Consiglio di Stato, Sentenza|14 dicembre 2021| n. 8334.
Alternatività della sanzione pecuniaria rispetto all’ordine di demolizione.
L’articolo 34, II, Dpr n. 380/2001 nel disporre che, qualora in sede di esecuzione del provvedimento repressivo di un abuso edilizio risulti che la demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, può procedersi alla cd. fiscalizzazione dell’abuso pone un principio di carattere eccezionale. Non deve essere l’Amministrazione a valutarne l’applicabilità, prima di emettere l’ordine di demolizione dell’abuso, ma il privato interessato a dimostrare, in modo rigoroso, nella fase esecutiva, il presupposto dell’obiettiva impossibilità fattuale (e non la semplice onerosità) di ottemperare all’ordine stesso senza pregiudizio per la parte conforme. L’alternatività della sanzione pecuniaria rispetto all’ordine di demolizione comporta che la prima condivida il carattere reale e ripristinatorio dell’ordine giuridico violato proprio del secondo con conseguente possibilità di irrogazione anche nei confronti dell’attuale proprietario sia pur incolpevole ed in buona fede (ferma restando in ogni caso, per quest’ultimo, la possibilità di rivalersi in regresso nelle sedi competenti, laddove siano accertati i presupposti di responsabilità nei confronti del proprio dante causa ex art. 1298 c.c.).
Sentenza|14 dicembre 2021| n. 8334. Alternatività della sanzione pecuniaria rispetto all’ordine di demolizione
Data udienza 2 dicembre 2021
Integrale
Tag- parola chiave: Strumenti urbanistici – Approvazione – Condizione potestativa – Definizione – Individuazione – Alternatività della sanzione pecuniaria rispetto all’ordine di demolizione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6701 del 2019, proposto da
Fu. De. Ge. e Am. Ro., rappresentati e difesi dall’avvocato An. Pa., con domicilio digitale di pec come da registri di giustizia;
contro
Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Lu. To., con domicilio digitale di pec come da registri di giustizia e domicilio eletto presso il suo studio, in Napoli, via (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania – Salerno Sezione Seconda n. 01240/2019, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 2 dicembre 2021 il Cons. Alessandro Maggio;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
Alternatività della sanzione pecuniaria rispetto all’ordine di demolizione
FATTO e DIRITTO
Il Consiglio Comunale del Comune di (omissis), con delibera 27/6/2000, n. 23, ha adottato linee guida per disciplinare la delocalizzazione delle attività produttive, limitatamente al periodo di validità delle prescrizioni di inedificabilità del territorio comunale dettate dall’Autorità di Bacino a seguito di alcune frane.
Sulla base di tale delibera, il Responsabile del Settore Edilizia ha adottato la determinazione 25/10/2000, n. 118, con cui ha provvisoriamente consentito al sig. Fu. De. Ge., dedito alla lavorazione di marmi e pietre varie, di utilizzare, per lo svolgimento della propria attività, un locale ubicato nella via (omissis).
Con successiva delibera consiliare e 25/5/2006, n. 18 e provvedimento 16/6/2006, n. 11, il sig. De. Ge. è stato autorizzato a proseguire, in via temporanea e sino all’adozione del PUC, l’esercizio della detta attività nel medesimo locale.
Volendo trasferire la sede del laboratorio artigianale in un più ampio fabbricato ubicato nella via (omissis), di proprietà della sig.ra Am. Ro., sua coniuge, il sig. De. Ge. ha posto in essere un intervento abusivo comportante incrementi volumetrici rispetto alla variante al permesso di costruire n. 15 del 4/8/2005, modifica dei prospetti e mutamento della destinazione d’uso, dopodiché, con istanze in data 22/12/2017, è stata chiesta al Comune sia la sanatoria, ex artt. 36 del D.P.R. 6/6/2001, n. 380 e 5 e 6 bis della L.R. 28/12/2009, n. 19, sia l’autorizzazione unica ambientale.
Con ordinanza 28/12/2017 n. 19 l’amministrazione comunale ha inibito l’esercizio dell’attività svolta dal sig. De. Ge. su tutto il territorio comunale.
Successivamente la stessa amministrazione ha adottato:
a) la determina 22/1/2018, n. 243 con cui ha negato l’autorizzazione unica ambientale;
b) la delibera consiliare 1/2/2018, n. 2 con la quale ha preso atto della sopravvenuta inefficacia delle delibere del Consiglio Comunale nn. 23/2000 e 18/2006;
c) la determinazione 5/2/2018, n. 441 con cui ha negato la sanatoria;
d) l’ordinanza 15/2/2018, n. 3, con la quale ha ingiunto la demolizione delle opere abusive.
