietti e degli orari di apertura (lettere b) e c)); iii) alla fissazione di elevati standard di qualità nella gestione e nella comunicazione (lettera e)); iv) all’istituzione di forme e modalità di piena collaborazione con gli ulteriori livelli amministrativi rilevanti (lettera f)).
L’ordinanza di rimessione ipotizza che, di fatto, solo in due casi le attribuzioni demandate al dirigente dal predetto regolamento potrebbero implicare l’esercizio di funzioni di stampo autoritativo (ci si riferisce, in particolare, ai compiti relativi all’autorizzazione al prestito delle opere – lettera h) – e a quelli relativi all’esercizio delle funzioni di stazione appaltante – lettera o) -).
Si osserva tuttavia al riguardo:
– che, quand’anche a tali compiti e funzioni fosse riconosciuto uno statuto di carattere pubblicistico (il che non è peraltro pacifico), ciò non rileverebbe ai fini della legittima apposizione della ‘riserva di cittadinanzà, trattandosi di compiti e funzioni di impatto complessivamente minoritario rispetto al complessivo ambito delle funzioni di cui all’articolo 35 del Regolamento di organizzazione;
– che in ogni caso, per ciò che riguarda le funzioni inerenti al prestito delle opere, se da una parte non può negarsi che esse possano incidere su interessi pubblici di particolare rilievo, dall’altra non può non considerarsi che tali funzioni, nel quadro della già richiamata ampia prevalenza di attribuzioni attinenti a profili organizzativi e gestionali, appaiono intrinsecamente collegate a compiti di promozione della cultura e di valorizzazione delle risorse;
– che, per quanto riguarda poi le funzioni di stazione appaltante, pur non potendosene negare la connotazione pubblicistica, deve tuttavia sottolinearsi che esse risultano a propria volta finalizzate all’acquisizione di beni e servizi strumentali all’ottimale gestione amministrativa.
Anche sotto tale aspetto, quindi, resta confermato che non è legittimamente apponibile la riserva di nazionalità in relazione alla particolare posizione dirigenziale all’origine dei fatti di causa.
5.5.4. Non può poi essere condiviso l’argomento secondo cui il ricorso all’eccezione/riserva di nazionalità risulterebbe nel caso in esame giustificato sulla base del principio di reciprocità (per come richiamato al par. 65 della sentenza/ordinanza n. 677 del 2018).
L’ordinanza di rimessione (premesso il richiamo all’articolo 11, Cost., secondo cui le limitazioni di sovranità possono essere ammesse dall’ordinamento nazionale soltanto “in condizioni di parità con gli altri Stati”) rileva al riguardo che non risulterebbero norme o prassi amministrative di altri Stati membri dell’Unione europea i quali abbiano consentito a cittadini italiani di acquisire lo status di dirigenti aventi una posizione ‘di verticé all’interno del proprio ordinamento.
5.5.4.1. Si osserva in primo luogo che (per le ragioni esposte retro, sub 5.5.3.) la possibilità di attribuire a cittadini non italiani incarichi di funzioni dirigenziali aventi carattere essenzialmente gestionale e non connotati in sostanza dalla spendita di funzioni autoritative non implica in via di principio la cessione di quote di sovranità e non giustifica pertanto il richiamo alla violazione del principio di parità di cui all’articolo 11, Cost.
5.5.4.2. Si osserva in secondo luogo che il principio di primazia del diritto eurounitario comporta che uno Stato membro non possa esentarsi dal rispetto degli obblighi rinvenienti dalla partecipazione all’Unione europea (con particolare riguardo alle libertà fondamentali, ivi compresa quella relativa alla circolazione dei lavoratori) adducendo a propria volta l’inadempimento da parte di altro Stato membro ai medesimi obblighi.
E’ noto al riguardo che, in ambito eurounitario, il temperamento del suddetto principio (il quale trova invece generalizzata applicazione nell’ambito del diritto internazionale pubblico, quale forma di sostanziale ritorsione fra gli Stati) inerisce strutturalmente al carattere “associativo” dell’adesione al Trattato e rinviene un contraltare nella possibilità riconosciuta a ciascuno Stato membro di adire la Corte di giustizia (nelle forme e secondo le procedure di cui all’articolo 259 del TFUE), laddove ritenga che un altro Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi sullo stesso incombenti in virtù dei Trattati.
