Consiglio di Stato, Sezione quinta, Sentenza 21 maggio 2020, n. 3225.
La massima estrapolata:
L’annullamento di un atto normativo, come il Regolamento comunale impugnato, fonte del diritto (seppur territorialmente delimitata) suscettibile di uso reiterato nel tempo per i caratteri della generalità, astrattezza e innovatività, è efficace erga omnes: nel senso che ne comporta la rimozione dall’ordinamento in modo assoluto, cioè per chiunque possa, anche successivamente, esserne destinatario, ancorché non parte del giudizio in senso formale; comporta dunque la preclusione, per l’amministrazione, di continuare ad applicare la norma.
Sentenza 21 maggio 2020, n. 3225
Data udienza 5 marzo 2020
Tag – parola chiave: Atti amministrativi – Regolamento comunale – Impugnazioni – Annullamento – Efficacia erga omnes – Ragioni
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quinta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7103 del 2019, proposto da
C.N. Confederazione Nazionale de. e de. Pi. e Me. Im. di Ro., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato St. Be., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia;
contro
Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Al. Ri., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso il suo studio in Roma, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio Sezione Seconda n. 05588/2019, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 5 marzo 2020 il Cons. Stefano Fantini e uditi per le parti gli avvocati Bertuzzi, e Rocchi in dichiarata delega di Rizzo;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1.- La C.N.-Confederazione Nazionale de. e de. Pi. e Me. Im. di Ro., associazione di categoria del settore, ha interposto appello nei confronti della sentenza 3 maggio 2019, n. 5588 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sez. II-ter, che ha accolto in parte il suo ricorso avverso la deliberazione dell’Assemblea Capitolina di Roma Capitale n. 47 del 17 aprile 2018, recante il “Regolamento per l’esercizio delle attività commerciali ed artigianali nel territorio della (omissis)”.
Il Regolamento è informato alla previsione di tre ambiti territoriali di disciplina per il (omissis) di Roma: a) un primo ambito denominato “(omissis) (tessuti da (omissis) a (omissis))”; b) un secondo ambito, intermedio, denominato “(omissis) (tessuti da (omissis) a (omissis))”, recante un livello di regolamentazione moderatamente rigido; c) un terzo livello più ristretto denominato “Sito Unesco e Rioni che ricadono anche parzialmente nello stesso”, in riferimento al quale sono state adottate prescrizioni più stringenti, volte a garantire la qualità dell’offerta nel settore alimentare e comprensive dei divieti di nuove aperture in tale settore a causa del superamento delle soglie di saturazione. In tale ultimo cerchio concentrico in cui è ripartita la città sono state adottate misure eccezionali di contingentamento delle attività commerciali ed artigianali nel settore alimentare.
Con il ricorso in primo grado la C.N. aveva dedotto l’illegittimità del Regolamento, in particolare dell’art. 14, commi 1, 2 e 4, dell’art. 8, comma 1, dell’art. 5, commi 1 e 3, dell’art. 12, comma 2, dell’art. 10, comma 1, lett. e), per violazione, tra gli altri, degli artt. 3, 41 e 97 Cost., degli artt. 1 e 3 della legge n. 241 del 1990, nella considerazione del difetto di motivazione, conseguente alla mancata allegazione della Relazione relativa ai dati presenti nel SIC (Sistema Informativo del Commercio) di Roma Capitale, del difetto di istruttoria, nonché ancora della violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e non discriminazione da parte delle norme regolamentari, ovviamente ciascuna sotto i differenziati profili che vengono in emersione.
2. – La sentenza appellata ha in parte dichiarato inammissibile il ricorso per difetto di legittimazione attiva del C.N. limitatamente alle censure avverso gli artt. 5, commi 1 e 3, e 14, commi 4 e 5, della delibera, sulla disciplina del consumo sul posto, per potenziale conflitto di interesse tra i soggetti rappresentati, ed in parte ha accolto il ricorso, limitatamente al terzo motivo, sull’impugnativa della prescrizione dell’art. 8, comma 1, disponendone l’annullamento “nella parte in cui subordina l’apertura delle attività ivi meglio elencate al possesso di “un’anzianità di iscrizione alla Camera di Commercio o all’albo delle imprese artigiane non inferiore a tre anni” ed all’esercizio “da almeno tre anni” dell’attività “.
