Corte di Cassazione, sezione terza penale, Sentenza 29 maggio 2018, n. 24065.
La massima estrapolata:
I beni archeologici ovunque essi si trovino, sia che siano già stati oggetto di ritrovamento oppure no, appartengono allo Stato e il privato che affermi, al contrario, il proprio diritto di proprietà su tali beni può soltanto eccepire che i beni stessi sono stati acquisiti in proprietà privata prima del 1909 ovvero far valere una delle ipotesi in cui la legge statale consente che i beni stessi ricadano in proprietà di privati, fravando il relativo onere di fornire la prova di quanto eccepito sul privato.
Sentenza 29 maggio 2018, n. 24065
Data udienza 26 aprile 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SAVANI Piero – Presidente
Dott. CERRONI Claudio – Consigliere
Dott. CORBETTA Stefano – Consigliere
Dott. MENGONI Enrico – Consigliere
Dott. MACRI’ Ubalda – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del Tribunale di Napoli in data 4.10.2016;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Ubalda Macri’;
letta la memoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. MOLINO Pietro, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso con le statuizioni conseguenti di legge.
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza in data 4.10.2016 il Tribunale di Napoli – decidendo a seguito del provvedimento di questa Sezione che in data 2.3.2016 aveva qualificato il ricorso per cassazione come opposizione ex articolo 667 c.p.p., comma 4, ed aveva trasmesso gli atti al Tribunale di Napoli – ha rigettato l’opposizione avverso l’ordinanza dello stesso Tribunale in data 27.11.2014 che aveva assegnato i beni sequestrati nell’ambito del procedimento penale RGNR 13650/08 e RGNDIB 14960/09 al Ministero dei beni culturali, sul presupposto che, nonostante l’assoluzione di (OMISSIS), dal reato di ricettazione, non era emerso dal processo che i beni provenissero da eredita’ parentale e fossero presenti nel patrimonio familiare in epoca anteriore al 1909.
2. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) e articolo 125 c.p.p., per omessa motivazione.
Premette che era stato assolto dall’accusa di ricettazione con la sentenza del Tribunale di Napoli divenuta irrevocabile in data 4.7.2013, sentenza che aveva disposto la restituzione agli aventi diritto di quanto in sequestro, ossia dei beni archeologici rinvenuti presso le sue abitazioni. Nel corso del procedimento di esecuzione erano state interpellate la Soprintendenza e l’Avvocatura distrettuale, sulla base dei cui pareri il Giudice aveva ritenuto i beni in sequestro “di significato archeologico” e, dunque, per legge, di proprieta’ dello Stato ex articolo 826 c.c., comma 2, e Regio Decreto n. 364 del 1909, articolo 15; a seguito del rigetto dell’istanza di restituzione, aveva presentato ricorso per cassazione che aveva qualificato il mezzo esperito come opposizione, a sua volta, rigettata. Lamenta che in tale ultimo provvedimento erano state ignorate le argomentazioni giuridiche proposte e ci si era limitati a ribadire che lo Stato fosse proprietario per legge di tutti i beni archeologici rinvenuti nel sottosuolo e che la presunzione fosse superabile solo se si provava che il bene rinvenuto si trovava nel suo patrimonio in data anteriore al 1909 o che era stato acquisito quale premio del rinvenimento.
