Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza 21 maggio 2018, n. 12437.
Le massime estrapolate:
Reintegra del dipendente licenziato per superamento del periodo di comporto se la crisi depressiva che lo ha costretto alle ripetute assenze è dipesa dal mobbing del datore.
Inoltre,
Il consulente tecnico d’ufficio può acquisire documenti pubblicamente consultabili o provenienti da terzi o dalle parti nei limiti in cui siano necessari sul piano tecnico ad avere riscontro della correttezza delle affermazioni e produzioni documentali delle parti stesse, o quando emerga l’indispensabilita’ dell’accertamento di una situazione di comune interesse, indicandone la fonte di acquisizione e sottoponendoli al vaglio del contraddittorio, non potendo tuttavia ricercare aliunde cio’ che costituisca materia rimessa all’onere di allegazione e prova delle parti stesse.
Ne’ in ogni caso le parti possono sottrarsi all’onere probatorio loro proprio, rimettendo l’accertamento dei propri diritti all’attivita’ del consulente: neppure nel caso di consulenza tecnica d’ufficio cosiddetta “percipiente”, benche’ essa possa costituire in se’ fonte oggettiva di prova (a differenza di quella cosiddetta “deducente”, che ha ad oggetto l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti, cosi’ demandando al consulente l’accertamento di determinate situazioni di fatto, giacche’, anche in siffatta ipotesi, e’ necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti.
Il consulente tecnico d’ufficio puo’ assumere, ai sensi dell’articolo 194 c.p.c., comma 1, anche in assenza di espressa autorizzazione del giudice, informazioni da terzi e verificare fatti accessori necessari per rispondere ai quesiti; non anche accertare i fatti posti a fondamento di domande ed eccezioni, il cui onere probatorio incomba sulle parti: sicche’ gli accertamenti compiuti dal consulente oltre i predetti limiti sono nulli per violazione del principio del contraddittorio e percio’ privi di qualsiasi valore, probatorio o indiziario. E quelle informazioni, se ne siano indicate le fonti in modo da permetterne il controllo delle parti, ben possono concorrere, con le altre risultanze di causa, alla formazione del convincimento del giudice
Sentenza 21 maggio 2018, n. 12437
Data udienza 16 gennaio 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Presidente
Dott. LORITO Matilde – Consigliere
Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere
Dott. LEO Giuseppina – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 17797/2016 proposto da:
(OMISSIS) S.P.A., in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 97/2015 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI SEZIONE DISTACCATA di SASSARI depositata il 14/01/2016 r.g.n. 148/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/01/2018 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTO
Con sentenza 14 gennaio 2016, la Corte d’appello di Cagliari, sez. dist. di Sassari dichiarava illegittimo il licenziamento intimato da (OMISSIS) s.p.a. con lettera 8 ottobre 2004 alla dipendente (OMISSIS) per superamento del periodo di comporto, condannando la societa’ datrice alla sua reintegrazione nel posto di lavoro in mansioni equivalenti a quelle svolte prima del maggio 2001 e al pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio, di un’indennita’ pari alla retribuzione globale di fatto dalla data di licenziamento a quella di effettiva reintegrazione, oltre accessori di legge, delle somme, gia’ rivalutate e comprensive di interessi legali, a titolo di danno biologico, di Euro 29.340,00 per invalidita’ temporanea (per i periodi dal 22 aprile al 3 ottobre 2003 e dal 20 marzo al 30 settembre 2004) e di Euro 15.709,78 per invalidita’ permanente nella misura del 6%: cosi’ riformando la sentenza di primo grado, che aveva invece rigettato le domande della lavoratrice.
In esito a diffusa ed argomentata ricostruzione del quadro probatorio, la Corte territoriale riteneva un comportamento mobbizzante da parte datoriale per lo svuotamento progressivo delle mansioni di piu’ elevato contenuto professionale svolte dalla lavoratrice fino al mese di maggio 2001, in un clima di sua crescente ed afflittiva emarginazione: determinante l’insorgenza in (OMISSIS), secondo un nesso eziologico verificato (e stimato nelle sue conseguenze di danno) sulla base della rinnovata C.t.u. medico-legale criticamente valutata, di una sindrome depressiva persistente, giustificante le numerose assenze dal lavoro e comportante l’illegittimita’ del licenziamento e le pronunce sopra indicate.