3.- Con l’appello la C.N. ha lamentato l’erroneità della sentenza deducendo, in relazione alla statuizione di inammissibilità parziale per difetto di legittimazione attiva, la violazione dell’art. 4 della legge 11 novembre 2011, n. 180; reiterando poi, come motivi di critica della sentenza, le censure di primo grado respinte.
4. – Si è costituita in resistenza, con memoria di forma, Roma Capitale, chiedendo la reiezione del ricorso.
5. – All’udienza pubblica del 5 marzo 2020 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1.- Il primo motivo di appello critica la statuizione di prime cure che ha dichiarato l’inammissibilità parziale del ricorso, con riguardo alle censure rivolte avverso gli artt. 5, commi 1 e 3, e 14, comma 4, della delibera, sulla disciplina del consumo sul posto, per difetto di legittimazione attiva dell’associazione appellante, associazione di rappresentanza delle imprese artigiane, degli imprenditori e delle piccole e medie imprese e del commercio di Roma, in quanto svolte nell’interesse dei soli artigiani ed esercenti la vendita al dettaglio di prodotti alimentari, nello specifico avendo come controinteressati gli esercizi di somministrazione, categorie entrambe rappresentate dall’associazione, che viene dunque a trovarsi in una condizione di potenziale conflitto di interessi.
Per l’appello la detta statuizione viola l’art. 4 (Legittimazione ad agire delle associazioni) della legge 11 novembre 2011, n. 180 (Norme per la tutela della libertà d’impresa. Statuto delle imprese), che consente alle associazioni di categoria, dalle determinate caratteristiche dimensionali, di proporre azioni sia a tutela di interessi relativi alla generalità dei soggetti appartenenti alla categoria professionale, sia a tutela di interessi omogenei ma relativi solo ad alcuni soggetti. L’appello aggiunge come non vi sia una categoria di imprese di esercizi di somministrazione dagli interessi contrapposti a quelli delle imprese artigiane e che nessuno degli esercizi di somministrazione iscritti al C.N. ha manifestato dissenso al ricorso di primo grado, anche perché le norme regolamentari contestate non intendono prevenire fenomeni di concorrenza scorretta verso gli esercizi di somministrazione, essendo la concorrenza materia riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, con conseguente ipotetica nullità di una previsione regolamentare se così intesa.
L’appello reitera dunque i motivi di impugnazione in primo grado riguardo all’art. 5 del Regolamento, nella parte in cui impone che le attività caratterizzate dal consumo sul posto possono destinare all’uopo una superficie interna calpestabile non superiore al 25 per cento della superficie totale dell’esercizio e comunque non più di cinquanta metri quadrati, prevedendo inoltre che tale superficie deve essere distinta e mantenuta separata da quella destinata all’attività di vendita o di produzione; per la C.N., conseguenzialmente illegittima è anche la disciplina transitoria dell’art. 14 che impone agli esercizi di vicinato che già effettuano il consumo sul posto di adeguarsi alle prescrizioni del predetto art. 5 entro dodici mesi dall’entrata in vigore del Regolamento. I profili di illegittimità sono ravvisati nella violazione della disciplina regionale sull’artigianato (art. 6 l.r. Lazio 17 febbraio 2015, n. 3) e di commercio (artt. 24 e 25 della l.r. Lazio 18 novembre 1999, n. 33) che non consentono tali liniti dimensionali; e il Comune può disciplinare il decoro esterno di un esercizio commerciale, ma non le modalità dell’attività del “consumo sul posto” all’interno dell’esercizio.