2.1. Con il secondo motivo deduce la violazione dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) e c), in relazione all’individuazione dell’avente diritto alla restituzione ed alla portata preclusiva del giudicato. Il Giudice dell’esecuzione non aveva ricostruito in modo appropriato il sistema normativo. Innanzi tutto, il Regio Decreto n. 364 del 1909, articolo 15 non prevedeva alcuna presunzione o titolo di proprieta’ a favore dello Stato in relazione a beni d’interesse archeologico rinvenuti a seguito di uno scavo, ma si limitava a regolare i rapporti tra lo Stato ed il proprietario del fondo in ordine alla legittimazione ad effettuare gli scavi ed alla proprieta’ di quanto emerso. L’estensione speciale, e non generale, della norma era confermata dai successivi articoli: l’articolo 17 prevedeva la possibilita’ che i privati autorizzati realizzassero degli scavi e disponeva che la meta’ di quanto rinvenuto restasse nella proprieta’ privata mentre l’altra meta’ fosse implicitamente assegnata allo Stato; l’articolo 18 invece regolava le scoperte del privato disponendo che la meta’ dei beni spettasse al proprietario del fondo ove erano stati rinvenuti; percio’, l’articolo 15 non fissava una regola generale di appartenenza allo Stato dei suddetti beni, ma limitava tale regola agli scavi effettuati dal Governo. In ogni caso, anche a voler interpretare l’articolo 15 nei sensi dell’ordinanza impugnata ed a ritenere gli articoli 17 e 18 come implicitamente abrogati, il ragionamento giuridico appariva inappropriato: l’articolo 15 non contemplava una presunzione legale di appartenenza allo Stato dei beni rinvenuti, ma prevedeva un modo di acquisto della proprieta’ degli stessi, a seguito dell’eventuale rinvenimento nel sottosuolo. Lo stesso era a dirsi in relazione all’articolo 826 c.c., comma 2. Ne conseguiva che era lo Stato, nel momento in cui reclamava la proprieta’ di un bene, a dover dimostrare la sussistenza delle condizioni per l’operativita’ dell’acquisto ai sensi del Regio Decreto n. 364 del 1909, articolo 15 o dell’articolo 826 c.c., il che era coerente con le comuni regole dell’onere probatorio nelle azioni di rivendica della proprieta’. La conclusione non sarebbe mutata anche usando la categoria inappropriata della “presunzione legale”. Spettava allo Stato provare il dato noto – il bene e’ stato rinvenuto in Italia in uno scavo dopo il 1909 – per potersi giovare della presunzione di un fatto ignoto – la proprieta’ del bene -. In definitiva, sia che si trattasse dell’acquisto della proprieta’ a titolo originario, sia che si trattasse di una presunzione legale relativa, spettava comunque allo Stato la prova che i beni sequestrati fossero stati rinvenuti in territorio nazionale e non estero, dopo il 1909, a seguito di uno scavo.
Peraltro, anche a correggere la motivazione dell’ordinanza sulla base di altri indici normativi, comunque s’imponeva l’annullamento e la restituzione del bene. Il Decreto Legislativo n. 42 del 2004, articolo 91, secondo cui “le cose indicate nell’articolo 10, da chiunque ed in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato”, non si applicava al caso di specie. Dal combinato disposto degli articoli 10 e 13 si ricavava che quanto rinvenuto nel sottosuolo apparteneva allo Stato se era un bene culturale; un bene culturale era tale, qualora non fosse appartenuto gia’ allo Stato, solo se fosse stato d’interesse “particolarmente importante” e fosse intervenuta la dichiarazione prevista dall’articolo 13, ossia la dichiarazione d’interesse culturale. In giurisprudenza si riteneva che, ai fini della configurazione del reato d’impossessamento di beni culturali, fosse necessario che i beni oggetto materiale del reato fossero qualificati come tali in un formale provvedimento dell’autorita’ amministrativa, in quanto rivestissero un oggettivo interesse eccezionale o particolarmente importante. Dunque, in mancanza della dichiarazione ex articolo 13 il bene non poteva definirsi culturale e non apparteneva allo Stato. Secondo l’Avvocatura, invece, poiche’ il bene era dello Stato, non era necessaria la dichiarazione d’interesse.
Ribadisce un’opposta lettura delle norme: poiche’ il bene non era statale, lo poteva diventare solo con la dichiarazione d’interesse che rendeva il bene “culturale”, cioe’ rientrante tra quelli dell’articolo 10 e quindi soggetto all’attribuzione della proprieta’ statale prevista dall’articolo 91. Precisa che, nella specie, la dichiarazione d’interesse culturale non era stata mai formulata.
Evidenzia che il Decreto Legislativo n. 42 del 2004 non era applicabile al caso in esame perche’ i beni erano stati ritrovati in data anteriore al 2004, come dimostrato in processo.