Ritenendo tutti i menzionati provvedimenti illegittimi il sig. De. Ge. e la sig.ra Ro. li hanno impugnati con ricorso e successivi motivi aggiunti, davanti al T.A.R. Campania – Salerno, il quale, con sentenza 10/7/2019, n. 1240 ha accolto il gravame limitatamente all’ordinanza n. 19/2017, respingendolo con riguardo ai restanti atti.
Avverso i capi sfavorevoli della sentenza hanno proposto appello i sig.ri De. Ge. e Ro..
Per resistere al ricorso si è costituita in giudizio l’amministrazione appellata.
Le parti, con successive memorie, hanno ulteriormente illustrato le rispettive tesi difensive.
Con ordinanza 12/10/2020, n. 6124 la Sezione ha disposto una verificazione diretta ad accertare se il fabbricato ricadesse o meno in zona
classificata a rischio idrogeologico.
Alternatività della sanzione pecuniaria rispetto all’ordine di demolizione
Eseguito l’incombente il comune appellato ha depositato nuovi scritti difensivi.
Alla pubblica udienza del 2/12/2021, la causa è passata in decisione.
Preliminarmente occorre rilevare che con istanza in data 22/11/2021 l’appellante ha domandato un rinvio d’udienza in quanto sarebbe in corso l’approvazione di un aggiornamento del piano di Bacino che potrebbe comportare il venir meno del vincolo di inedificabilità che ha causato il diniego di sanatoria oggetto del contendere.
La richiesta non può essere accolta, atteso che, ai sensi dell’art. 73, comma 1-bis, del c.p.a., “il rinvio della trattazione della causa (può essere) disposto solo per casi eccezionali”, e la circostanza addotta dall’appellante a sostegno del reclamato rinvio non configura un caso eccezionale.
Sempre in via preliminare il Collegio ritiene di poter prescindere dall’esame dell’eccezione con cui il comune appellato deduce l’inammissibilità del gravame per difetto di legittimazione attiva e carenza d’interesse, essendo, comunque, l’appello da respingere nel merito.
Col primo motivo si censura la gravata sentenza nella parte in cui ha ritenuto che stante la natura meramente ricognitiva e vincolata della delibera n. 2/2018 non occorresse, né assicurare le garanzie partecipative, né dotare la stessa di specifica motivazione in ordine all’interesse pubblico sotteso alla sua adozione.
Infatti, ogni atto di secondo grado richiederebbe la previa comunicazione di avvio del procedimento dato che comporterebbe il ritiro di provvedimenti su cui il privato ha fondato un legittimo affidamento.
Peraltro, diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale, la delibera n. 2/2018 non potrebbe essere ritenuta un atto vincolato meramente ricognitivo, dato che con la stessa si è preso atto che le delibere del 2000 e del 2006 avrebbero perso effetto senza considerare che il PUC è stato adottato ma non approvato e che l’adozione sarebbe divenuta inefficace per decorso dei termini procedimentali per l’approvazione.
Col secondo motivo si denuncia l’errore commesso dal Tribunale nell’escludere che la citata delibera avesse natura di revoca e fosse, quindi, soggetta al rispetto della disciplina dettata dall’art. 21-quinquies della L. 7/8/1990, n, 241.
Alternatività della sanzione pecuniaria rispetto all’ordine di demolizione
Tenuto conto del tempo trascorso dall’adozione dei provvedimenti autorizzatori l’appellante avrebbe, infatti, maturato un legittimo affidamento sulla loro stabilità per cui l’esercizio dello ius poenitendi avrebbe dovuto essere congruamente motivato.
In ogni caso la condizione apposta nella delibera n. 18 del 2006 avrebbe natura meramente potestativa e come tale sarebbe nulla ai sensi dell’art. 1355 cod. civ.
Col terzo motivo si lamenta che il giudice di prime cure, nell’avallare la decisone assunta dall’amministrazione comunale con la delibera n. 2/2018, avrebbe omesso di considerare che l’adozione del PUC avrebbe perso effetto.
Infatti il mancato perfezionamento dell’iter di approvazione dello strumento urbanistico, adottato con la delibera n. 8/2008, avrebbe ripristinato lo status quo ante, con la conseguenza che, operando il solo programma di fabbricazione, mancherebbe in tutto il territorio comunale, (come risulterebbe dalla deliberazione consiliare 26/3/2018, n. 7 depositata in giudizio) una zona a destinazione produttiva utilizzabile mediante il semplice rilascio di titolo abilitativo, dato che la disciplina dell’attuale zona (omissis) richiederebbe, la previa approvazione di un piano attuativo che non sarebbe mai stato varato.
In definitiva, le esigenze che avevano determinato l’adozione delle delibere n. 23/2000 e 18/2006 (salvaguardare le poche imprese produttive presenti nel territorio comunale) non sarebbero venute meno, per cui risulterebbe illegittimo, per eccesso di potere, il provvedimento che ha fatto cessare il titolo provvisorio accordato all’appellante.