Il motivo sulla statuizione in rito è fondato.
L’art. 4 della legge 11 novembre 2011, n. 180 (Norme per la tutela della libertà d’impresa. Statuto delle imprese) dispone: “le associazioni di categoria rappresentate in almeno cinque camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura […], ovvero nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e le loro articolazioni territoriali e di categoria sono legittimate a proporre azioni in giudizio sia a tutela di interessi relativi alla generalità dei soggetti appartenenti alla categoria professionale, sia a tutela di interessi omogenei relativi solo ad alcuni soggetti”.
Nel caso di specie, la C.N. ha agito a tutela degli interessi delle imprese artigiane e dei soggetti esercenti la vendita al dettaglio di prodotti alimentari, dunque di interessi omogenei rappresentati dalla confederazione. Il che è sufficiente a costituirne la legittimazione, a prescindere dalla compatibilità delle posizioni azionate rispetto agli altri soggetti appartenenti alla categoria.
La soluzione trova indiretta conferma anche nella giurisprudenza per cui è legittimata ad intervenire in giudizio l’associazione rappresentativa di imprese che faccia valere interessi omogenei dei propri iscritti, anche se non sia investita della rappresentanza dell’intera categoria, purché operi per perseguire gli scopi statutari di tutela degli interessi degli operatori aderenti (Cons. Stato, Ad. plen., 21 maggio 2019, n. 8).
2. – Per quanto riguarda invece la censura contro l’art. 5, commi 1 e 3, del Regolamento (che impone per il consumo sul posto la adibizione di una superficie interna calpestabile non superiore al 25 per cento della superficie totale dell’esercizio e comunque di non più di cinquanta metri quadrati, prevedendo che tale superficie sia distinta e mantenuta separata da quella destinata all’attività di vendita o di produzione) nonché avverso la correlata disciplina transitoria dell’art. 14, osserva il Collegio che l’art. 5 della deliberazione dell’Assemblea capitolina n. 47 del 17 aprile 2018 risulta già espunto in forza di annullamento di cui alle recenti sentenze di questa V Sezione, 8 gennaio 2020, n. 139 e n. 141, che hanno accolto i motivi nei rispettivi ricorsi, annullando “tutte le illogiche previsioni delle contestate disposizioni contenute nell’art. 5 del regolamento, che tutte determinano, in sostanza, limitazioni rilevanti all’attività degli esercizi di vicinato non autorizzati alla somministrazione di alimenti e bevande, in assenza di giustificazioni obiettive”.
Si tratta pertanto di previsioni regolamentari già annullate in sede giurisdizionale.
Vale a questo punto ricordare che, per costante giurisprudenza, l’annullamento di un atto normativo, come il Regolamento comunale impugnato, fonte del diritto (seppur territorialmente delimitata) suscettibile di uso reiterato nel tempo per i caratteri della generalità, astrattezza e innovatività, è efficace erga omnes: nel senso che ne comporta la rimozione dall’ordinamento in modo assoluto, cioè per chiunque possa, anche successivamente, esserne destinatario, ancorché non parte del giudizio in senso formale (in termini, tra le tante, Cons. Stato, VI, 11 ottobre 2019, n. 5164; IV, 19 febbraio 2007, n. 883; IV, 12 maggio 2006, n. 2671); comporta dunque la preclusione, per l’amministrazione, di continuare ad applicare la norma.
Ne discende che è qui venuto meno l’oggetto della doglianza in giustizia. Il che a questo punto preclude a questo giudice di prenderla in considerazione.
Il motivo è dunque improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, anche riguardo all’impugnazione dell’altra disposizione di cui all’art. 14, comma 4, sulla disciplina transitoria dell’adeguamento alle prescrizioni nei dodici mesi dall’entrata in vigore del Regolamento: la retroattività dell’annullamento è tale che chiunque vi possa essere interessato può reclamare ex tunc la sua portata ripristinatoria; il esclude ogni obbligo di adeguamento e il venir meno della base per qualsivoglia atto applicativo in ipotesi posto in essere dall’amministrazione (cfr. Cons. Stato, IV, 4 maggio 2004, n. 2754).
