Suprema Corte di Cassazione
sezione IV
sentenza 23 maggio, n. 21056
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza dei 25/5/2012, la Corte d’appello di Lecce confermava la sentenza con la quale, in data 3/5/2010, il Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Galatina, aveva condannato I.D. alla pena (sospesa) di euro 200,00 di multa per il reato di lesioni colpose, così diversamente qualificato il fatto rispetto all’originaria imputazione di abbandono di minori aggravato ex art. 591, commi primo e terzo, cod. pen..
Di tale reato era stata ritenuta responsabile perché, quale insegnante in servizio presso l’istituto elementare «Gaetano Martinez – III Circolo» di Gelatina, aveva omesso di vigilare gli alunni della classe V^C nei corso della pausa ricreativa, protrattasi per la durata di circa 15/20 minuti, dalle ore 10,30 alle ore 10,45 dei 5/5/2007, al termine della quale accadeva che l’alunna A.A., di 10 anni, veniva colpita da una violenta gomitata sferrata da un suo compagno e urtava violentemente contro lo spigolo di un banco, così riportando lesioni consistite in «infrazione dell’arco anteriore IX e X costa sx», con prognosi di complessivi 35 giorni.
Richiamata la ricostruzione dell’accaduto operata dal giudice di primo grado, la Corte territoriale rigettava l’appello dell’imputata che negava l’addebito di omessa vigilanza, affermando di non aver lasciato gli alunni privi di sorveglianza e attribuendo l’accaduto a episodio, verificatosi in un brevissimo lasso temporale, imprevisto e imprevedibile, che rendeva impossibile qualunque intervento volto ad evitarlo, con conseguente esclusione tanto del nesso causale quanto dell’elemento soggettivo.
Rilevavano di contro i giudici dei gravame che doveva ritenersi accertato che l’imputata, dopo aver fatto un brevissimo ingresso nella classe V^C, aveva lasciato i bambini senza controllo, peraltro in un momento di gioco quale quello della ricreazione e che, pertanto, la responsabilità doveva ritenersi correttamente affermata in relazione alla posizione di garanzia su di essa gravante quale insegnante e alla prevedibilità dell’evento.
Negavano, infine, sussistesse il difetto di correlazione tra accusa e sentenza, dedotto dalla difesa in sede di discussione, rilevando che la modificazione dell’originaria imputazione era stata tale da consentire comunque il contraddittorio sul contenuto sostanziale dell’accusa e aveva garantito il pieno esercizio dei diritto di difesa.
2. Avverso tale decisione propone ricorso la D., per mezzo dei proprio difensore, articolando tre motivi.
2.1. Con il primo deduce nullità della sentenza per inosservanza delle norme in tema di correlazione tra la stessa e t’accusa.
Rilevava che, mentre in imputazione le si contestava di essersi allontanata dall’aula nel corso dell’intera pausa ricreativa facendovi ritorno solo al termine dell’intervallo, senza richiedere In sua sostituzione l’intervento di collaboratori scolastici, il Tribunale aveva invece ricostruito il fatto escludendo che essa si fosse allontanata dall’aula per recarsi alla macchinetta del caffè ma riconoscendo piuttosto che «fosse rimasta sulla soglia o comunque nel pressi delle due aule vicine ed avesse mandato una bambina a prenderle il caffè».
Osservava, quindi, che la riqualificazione del fatto aveva comportato che ad essere contestata non fosse più la condotta di abbandono di minore, con l’aggravante della lesione personale da essa derivante, ma quella di lesioni personali colpose, così immutando non solo l’elemento oggettivo ma anche quello soggettivo.
Ne era conseguito che, posto che la difesa si era incentrata unicamente sulla mancanza di volontà della docente di abbandonare la propria classe in situazione di pericolo nonché, sotto il profilo oggettivo, sulla insussistenza di una violazione degli obblighi di custodia dei propri alunni, la successiva riqualificazione del fatto nel differente reato colposo di cui all’art. 590 cod. pen. le aveva impedito di offrire elementi di prova, e comunque di interloquire, su elementi essenziali del differente reato contestato inerenti l’elemento oggettivo, e segnatamente il nesso di causalità, e l’elemento soggettivo.