I tre motivi così sinteticamente riassunti, tutti infondati, si prestano a una trattazione congiunta.
Con la menzionata delibera n. 2/2018 il comune si è limitato a rilevare che con deliberazione consiliare 12/2/2008, n. 8 era stato adottato il PUC e che, quindi, si era verificata la condizione risolutiva a cui era espressamente sub (omissis) l’autorizzazione provvisoria rilasciata con la delibera n. 18/2006.
Ne consegue che del tutto correttamente il Tribunale ha escluso che la delibera n. 2/2018 configurasse un provvedimento di revoca in senso tecnico e che, quindi, dovesse essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento e dovesse essere motivata. Trattasi, infatti, di un atto di natura meramente ricognitiva che, in quanto tale, non richiede la partecipazione al procedimento dell’interessato e non necessita di specifica motivazione.
Contrariamente a quanto affermato dagli appellanti è priva di rilievo la circostanza che il PUC non fosse stato approvato, atteso che l’evento dedotto in condizione non era l’approvazione, bensì l’adozione del detto strumento urbanistico, adozione, per l’appunto, intervenuta con la citata delibera n. 8/2008.
Per identiche ragioni non poteva assumere rilevanza l’eventuale sopravvenuta inefficacia dell’adozione per decorso dei termini procedimentali.
Escluso che la delibera n. 2/2018 potesse inquadrarsi fra gli atti di revoca, risulta inconferente il richiamo alla disciplina dettata dall’art. 21-quinquies della L. n. 241 del 1990.
Resta da verificare se la condizione di che trattasi potesse ritenersi meramente potestativa.
La risposta al quesito non può che essere negativa.
La condizione è definita meramente potestativa allorquando il suo verificarsi scaturisce da un fatto volontario il cui compimento o la cui omissione non dipende da seri o apprezzabili motivi, ma dal mero arbitrio della parte, svincolato da qualsiasi razionale valutazione di opportunità e convenienza (fra le tante Cass. Civ. Sez. Trib., 20/11/2019, n. 30143).
Nel caso di specie è da escludere che la condizione apposta alla delibera n. 18/2006 avesse natura meramente potestativa, in quanto la decisione di adottare uno strumento urbanistico non è imputabile a una scelta meramente arbitraria dell’amministrazione, ma è frutto di complesse e articolate valutazioni in ordine alla corretta e (omissis) gestione del territorio.
In ordine alla legittimità della delibera n. 2/2018 risulta, infine, del tutto irrilevante che nel territorio del comune non esitano zone (omissis) suscettibili di utilizzazione diretta, dato che, come sopra precisato, il deliberato si limita a constatare una circostanza di fatto, ovvero l’essersi verificato l’evento dedotto in condizione.
Col quarto motivo si lamenta che il Tribunale avrebbe errato a escludere l’illegittimità degli atti con cui, in relazione all’immobile ubicato nella via (omissis), è stata negata l’autorizzazione ambientale ed è stata respinta la domanda di accertamento di conformità intesa a sanare sia gli incrementi volumetrici conseguibili in virtù della normativa sul c.d. piano casa regionale, sia il cambio di destinazione d’uso.
Il convincimento del giudice si fonda sul fatto che:
a) l’accoglimento dell’istanza proposta sarebbe impedito dalla collocazione del manufatto in zona a elevato rischio di dissesto idrogeologico – zona (omissis) dal PSAI del Bacino regionale della Campania Centrale (approvato con delibera del Comitato Istituzionale n. 1
del 23/2/2015);
b) gli interventi di cui agli artt. 4 e seg. della L. R. n. 19/2009, “anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, in tanto sarebbero ammessi, in quanto, da un lato, non siano stati già (abusivamente) realizzati, ma siano previamente e ritualmente assentiti mediante idoneo titolo abilitativo, e in quanto, d’altro lato, l’edificio cui accedono sia stato realizzato legittimamente ovvero, ancorché realizzato abusivamente, sia stato previamente sanato”.
Sennonché, contrariamente a quanto dal giudice di prime cure sostenuto, solo una piccola parte dell’immobile di che trattasi ricadrebbe in zona a elevato rischio di dissesto idrogeologico, per cui non sussisterebbe alcuna causa ostativa all’accoglimento dell’istanza proposta.
Inoltre, sulla base di quanto statuito dalla Corte Costituzionale con la sentenza 11/5/2017, n. 107, che ha dichiarato incostituzionale l’art. 12, comma 4 bis, della L.R. n. 19/2009, dovrebbe ammettersi la regolarizzazione degli interventi non assistiti da titolo abilitativo, ma conformi alla disciplina vigente al momento della sua realizzazione e a quello di presentazione della domanda e nel caso di specie i lavori posti in essere sarebbero conformi alla disciplina della L.R. n. 19/2009 vigente al tempo della loro esecuzione.