Infine, la sentenza aveva escluso la sua responsabilita’ dal reato di ricettazione e conseguentemente aveva stabilito che i beni non rientravano tra quelli culturali e la loro proprieta’ non poteva essere attribuita allo Stato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. E’ necessario sgomberare il campo da un equivoco interpretativo che sovente s’insinua, in modo peraltro suggestivo, negli argomenti del ricorrente: altro e’ il profilo dell’accertamento della responsabilita’ penale, altro quello civilistico della proprieta’ e, per conseguenza, dell’accertamento del diritto alla restituzione.
3.1. Quanto al primo profilo, significativamente questa Sezione con sentenza n. 28929/04, Mugnaini, Rv 229421 e 229422, citata dal ricorrente a sostegno delle sue ragioni, ha affermato che ai fini della configurabilita’ del reato di impossessamento di beni culturali, attualmente previsto dal Decreto Legislativo n. 42 del 2004, articolo 176 (codice dei beni culturali e del paesaggio), a differenza delle disposizioni previgenti di cui alla L. n. 1089 del 1939, articolo 67 e al Decreto Legislativo n. 490 del 1999, articolo 125, e’ necessario che i beni oggetto materiale del reato siano qualificati come tali in un formale provvedimento dell’autorita’ amministrativa, in quanto rivestano un oggettivo interesse, che risulti eccezionale o particolarmente importante; pertanto, quando si tratta di un bene mai denunziato all’autorita’ competente, deve avere inizio il procedimento per la dichiarazione di interesse culturale, prevista dal citato Decreto Legislativo n. 42 del 2004, articolo 13, e a tal fine esso puo’ essere legittimamente sottoposto a sequestro probatorio qualora sia presente il “fumus” del c.d. “furto d’arte”, desunto dalle caratteristiche della “res” in riferimento al valore comunicativo spirituale ed ai requisiti peculiari attinenti alla sua tipologia, localizzazione, rarita’ o analoghi criteri (mass. uff.) e che la prova della illegittima provenienza dei beni di interesse archeologico, al fine della configurabilita’ del reato di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato, anche nella formulazione del Decreto Legislativo n. 42 del 2004, articolo 176, non e’ a carico dell’imputato, ma della pubblica accusa (mass. uff.).
Orbene, e’ certo che il Giudice di merito abbia ritenuto il ricorrente con sentenza divenuta irrevocabile non responsabile del reato ascrittogli ed il tema e’ fuori discussione, al pari delle regole di diritto affermate da questa Sezione penale in precedenti occasioni, di cui la sentenza citata e’ esempio.
Ma il problema posto all’attenzione del Collegio in questo caso e’ altro: se sia corretta la decisione del Giudice dell’esecuzione, a fronte della sentenza di assoluzione, di restituire i beni allo Stato piuttosto che all’odierno ricorrente, il che obbliga alla ricostruzione della disciplina normativa non dal punto di vista penalistico, bensi’ civilistico.
3.2. Soccorre allora il riferimento alle sentenze civili di questa Corte, in particolare ad una tra le piu’ ampie, la n. 22501/04, Rv 578633, che ha ricostruito la disciplina normativa della materia, con ampi riferimenti alla giurisprudenza precedente.
Innanzi tutto, l’articolo 826 c.c., comma 2, dispone che: “fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato… le cose di interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo…”; l’articolo 840 limita l’estensione della proprieta’ del suolo al sottosuolo, mediante il rinvio alle leggi sulle antichita’ e belle arti; analogo limite e rinvio e’ effettuato dall’articolo 932 per quanto riguarda l’applicazione della disciplina del tesoro al ritrovamento degli oggetti di interesse storico, artistico, archeologico, paletnologico etc.
La L. Speciale 1 giugno 1939, n. 1089, anteriore all’adozione del codice civile, sulla tutela delle cose d’interesse artistico e storico, dispone al capo 5, che detta la disciplina dei ritrovamenti e delle scoperte, che i reperti archeologici (o, in genere, le altre cose di cui all’articolo 1 della stessa legge) ritrovati a seguito di ricerche effettuate dallo Stato, da concessionari o dai proprietari del suolo, debitamente autorizzati, ovvero fortuitamente scoperti, appartengono allo Stato (articolo 44, comma 1; articolo 46, comma 1; articolo 47, comma 3 e articolo 49, comma 1).