2.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza di un nesso causale con l’omissione addebitabile e alla pure affermata rimproverabilità dell’evento a titolo di colpa.
Riceva che, su tali punti, nessuna valutazione è contenuta nella sentenza impugnata, tanto più invece necessaria in considerazione del pur dedotto carattere accidentale dell’episodio, imprevisto e imprevedibile, e comunque non evitabile, essendosi lo stesso verificato in un lasso temporale assolutamente ridotto, rappresentato dai breve attimo in cui ella si era affacciata oltre la porta della classe per chiamare la bidella.
Osserva che una diversa valutazione dell’episodio, come prevedibile, «equivarrebbe a richiedere a tutti i docenti scolastici un controllo dei propri alunni oltre le umane possibilità, con preclusione cioè della facoltà di distogliere lo sguardo dagli stessi anche solo per un breve istante».
Soggiunge che non vi è in atti alcuna prova per la quale si possa ritenere che nel caso in cui essa fosse stata in classe ai momento dell’incidente sarebbe potuta intervenire per evitarlo, considerato che, come affermato anche nella sentenza di primo grado, l’alunna A. era stata colpita «per sbaglio» non essendo la stessa coinvolta nel litigio con il compagno. In tale contesto – osserva – anche un eventuale richiamo sarebbe stato ugualmente intempestivo e, quindi, inidoneo a evitare l’evento, dal momento che solo se fosse stata nelle immediate vicinanze dei due scolari avrebbe potuto materialmente impedire il gesto improvviso, repentino e imprevedibile nella sua effettiva esecuzione da parte dell’alunno autore del gesto.
Rileva al riguardo che la tesi accolta dai giudici di merito secondo cui, se fosse stata continuativamente in aula, avrebbe potuto impedire agli scolari di spostarsi dai propri banchi, ancorché fosse in corso la pausa per la ricreazione, contrasta con la finalità di quest’ultima, che è quella di consentire agli alunni di interrompere l’impegno di seguire le lezioni e di alzarsi dai banchi per intrattenere rapporti socializzanti con tutti gli alunni della classe.
2.3. Con il terzo motivo deduce infine vizio di motivazione per avere la Corte d’appello dato per acclrato che ella si fosse allontanata in maniera significativa dall’aula, in contrasto con la ricostruzione accolta dal primo giudice che aveva invece ritenuto che fosse rimasta in prossimità dell’uscio.
3. In data 31 marzo 2014 la difesa dell’imputata ha depositato memoria difensiva con la quale ha ulteriormente insistito nel primo motivo di ricorso, inerente alla dedotta violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza e la conseguente violazione del diritto di difesa.
Considerato in diritto
3. È infondato il primo motivo di ricorso.
Sussiste indubbiamente il dedotto scarto tra accusa e sentenza, ma lo stesso si rivela nel caso concreto privo di conseguenze processuali.
3.1. Occorre ai riguardo premettere che la giurisprudenza di legittimità si ispira, nel verificare la mancata corrispondenza tra accusa contestata e fatto ritenuto in sentenza, al principio secondo cui il parametro che consente di verificare, nel caso in cui sia accertato io scostamento indicato, l’esistenza della violazione del principio in questione, è costituito dal rispetto del diritto di difesa nel senso che l’imputato deve avere avuto, in concreto, la possibilità di difendersi dall’addebito contestatogli.