Con atto notificato il 18 luglio 2016, la societa’ datrice ricorreva per cassazione con quattro motivi, cui resisteva la lavoratrice con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce nullita’ della sentenza o del procedimento in riferimento all’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, articoli 115, 116, 194 c.p.c., articolo 414 c.p.c., n. 5, articoli 87 e 118 disp. att. c.p.c., per assunzione a fondamento della decisione di una documentazione (in particolare: cartella clinica del (OMISSIS)) non ritualmente prodotta dalle parti in giudizio ne’ autorizzata, neppure sotto forma di informazioni ai sensi dell’articolo 194 c.p.c., di formazione anche successiva al licenziamento, recepita dalla Corte territoriale dal C.t.u. (ri)nominato, che su un tale illegittimo materiale probatorio aveva essenzialmente basato l’accertamento della patologia riscontrata alla lavoratrice e la determinazione dei suoi esiti pregiudizievoli: con vizi evidenti del contenuto motivo della sentenza, in violazione dei principi regolanti il regime di corretta disponibilita’ e valutazione delle prove, siccome irritualmente acquisite agli atti del giudizio.
2. Con il secondo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c., articoli 115, 116 c.p.c., per difetto, a causa dell’essenziale fondamento della decisione su documenti non in atti, della prova, a carico del lavoratore che rivendichi pretese risarcitorie per effetto di una condotta di mobbing in proprio danno, degli episodi vessatori reiterati che essa integrino.
3. Con il terzo, la ricorrente deduce nullita’ della sentenza o del procedimento in riferimento all’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, articolo 118 disp. att. c.p.c., articolo 2087 c.c., per la non considerazione dell’elemento soggettivo dell’intento persecutorio, integrante, insieme con quello oggettivo di reiterazione delle condotte vessatorie nell’ambiente di lavoro, la condotta di mobbing: ridondante sulla nullita’ della decisione, siccome priva di un tale riferimento motivo.
4. Con il quarto, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli articoli 2087, 2697 c.c., articoli 115, 116 c.p.c., per difetto di prova, a carico del lavoratore, dell’intento persecutorio (ovvero dell’ascrivibilita’ dei fatti reiterati di prevaricazione e umiliazione professionale in un unico programma vessatorio e di emarginazione), non esaurendosi in particolare la condotta di mobbing in un demansionamento, elemento di possibile integrazione oggettiva di quella.
5. Il primo motivo, relativo a nullita’ della sentenza o del procedimento in riferimento all’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, articoli 115, 116, 194 c.p.c., articolo 414 c.p.c., n. 5, articoli 87 e 118 disp. att. c.p.c., per assunzione a base della decisione di documentazione non ritualmente prodotta in giudizio, e’ infondato.
5.1. In disparte un profilo di inammissibilita’ per violazione del principio di specificita’, prescritto dall’articolo 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, per inosservanza del principio di autosufficienza, in assenza di specifica indicazione, ne’ di trascrizione dei quesiti affidati al C.t.u. con i relativi poteri ed autorizzazioni commessigli (Cass. 9 aprile 2013, n. 8569; Cass. 16 marzo 2012, n. 4220; Cass. 23 marzo 2010, n. 6937), questa Corte osserva quanto segue.
5.2. E’ noto che il consulente tecnico d’ufficio possa acquisire documenti pubblicamente consultabili o provenienti da terzi o dalle parti nei limiti in cui siano necessari sul piano tecnico ad avere riscontro della correttezza delle affermazioni e produzioni documentali delle parti stesse, o quando emerga l’indispensabilita’ dell’accertamento di una situazione di comune interesse, indicandone la fonte di acquisizione e sottoponendoli al vaglio del contraddittorio, non potendo tuttavia ricercare aliunde cio’ che costituisca materia rimessa all’onere di allegazione e prova delle parti stesse (Cass. 14 novembre 2017, n. 26893). Ne’ in ogni caso le parti possono sottrarsi all’onere probatorio loro proprio, rimettendo l’accertamento dei propri diritti all’attivita’ del consulente: neppure nel caso di consulenza tecnica d’ufficio cosiddetta “percipiente”, benche’ essa possa costituire in se’ fonte oggettiva di prova (a differenza di quella cosiddetta “deducente”, che ha ad oggetto l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti: Cass. 23 febbraio 2006, n. 3990), cosi’ demandando al consulente l’accertamento di determinate situazioni di fatto, giacche’, anche in siffatta ipotesi, e’ necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti (Cass. 26 novembre 2007, n. 24620; Cass. 13 marzo 2009, n. 6155; Cass. 26 febbraio 2013, n. 4792).