Dalle richiamate disposizioni risulta, dunque, che le cose di interesse archeologico appartengono comunque, ed a titolo originario, allo Stato (si veda Cass. n. 10355/95 e Cass. n. 66/93 che ha ammesso la tutela del diritto soggettivo dello Stato anche in via d’urgenza).
Un’eccezione a tale principio riguarda i beni archeologici di proprieta’ di privati anteriormente all’entrata in vigore della ancor piu’ risalente L. 20 giugno 1909, n. 364, che, disciplinando specificamente all’articolo 15 i reperti archeologici, ha, per la prima volta, introdotto la regola della proprieta’ a titolo originario dello Stato sulle cose d’interesse archeologico, precisando che, nel caso in cui i privati abbiano effettuato l’acquisto prima di tale data possono continuare a godere del diritto. Altre eccezioni sono previste dall’attuale ordinamento in riferimento ad ipotesi di proprieta’ privata di beni archeologici ritrovati o scoperti dopo il 1909 quando i beni stessi siano stati ceduti dallo Stato come indennizzo (articolo 43), premio (articoli 44, 46, 47 e 49) o ad altro titolo (L. n. 1089 del 1939, articoli 24 e 25), ma e’ indubbio che tali ipotesi rappresentano delle eccezioni rispetto al principio generale della proprieta’ statale e comunque rappresentano fatti residuali e anormali rispetto al fatto normale della proprieta’ statale. Inoltre, salvo che per gli acquisti anteriori al 1909, si tratta di acquisti a titolo derivativo, che presuppongono la proprieta’ statale a titolo originario. Un’ulteriore eccezione riguarda poi beni archeologici acquistati all’estero di cui si e’ occupata Cass. n. 12166/95.
In conclusione puo’ dunque affermarsi che i beni archeologici ovunque essi si trovino, sia che siano gia’ stati oggetto di ritrovamento oppure no, appartengono allo Stato. Il privato che affermi al contrario il proprio diritto di proprieta’ su tali beni puo’ soltanto eccepire che i beni stessi sono stati acquisiti in proprieta’ privata prima del 1909 ovvero far valere una delle ipotesi dianzi indicate in cui la legge statale consente che i beni stessi ricadano in proprieta’ di privati. In tutte tali ipotesi l’onere di fornire la prova di quanto eccepito grava sul privato, come stabilito da Cass. n. 10355/95.
Non muta il quadro normativo il riferimento al Decreto Legislativo n. 42 del 2004, perche’ i beni archeologici per la definizione dell’articolo 13 sono sempre culturali, a meno che non appartengano ai privati, il che puo’ verificarsi solo nei rari casi sopra passati in rassegna.
3.3. Il Giudice dell’esecuzione, nell’ordinanza impugnata, ha dato puntuale applicazione al principio di diritto affermato dalla Cassazione civile. Appurato tramite le Soprintendenze ai beni archeologici di Napoli e Pompei in data 15.1.2009 che i beni sequestrati erano d’interesse archeologico, ne ha disposto la restituzione allo Stato, siccome il privato non ha provato ne’ allegato neanche nel presente ricorso per cassazione che li possedeva da data anteriore al 1909. Del resto, e’ stato anche chiarito con sentenza sempre della 1 sezione civile n. 2995/06, Rv 586959, che il mancato riconoscimento dell’interesse culturale di oggetti archeologici da parte dell’autorita’, a mezzo di apposito atto di “notifica”, non dimostra il carattere privato del bene, e la sua impossibilita’ di ascriverlo al patrimonio indisponibile dello Stato (e quindi la possibilita’ di apprensione o usucapione da parte di privati), essendo il requisito del carattere culturale insito negli stessi beni, per il loro appartenere alla categoria delle cose d’interesse archeologico.
Il ricorso e’ infondato e va pertanto rigettato.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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