Si ha dunque il rispetto del principio nei casi in cui della violazione poi ritenuta in sentenza si sia trattato nelle varie fasi del processo ovvero in quelli nei quali sia stato lo stesso imputato ad evidenziare il fatto diverso quale elemento a sua discolpa (v. e pluribus Sez. U. n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051; Sez. 4, n. 10103 del 15/01/2007, Granata, Rv. 236099; Sez. 2, n. 46242 23/11/2005, Mignatta, Rv. 232774; Sez. 4, n. 2393 del 17/11/2005, Tucci, Rv. 232973; n. 47365 del 10/11/2005, Codini, Rv. 233182; n. 41663 del 25/10/2005, Canonizzo, Rv. 232423; n. 38818 del 4/5/2005, De Bona, Rv. 232427; Sez. 1, n. 4655 del 10/12/2004, Addis, Rv. 230771).
Si osserva, infatti, che la nozione strutturale di fatto contenuta nelle disposizioni in questione, va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, posto che il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere dei pubblico ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere dei giudice) risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, Inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi; con la conseguenza che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione.
Nel caso di specie, alla stregua di tali condivisi parametri, deve negarsi che sussista la dedotta violazione, sia perché il nucleo essenziale del fatto addebitato in sentenza all’imputata – lesioni personali all’alunna conseguenti a condotta illecita ad essa rimproverabile – era comunque contenuto anche in imputazione (sia pure in essa contemplato quale circostanza aggravante di reato di mera condotta), la quale, rispetto a tale nucleo, si caratterizzava per un più ampio contenuto e, segnatamente, per una diversa e ben più grave descrizione della condotta addebitata (abbandono doloso di minori affidati alla custodia, già di per sé integrante reato) tale comunque da ricomprendere, come il più comprende il meno, la condotta colpevole poi ritenuta in sentenza; sia e soprattutto perché, proprio in correlazione e a riprova di tale solo parziale diversità del fatto, risulta che sulla parte di esso poi ritenuta In sentenza, l’imputata ha comunque avuto agio e modo di difendersi: e l’ha fatto, come dei resto è ammesso nello stesso ricorso laddove (v. pag. 8) si evidenzia che l’inevitabilità dell’evento (che è nel caso in esame, a ben vedere, l’unica difesa pertinente ed essenziale, come si vedrà anche nell’esame dei secondo motivo) era stata dedotta anche nel corso del giudizio.
3.2. È inoltre indiscusso che, se effettivamente verificatasi, la nullità, è di ordine generale a regime intermedio e deve essere dedotta nel limiti previsti dagli arti. 180 e 182 cod. proc. pen. (in questo senso v. Sez. 2, n. 19585 del 17/05/2006, Antonuccio, Rv. 234199; Sez. 4, n. 14180 del 29/11/2005, Pelle, Rv. 233952; Sez. 5, n. 44008 del 28/09/2005, Di Benedetto, Rv. 232805).
Orbene, nella specie, posto che come detto il fatto addebitato risulta delineato nei suoi presupposti oggettivi e soggettivi già nella sentenza di primo grado, l’ipotizzata nullità andava dedotta con l’atto d’appello – il che non è stato fatto, risultando l’eccezione sollevata solo in sede di discussione finale – dovendosi pertanto la stessa, quand’anche sussistente (il che però per quanto detto va escluso), ritenersi sanata ai sensi dell’art. 182 cod. proc. pen.
4. Sono invece fondati il secondo e terzo motivo, congiuntamente esaminabili.
L’evento lesivo viene invero ricondotto, sotto li profilo causale, alla condotta omissiva dell’imputata – quest’ultima ravvisata nell’omissione di adeguata vigilanza degli alunni durante la pausa di ricreazione – in virtù di un ragionamento ipotetico che risulta però in radice viziato dal mancato o comunque palesemente insufficiente svolgimento del doveroso giudizio controfattuale.