5.3. Inoltre, il consulente tecnico d’ufficio puo’ assumere, ai sensi dell’articolo 194 c.p.c., comma 1, anche in assenza di espressa autorizzazione del giudice, informazioni da terzi e verificare fatti accessori necessari per rispondere ai quesiti; non anche accertare i fatti posti a fondamento di domande ed eccezioni, il cui onere probatorio incomba sulle parti: sicche’ gli accertamenti compiuti dal consulente oltre i predetti limiti sono nulli per violazione del principio del contraddittorio e percio’ privi di qualsiasi valore, probatorio o indiziario (Cass. 10 marzo 2015, n. 4729). E quelle informazioni, se ne siano indicate le fonti in modo da permetterne il controllo delle parti, ben possono concorrere, con le altre risultanze di causa, alla formazione del convincimento del giudice (Cass. 27 agosto 2012, n. 14652; Cass. 28 gennaio 2010, n. 1901; Cass. 8 giugno 2007, n. 13428; Cass. 10 agosto 2004, n. 15411).
5.4. Ebbene, nel caso di specie la Corte territoriale ha operato una valutazione probatoria, in speCifico riguardo all’accertamento della patologia della lavoratrice oggetto della rinnovata C.t.u. medico – legale ed essenzialmente fondata sull’assenza di contestazione in ordine alla sua sussistenza, sulla documentazione medica prodotta dalla medesima (pure specificamente indicata: cosi’ in particolare al terzo capoverso di pg. 10 della sentenza) e, tramite la detta rinnovazione ampiamente giustificata (per le ragioni dall’ultimo capoverso di pg. 12 al primo di pg. 13 della sentenza), anche sulla cartella clinica del (OMISSIS), acquisita dal C.t.u. in esito all’esame dei suddetti documenti e psichiatrico della perizianda (cosi’ al terz’ultimo capoverso di pg. 13 della sentenza), per rispondere alle deduzioni critiche del C.t.p. della societa’ datrice (e segnatamente di asserita mancanza di frequenza dalla lavoratrice di psichiatri per esserne seguita nel decorso della malattia: cosi’ dall’ultimo capoverso di pg. 13 al secondo di pg. 14 della sentenza): in una funzione, non gia’ surrogatoria dell’onere probatorio della parte di dimostrare i fatti posti a fondamento della domanda, bensi’ corretta di verifica dei fatti accessori necessari per rispondere ai quesiti.
5.5. Ed occorre, infine, rilevare che la nullita’ della consulenza tecnica d’ufficio (ivi compresa quella dovuta all’eventuale allargamento dell’indagine tecnica oltre i limiti delineati dal giudice o consentiti dai poteri che la legge conferisce al consulente) ha carattere relativo: e deve pertanto essere fatta valere nella prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione, restando altrimenti sanata (Cass. 31 gennaio 2013, n. 2251). E cio’ perche’ le contestazioni ad una relazione di consulenza tecnica d’ufficio costituiscono eccezioni rispetto al suo contenuto, sicche’ sono soggette al termine di preclusione stabilito dall’articolo 157 c.p.c., comma 2 e quindi deducibili, a pena di decadenza, nella prima istanza o difesa successiva al suo deposito (Cass. 25 febbraio 2014, n. 4448; Cass. 3 agosto 2017, n. 19427). Ora, una tale tempestiva deduzione da parte datoriale non soltanto non risulta, ma neppure e’ stata allegata, essendone stata piuttosto puntualmente dedotta dalla lavoratrice l’eccepita decadenza per tardivita’ (al quart’ultimo capoverso di pg. 9 del controricorso).
6. Il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c., articoli 115, 116 c.p.c. per difetto di prova, a carico del lavoratore, di una condotta di mobbing in proprio danno, e’ inammissibile.
6.1. Oltre che per l’evidente mancanza dei suoi appropriati requisiti di erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla disposizione di legge, mediante specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimita’ o dalla prevalente dottrina (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984), la violazione denunciata non sussiste.
6.2. Essa non ricorre in relazione all’articolo 2697 c.c., posto che la norma riguarda l’attribuzione dell’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne sia gravata secondo le regole dettate da quella norma, che e’ stata anzi correttamente applicata, gravandone l’onere, in tema di mobbing, sul lavoratore (Cass. 6 ottobre 2014, n. 21001); non anche l’errore del giudice nel ritenere, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, che la parte onerata abbia assolto tale onere. In questo caso, infatti, vi e’ soltanto un erroneo apprezzamento dell’esito della prova, eventualmente sindacabile in sede di legittimita’ solo per vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. 5 dicembre 2006, n. 19064; Cass. 17 giugno 2013, n. 15107), per giunta nei piu’ circoscritti limiti devolutivi introdotti dal suo testo novellato (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439), applicabile ratione temporis.