3. – Con il secondo motivo si deduce il vizio motivazionale della sentenza sulle censure che contestano le modalità di esercizio della potestà regolamentare di Roma Capitale con riferimento alla disciplina del commercio nel (omissis): in particolare quanto alla preclusione indiscriminata all’apertura di nuove strutture di vendita alimentare, senza una specifica e puntuale previa attività istruttoria, contro il principio di liberalizzazione del commercio.
Il motivo è infondato, per ormai consolidata giurisprudenza, cui può farsi integrale rinvio.
Peraltro giova premettere che la contestata disciplina regolamentare, come esposto, prevede tre ambiti territoriali caratterizzati da differente disciplina, al fine, come da preambolo, di “conciliare le esigenze di sviluppo del tessuto economico della (omissis) con quelle di tutela del decoro nelle aree di maggior pregio, alcune delle quali attualmente caratterizzate da un diffuso degrado dovuto anche alla scarsa qualità offerta dalle attività commerciali e artigianali della tipologia alimentare”, secondo le emergenze risultanti dallo studio effettuato a supporto del nuovo Regolamento e basato sull’elaborazione dei dati presenti nel sistema S.I.C. (Sistema Informativo del Commercio) di Roma Capitale riferiti al 30 marzo 2017.
Con questa premessa, va precisato che il Regolamento per l’esercizio delle attività commerciali ed artigianali nel territorio della (omissis) ha fondamento, oltre che negli artt. 117 e 118 Cost., negli artt. 3, 4, comma 3, d.lgs. n. 267 del 2000 e nell’art. 5 (Ruolo del comune) della l.r. Lazio 6 agosto 1999, n. 14 (Organizzazione delle funzioni a livello regionale e locale per la realizzazione del decentramento amministrativo); in tale materia inoltre il Comune è titolare di competenze proprie ai sensi dell’art. 10 (Disposizioni particolari), comma 1, lett. b), d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59).
Le limitazioni sono state previste all’esito di un’istruttoria che ha tenuto conto di elementi oggettivi (l’elaborazione dei dati presenti nel sistema S.I.C. – Sistema Informativo del Commercio di Roma Capitale) e si è conclusa con l’evidenziazione del dato che la concentrazione delle attività commerciali ed artigianali di tipo alimentare dove si svolge anche il consumo sul posto dei prodotti alimentari venduti “ha determinato un aumento del livello di pressione antropica tale da compromettere la sostenibilità ambientale del territorio”
Dette limitazioni, contenute nell’impugnato art. 5 della delibera n. 47 del 2018, appaiono commisurate alle esigenze di equilibrato rapporto con valori e interessi pubblici e generali di primo ordine, sicché adottate nel rispetto dei principi eurounitari di ragionevolezza e proporzionalità : è rispetto a quelli e alla loro primaria incidenza per la vita collettiva che va condotta ogni operazione di bilanciamento tra le esigenze di liberalizzazione in funzione di promozione della concorrenza e la salvaguardia di esigenze di ordine imperativo a tutela di interessi generali.
Inoltre, come la giurisprudenza di questa Sezione ha affermato riguardo al precedente Regolamento, di cui alla delibera dell’Assemblea Capitolina n. 36 del 2006, ma con ragionamento che vale anche per la fattispecie in esame, la disciplina contenente limitazioni “non contrasta con la normazione statale in materia di liberalizzazione del commercio (nella misura in cui questa contempla l’esclusione della apponibilità di limitazioni quantitative e qualitative di vendita delle merci per gli esercizi autorizzati), né con il principio costituzionale di libertà dell’iniziativa economica privata, la quale deve comunque essere coordinata ed indirizzata alle utilità e finalità sociali, non potendosi svolgere in contrasto con esse” (così Cons. Stato, V, 30 luglio 2018, n. 4663).