Posto infatti che la distrazione momentanea dell’insegnante è sostanzialmente ammessa ed è comunque da ritenersi acclarata in giudizio (sia pure con la precisazione, a detti fini irrilevante, ricavabile in effetti dalla sentenza di primo grado, che la stessa non si era allontanata dalla classe ma era rimasta sulla soglia, o comunque nelle sue immediate vicinanze, intenta a chiamare la bidella) e posto dunque che, con essa, può anche darsi per ammessa o comunque acclarata la violazione, sia pure momentanea, dell’obbligo giuridico di vigilare sugli alunni (posizione di garanzia), il vizio motivazionale si rende palese nel successivo passaggio logico che consiste nel verificare – per l’appunto alla stregua di un giudizio controfattuale – la causalità della colpa ossia la riconducibilità causale dell’evento lesivo, In quei frangente verificatosi, alla detta omissione.
Al quale fine occorreva chiedersi se, in presenza di un corretto adempimento dell’obbligo di costante vigilanza, quell’evento, con quelle precise modalità fattuali sopra descritte, si sarebbe o meno ugualmente verificato.
Un tal giudizio (c.d. predittivo) non può prescindere, da un lato, dall’accertamento delle reali ed effettive modalità dell’evento, come storicamente verificatosi (c.d. giudizio esplicativo), dall’altro, dalla ricostruzione di quale dovesse ritenersi la condotta pienamente osservante dell’obbligo di vigilanza rimasto inadempiuto (da operarsi anch’essa comunque con criteri ex post trattandosi di accertamento che – per quanto contiguo a quello propriamente riguardante l’elemento soggettivo del reato, quest’ultimo invece da condurre con critero ex ante – attiene all’accertamento del nesso di causalità).
Orbene, con riferimento al primo profilo, risulta inequivocamente acclarato in giudizio che l’evento si è determinato in via del tutto accidentale e in forza di una dinamica indiretta, allorquando un alunno, nel tentativo di sottrarre una merenda ad una compagna, per vincere la resistenza di quest’ultima, tirò con forza il braccio all’indietro colpendo col gomito involontariamente un’altra alunna che, non vista, gli stava dietro.
Quanto al secondo profilo, non è dubitabile che condotta osservante dei dovere di vigilanza sarebbe stata quella di essere presente in aula guardando con attenzione i bambini ma non certo anche quella di impedire loro di alzarsi e socializzare nell’intervallo della ricreazione, salvo che non fosse possibile ipotizzare che, per già note e prevedibili condizioni di generale accesa indisciplina della classe o per manifestazioni comportamentali di singoli alunni, fosse necessaria l’adozione di misure organizzative e disciplinari particolari idonee ad evitare specifiche situazioni di pericolo analoghe a quelle verificatesi.
Che tali particolari condizioni ricorressero nella fattispecie non v’è, però, motivo alcuno di ritenere alla stregua di quanto evidenziato nelle sentenze di merito, nemmeno con riferimento all’alunno autore del gesto, le cui modalità del resto, come già evidenziato, ne attestano l’assoluta involontarietà e accidentalità.
Non v’è dunque motivo di ritenere che condotta osservante del dovere di vigilanza avrebbe potuto essere altra che non quella di una più attenta presenza in classe, ma per ciò stesso non può nemmeno dubitarsi che una tale condotta pienamente osservante non avrebbe potuto neppur essa evitare l’evento date le descritte caratteristiche di casualità e repentinità, non potendosi certamente ipotizzare, in particolare, che l’insegnante avrebbe potuto in tal modo impedire, essendosi ancora nell’intervallo della ricreazione, agli alunni di alzarsi e avvicinarsi ai compagni.
5. Il vizio motivazionale che emerge dalle superiori considerazioni, risolvendosi nel difetto di un positivo e congruamente motivato accertamento del nesso causale nei termini sopra descritti, evidenzia per converso l’assenza di un elemento costitutivo del reato ascritto in sentenza.
Risultando il fatto accertato in modo incontroverso in tutti i suoi aspetti rilevanti ai fini della decisione e non potendosi pertanto ragionevolmente ipotizzare margini per una sua diversa ricostruzione, la sentenza impugnata va pertanto annullata, ai sensi dell’art. 620 lett. l cod. proc. pen., senza rinvio, per insussistenza del fatto.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
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