Peraltro, nel caso di specie esso neppure ricorre, per la congrua ed esauriente argomentazione della Corte in merito (per le ragioni esposte dal penultimo capoverso di pg. 11 all’ultimo di pg. 14 della sentenza).
6.3. Ma neppure si configura la violazione degli articoli 115 e 116 c.p.c., per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito (nel che, per le ragioni dette, si risolve nella sostanza il motivo scrutinato), ma soltanto allorche’ si alleghi che il giudice medesimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. 27 dicembre 2016, n. 27000; Cass. 12 aprile 2017, n. 9356).
6.4. Sicche’, in via conclusiva, il mezzo consiste nella sostanziale contestazione della valutazione probatoria della Corte territoriale, insindacabile in sede di legittimita’ se non nei limiti detti (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694), eccedenti per le ragioni illustrate il caso di specie.
7. Il terzo motivo (nullita’ della sentenza o del procedimento in relazione all’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, articolo 118 disp. att. c.p.c., articolo 2087 c.c., per omesso riferimento all’elemento soggettivo dell’intento persecutorio integrante la condotta di mobbing) puo’ essere congiuntamente esaminato, per ragioni di stretta connessione, con il quarto (violazione e falsa applicazione degli articoli 2087, 2697 c.c., articoli 115, 116 c.p.c., per difetto di prova, a carico del lavoratore, dell’intento persecutorio soggettivamente integrante la condotta di mobbing).
7.1. Essi sono infondati.
7.2. Deve infatti essere esclusa la nullita’ denunciata per difetto assoluto di motivazione, che, come noto, non rappresenta un elemento meramente formale, ma un requisito da apprezzarsi esclusivamente in funzione della intelligibilita’ della decisione e della comprensione delle ragioni poste a suo fondamento e che nel caso di specie non sussiste, posto che le ragioni argomentate dalla Corte territoriale consentono di individuare chiaramente gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione. Sicche’, non e’ integrata la nullita’ denunciata sotto il profilo dell’error in procedendo, che non puo’ essere mai dichiarata se l’atto abbia raggiunto il suo scopo, per il principio di strumentalita’ della forma (Cass. 22 giugno 2015, n. 12864; Cass. 20 gennaio 2015, n. 920; 10 novembre 2010, n. 22845).
7.3. Neppure la sentenza impugnata e’ totalmente priva dell’esposizione delle ragioni di diritto a suo fondamento: e’ noto che soltanto una mancanza che si traduca nella radicale inidoneita’ della stessa ad esprimere la ratio decidendi, cosi’ da determinare la nullita’ della sentenza per carenza assoluta di un requisito di forma essenziale, costituisce violazione di legge denunciabile in sede di legittimita’ (Cass. 16 luglio 2009, n. 16581; Cass. 4 agosto 2010, n. 18108; Cass. 16 maggio 2003, n. 7672).
La Corte sarda ha anzi esaurientemente argomentato in ordine alla ravvisata sussistenza del mobbing denunciato (integrato da una pluralita’ di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente persecutoria: Cass. 3 marzo 2016, n. 4222). E cio’ in riferimento tanto al suo elemento obiettivo (individuabile nel minuziosamente ricostruito svuotamento progressivo delle mansioni della lavoratrice, illustrato nella sua evidenza, in esito alla critica ricostruzione del quadro probatorio, per le ragioni conclusivamente esposte al penultimo capoverso di pg. 11 della sentenza), tanto al suo elemento soggettivo dell’intendimento persecutorio, accertato nell'”atteggiamento certamente afflittivo” del datore di lavoro, all’interno di un procurato “clima di estrema tensione” all’interno dell’azienda (dall’ultimo capoverso di pg. 11 al primo di pg. 12 della sentenza).
8. Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese di giudizio secondo il regime di soccombenza, da liquidare come in dispositivo in favore dello Stato, a norma del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 133, per l’ammissione della parte vittoriosa al gratuito patrocinio con Delib. Consiglio dell’Ordine Forense di Sassari del 26 luglio 2016.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso e condanna la societa’ alla rifusione, in favore dello Stato, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.
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