In linea generale, a prescindere dunque dalla vicenda di Roma Capitale, la giurisprudenza ha chiarito che non sono illegittimi gli interventi tesi a regolamentare le attività economiche, qualora risultino necessari o comunque appaiano proporzionati rispetto alla tutela dei beni costituzionalmente protetti: il principio di liberalizzazione delle attività economiche non è di portata assoluta, perché ove del caso va rapportato a esigenze generali di salvaguardia di altri beni di interesse collettivo, e tra questi la salvaguardia e tutela del territorio, dell’ambiente, dei beni culturali e paesaggistici (Cons. Stato, V, 14 gennaio 2019, n. 298).
4. – Con il terzo mezzo, l’appello nega la configurabilità di un’anomalia di densità delle attività artigianali rispetto alla domanda che va soddisfatta nel territorio del I Municipio, nel cui ambito ricadono molti dei rioni più turisticamente attrattivi di Roma; e anzi negli ultimi dieci anni sono diminuiti i laboratori artigianali. L’appello allega inoltre l’illegittimità anche dell’art. 14, comma 2, che preclude il subingresso su cessione delle attività commerciali di tipo artigianale, per violazione degli artt. 3 (penalizzando l’imprenditore individuale rispetto alle società di capitali, che possono intervenire sull’assetto societario) e 41 Cost..
Anche tale motivo, che torna a contestare la valutazione del livello di pressione antropica idonea a compromettere la sostenibilità ambientale del territorio effettuata dall’amministrazione, è infondato.
Gli argomenti addotti per contestare il divieto, contenuto nell’art. 14 del Regolamento, di aperture di nuove attività di vicinato al dettaglio di generi appartenenti al settore alimentare in forma di esercizio di vicinato e l’apertura di nuove attività artigianali per un triennio, non evidenziano una manifesta irragionevolezza della scelta dell’amministrazione, bene improntata, come afferma l’appellata sentenza, a mantenere alto lo standard della qualità dell’offerta commerciale con il mezzo di una discriminazione qualitativa di accesso al mercato, con restrizioni e conformazioni per tipologie e per settori merceologici.
In ogni caso, la sentenza appellata ha ritenuto che, pur a fronte della prospettazione di dati numerici contrastanti, “sussiste quella rilevante concentrazione di esercizi che è stata rilevata nell’area di tutela” e che giustifica la previsione di un tempo transitorio per il quale sono vietate aperture di nuovi esercizi.
Valgono, per il resto, le considerazioni supra esposte sulla necessaria comparazione degli interessi, che esclude la violazione dell’iniziativa economica privata, comunque sottoposta al limite sistemico del rispetto dell’utilità sociale, e del non pregiudizio alla sicurezza, libertà e dignità umana.
5. – Queste considerazioni portano alla reiezione anche del quarto motivo, che muove critica al divieto di apertura di nuove attività di vendita al dettaglio di generi appartenenti al settore alimentare ai sensi dell’art. 14 del Regolamento, potendosi prescindere dal sindacato sulla genericità del motivo esperito avverso un atto normativo.
Va peraltro evidenziato che la norma transitoria è sottoposta alla verifica biennale dei dati inerenti gli indici di saturazione, con possibilità che il divieto sia antecedentemente rimosso. Si tratta di disposizione volta a garantire l’adeguatezza e l’oggettività nel tempo dell’istruttoria anche per escludere il rischio di rendite di posizione in favore degli operatori già insediati e al contempo di garantire, nell’equo bilanciamento degli interessi, il servizio all’utenza, sia dei residenti che dei turisti.
6. – Il quinto motivo poi reitera la censura di illegittimità degli artt. 12, comma 2, e 14, comma 5, della deliberazione assembleare n. 47 del 2018, nell’assunto, rispettivamente, che non esiste una norma che imponga l’obbligo di effettuare la vendita di generi alimentari in forma esclusiva e contestando, con riguardo alla norma transitoria dell’art. 15, comma 5, la statuizione di inammissibilità del motivo per potenziale conflitto di interessi.