Del resto, la giurisprudenza della Corte di giustizia ha in più occasioni chiarito che l’adempimento agli obblighi imposti dai Trattati istitutivi e dal diritto UE derivato non può essere assoggettato al principio di reciprocità (in tal senso: CGUE, sentenza 16 maggio 2002 in causa C-142/01 – Commissione c/ Italia -; id., sentenza 29 marzo 2001 in causa C-163/99 – Portogallo c/ Commissione -).
5.5.4.3. Si osserva in terzo luogo che l’argomento fattuale dinanzi richiamato (assenza di cittadini italiani preposti in ambito eurounitario alla direzione di istituzioni museali e di cultura) non solo è fondato su un assunto di fatto incerto (“non risultano (…)”), ma – per di più – finisce per far gravare sull’amministrazione evocata in giudizio un onere di allegazione e prova che sarebbe invece spettato alla parte ricorrente in primo grado.
5.5.5. Si osserva poi che non può essere condivisa la tesi secondo cui la riserva di nazionalità di cui all’articolo 1 del d.P.C.M. 174 del 1994 e di cui all’articolo 2 del d.P.R. 487 del 1994 rinverrebbe un preciso fondamento nell’ambito degli articoli 51 e 54, Cost., con la conseguenza che l’eventuale disapplicazione della richiamata disposizione regolamentare implicherebbe, altresì, la disapplicazione delle citate disposizioni costituzionali.
5.5.5.1. Questo Consiglio ha già avuto modo di affermare (come già in precedenza ricordato) che l’articolo 51, Cost. «non mira a riservare ai cittadini italiani l’accesso ai pubblici uffici, ma mira a garantire l’uguaglianza dei cittadini senza discriminazioni o limiti, e nel prevedere la possibilità di parificare – con legge nazionale – ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica, si caratterizza come una norma ‘aperturistà e non come ‘preclusivà» (in tal senso: Cons. Stato, Sez. II, parere, 20 gennaio 1990, n. 234).
Allo stesso modo, come chiarito dalla più volte citata sentenza n. 3666 del 2017, l’articolo 54, II Cost. persegue in via prioritaria lo scopo di stabilire come devono essere adempiute le funzioni pubbliche e non anche quello di introdurre l’invocata riserva di sovranità.
L’Adunanza plenaria, inoltre, ritiene qui di prestare puntuale adesione – non rinvenendosi ragioni in senso contrario – a quanto già affermato con la sentenza della Quarta Sezione n. 1210 del 2015 (resa, come si è già detto, in sede di rinvio a seguito della sentenza della Corte di giustizia sul ricorso per rinvio pregiudiziale relativo alla vicenda della Presidenza dell’Autorità Portuale di Brindisi).
Come si è già ricordato retro, sub 5.3.2., nell’occasione questo Consiglio di Stato ha escluso in radice che gli articoli 51 e 54, Cost. impediscano l’attribuzione a cittadini di altri Paesi membri dell’Unione europea di incarichi di funzioni dirigenziali.
Gli argomenti sostanziali posti a fondamento di tale pronuncia (e dinanzi puntualmente richiamati) sono condivisi da questa Adunanza plenaria e vengono qui espressamente richiamati.
6. In conclusione deve ritenersi (in accoglimento del quarto motivo dell’appello principale) che l’articolo 1, comma 1, lettera a) del d.P.C.M. 174 del 1994 e l’articolo 2, comma 1 del d.P.R. 487 del 1994, laddove impediscono in modo assoluto la possibilità di attribuire posti di livello dirigenziale nelle amministrazioni dello Stato a cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea, risultino insanabilmente in contrasto con il paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE e che, in assenza di possibili interpretazioni di carattere adeguativo, debbano essere disapplicati.
Spetterà quindi al Governo, per evidenti ragioni di certezza giuridica, adottare le determinazioni conseguenti alla rilevata illegittimità de iure communitario della richiamata disposizione regolamentare.
Ai fini della presente decisione, quindi, il parametro giuridico da utilizzare per il vaglio della legittimità dell’atto di nomina che qui rileva deve essere individuato in via diretta nel medesimo articolo 45 del TFUE e nel principio di libera circolazione dei lavoratori ivi sancito.
La sentenza in epigrafe deve essere quindi riformata per avere accolto un motivo ostativo alla nomina del signor Assmann quale direttore del Palazzo Ducale di Mantova (motivo che, al contrario, avrebbe dovuto essere respinto ai sensi del pertinente quadro normativo eurounitario e nazionale).