Quanto alla statuizione di inammissibilità, il motivo di appello è fondato, per le ragioni esposte al punto sub 1.
Nel merito il motivo, nella sua duplice articolazione, è infondato.
A parte che ormai l’art. 4, comma 1, della l.r. Lazio n. 33 del 1999 è stato abrogato dall’art. 107 della l.r. 6 novembre 2019, n. 22 (Testo unico del commercio), occorre considerare che si tratta di disposizione che consente nel commercio la vendita congiunta nel settore alimentare e non alimentare, ma che naturalmente ammette limitazioni per il solo primo genere merceologico per ragioni di interesse pubblico, come quelle bene individuate dalla sentenza appellata per affermare la non illegittimità dell’art. 14, comma 2, lett. a), che vieta l’abbinamento ad evitare che le attività non alimentari siano utilizzate come veicolo di offerta di prodotti alimentari.
Quanto, poi, alla previsione dell’art. 14, comma 5, appare ragionevole, in ragione della sua specificità tecnica, la previsione per cui non sono assoggettati all’obbligo di adeguamento “gli esercizi di vicinato del settore alimentare che effettuino la vendita di prodotti freschi o da forno mediante l’utilizzo di apposite ed idonee attrezzature e che svolgano tale attività in maniera continuativa da data antecedente all’entrata in vigore del D.lgs. 114/1998”.
7. – Il sesto motivo deduce poi l’illegittimità dell’art. 10, comma 1, lett. e), del Regolamento che vieta l’installazione di apparecchi automatici per la vendita di prodotti (ad esclusione dei distributori di prodotti farmaceutici, parafarmaceutici e presidi sanitari) per violazione dell’art. 6, comma 1, lett. n), della l.r n. 21 del 2006 e per incompetenza comunale.
Anche tale motivo è infondato.
Non si ravvisa il contrasto con la norma di legge invocata, che prevede che in tale tipologia di distribuzione i Comuni non possono dettare criteri e condizioni per rilasciare nuove autorizzazioni, mentre nel caso ha escluso tale installazione. Peraltro, a parte che l’art. 6 della l.r. n. 21 del 2006 è stato, anch’esso, abrogato dalla l.r. n. 22 del 2019, si tratta di previsione che è legittima espressione di discrezionalità negativa, nel contemperamento delle esigenze di tutela dell’ambiente e del decoro urbano.
8. – Il settimo e ultimo motivo deduce l’omessa pronuncia sulla sesta censura del ricorso introduttivo, che contestava la legittimità del regolamento nel complesso.
Anche a ravvisare un’omessa pronuncia, alla stregua di un’impostazione formalistica (per il vero, le censure rubricate intersecano lo sviluppo argomentativo dei motivi rivolti nei confronti delle singole disposizioni del Regolamento), si tratta comunque di motivo inammissibile per genericità, posto che si limita ad affermare la contraddittorietà del preambolo della delibera, per poi richiamare i motivi, postulando un generalizzato, ma neppure argomentato, contrasto con la disciplina nazionale e regionale in tema di tutela e salvaguardia dell’artigianato nel settore alimentare.
9. – Alla stregua di quanto esposto, l’appello va in parte accolto, limitatamente alla statuizione in rito, in parte dichiarato improcedibile e in parte respinto.
La complessità della controversia integra le ragioni che per legge consentono la compensazione tra le parti delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, in parte lo accoglie, limitatamente alla pronuncia di parziale inammissibilità, in parte lo dichiara improcedibile, ed in parte lo respinge.
Compensa tra le parti le spese di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 marzo 2020 con l’intervento dei magistrati:
Giuseppe Severini – Presidente
Raffaele Prosperi – Consigliere
Valerio Perotti – Consigliere
Stefano Fantini – Consigliere, Estensore
Alberto Urso – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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