7. Per le ragioni appena esposte, non rileva ai fini della definizione del giudizio l’esame del terzo gruppo di questioni sollevate con la sentenza/ordinanza n. 677/2018 e relativa alla portata della disposizione (espressamente qualificata come di interpretazione autentica) di cui al comma 7-bis dell’articolo 22 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50 (per come introdotto dalla relativa legge di conversione).
Come si è anticipato in narrativa, con il terzo ordine di motivi la Sezione remittente ha chiesto a questa Adunanza plenaria di chiarire se, in presenza di una norma di apparente interpretazione autentica (quale l’articolo 22, comma 7-bis, cit.) la quale, con effetti retroattivi, viene ad incidere su giudizio in corso (ponendosi in potenziale contrasto con l’art. 117 Cost., con gli articoli 6 e 13 della CEDU e con la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte EDU), sia possibile definire il giudizio non applicando la norma medesima, in luogo della proposizione della questione di legittimità costituzionale.
Il Collegio osserva che, per le ragioni esposte retro, sub 5 e 6, la vicenda di causa può essere definita facendo diretta applicazione delle pertinenti previsioni del diritto interno e di quello eurounitario, senza che risulti in alcun modo necessario ricorrere alla previsione della disposizione (qualificata come di interpretazione autentica) di cui la sezione remittente ha posto in dubbio la legittimità.
Pertanto, in disparte qualunque considerazione circa la legittimità e/o l’opportunità del richiamato intervento legislativo, il terzo gruppo delle questioni sollevate dalla sezione remittente risulta semplicemente non rilevante ai fini del decidere.
8. Ai sensi dell’articolo 99, comma 4 del cod. proc. amm., l’Adunanza plenaria decide l’intera controversia, salvo che ritenga di enunciare il principio di diritto e di restituire per il resto il giudizio alla Sezione remittente.
Il Collegio ritiene che non emergano ragioni per restituire il giudizio alla Sezione, sussistendo i presupposti per definire l’intera controversia.
9. I princìpi di diritto che devono essere enunciati (anche nell’interesse della legge) sulla base di quanto sin qui esposto sono pertanto i seguenti.
1. “Il Giudice amministrativo provvede in ogni caso a non dare applicazione a un atto normativo nazionale in contrasto con il diritto dell’Unione europea”;
2. “L’articolo 1, comma 1 del d.P.C.M. 174 del 1994 e l’articolo 2, comma 1 del d.P.R. 487 del 1994, laddove impediscono in assoluto ai cittadini di altri Stati membri dell’UE di assumere i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato e laddove non consentono una verifica in concreto circa la sussistenza o meno del prevalente esercizio di funzioni autoritative in relazione alla singola posizione dirigenziale, risultano in contrasto con il paragrafo 2 dell’articolo 45 del TFUE e non possono trovare conseguentemente applicazione”.
10. Per le ragioni dinanzi esposte questa Adunanza Plenaria, definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe e ferme restando le statuizioni di cui alla decisione n. 677 del 2018 della Sesta Sezione, accoglie il ricorso in appello del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, respinge integralmente il ricorso proposto da Gi. Pa. Ma. St. recante il n. 1117/2016.
Non vi è ragione per statuire in modo espresso sull’appello incidentale delle ricorrente in primo grado per essere stato interamente esaminato e respinto con la richiamata decisione n. 677 del 2018.
Il Collegio ritiene che sussistano giusti ed eccezionali motivi per disporre l’integrale compensazione delle spese fra le parti, anche in considerazione della complessità e parziale novità delle questioni dinanzi esaminate.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge integralmente il ricorso di primo grado.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 aprile 2018 con l’intervento dei magistrati:
Alessandro Pajno – Presidente
Filippo Patroni Griffi – Presidente
Sergio Santoro – Presidente
Franco Frattini – Presidente
Carlo Saltelli – Presidente
Roberto Giovagnoli – Consigliere
Claudio Contessa – Consigliere, Estensore
Fabio Taormina – Consigliere
Bernhard Lageder – Consigliere
Umberto Realfonzo – Consigliere
Silvestro Maria Russo – Consigliere
Lydia Ada Orsola Spiezia – Consigliere
Oberdan Forlenza – Consigliere
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