Il motivo è infondato.
Ai sensi degli artt. 36 del D.P.R. n. 380/2001 e 12, comma 4 -bis, della L.R. n. 19/2009 (come risultante dopo la citata sentenza della Corte Cost. 107/2017), gli interventi abusivamente realizzati possono ottenere la sanatoria purché conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della loro realizzazione, sia a quello della presentazione della domanda.
Nel caso di specie il requisito della doppia conformità era assente.
Infatti, come è emerso dalla disposta verificazione, i cui esiti risultano adeguatamente argomentati e del tutto condivisibili, e come del resto sostanzialmente riconosciuto dallo stesso appellante (pagg. 22 e 23 dell’atto d’appello) il fabbricato oggetto della reclamata sanatoria ricade, seppur in piccola parte, in zona classificata R4 dal PSAI del Bacino regionale della Campania Centrale, zona per la quale vige il vincolo di inedificabilità assoluta.
Orbene, ai sensi dell’art. 8, comma 16, del suddetto PSAI “Nel caso in cui un edificio o manufatto edilizio, strutturalmente autonomo, ricada anche solo parzialmente in un’area a rischio, o sia interessata da diversi livelli di rischio, lo stesso deve essere considerato totalmente incluso nell’area a rischio e/o nella classe di rischio più gravosa”.
Ne consegue che l’edificio per cui è causa, ricadendo ancorché parzialmente, in zona classificata (omissis), deve ritenersi integralmente incluso in detta zona e soggetto, quindi, alla relativa disciplina.
Da quanto esposto discende che al momento della presentazione dell’istanza il manufatto non era conforme alla disciplina all’epoca vigente, per cui non poteva ottenere la sanatoria.
Col quinto motivo si censura l’impugnata sentenza nella parte in cui, con riguardo all’ordine di demolizione, afferma che:
a) gli abusi commessi non integrerebbero una difformità parziale, a cui potrebbe applicarsi la disciplina dell’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, ma una variazione essenziale sanzionabile ai sensi degli artt. 32 e 32 del medesimo decreto;
b) l’appellante non avrebbe interesse “a dolersi della paventata sanzione ablatoria, la quale costituisce una mera eventualità scongiurabile dall’autore dell’abuso mediante esecuzione dell’intimata misura ripristinatoria, e, quindi, susseguente all’inottemperanza a quest’ultima”.
E invero, diversamente da quanto sostenuto dal giudice di prime cure gli abusi realizzati configurerebbero soltanto delle difformità parziali in quanto si risolverebbero in lievi modifiche dei prospetti e delle altezze, nella chiusura di un porticato senza incidenza sul carico urbanistico.
Sussisterebbe, inoltre, l’interesse a dolersi della misura ablatoria.
La doglianza è priva di pregio.
Come emerge dalla stessa istanza di sanatoria presentata dalla sig.ra Ro., le opere realizzate nell’immobile di via (omissis), consistenti, tra l’altro, nella chiusura di un portico di mt 5 per mt 15, hanno comportato un consistente aumento di cubatura rispetto a quanto in precedenza autorizzato.
Ne discende che, non essendo l’intervento sanabile, giusta quanto più sopra rilevato, correttamente il Comune ne ha ordinato la demolizione ai sensi dell’artt. 31 del D.P.R. n. 380/2001, con la conseguente acquisizione gratuita al patrimonio comunale del bene e della relativa area di sedime per il caso di inottemperanza all’ingiunzione data (citato art. 31, comma 3).
Giova soggiungere che il provvedimento repressivo risulterebbe correttamente adottato anche qualora i lavori eseguiti configurassero una mera difformità parziale, come sostenuto dagli appellanti.
L’invocato art. 34 del citato D.P.R. n. 380/2001 dispone, infatti, che “Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell’abuso….” (comma 1).
Soltanto qualora in sede di esecuzione del provvedimento repressivo risulti che la demolizione non possa “avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità “, può procedersi, ai sensi dell’comma 2 del menzionato art. 34, alla fiscalizzazione dell’abuso.
Ma nella specie la ricorrenza della condizione richiesta per la sostituzione della sanzione demolitoria con quella pecuniaria, non è stata nemmeno allegata.
L’appello va, in definitiva, respinto.
Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi od eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Spese e onorari di giudizio, liquidati come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Seguono la soccombenza anche i costi della verificazione che si liquidano in Euro 4.916,12, coma da richiesta allegata alla perizia, detratto quanto eventualmente già corrisposto a titolo di anticipo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna la parte appellante al pagamento delle spese processuali in favore del comune appellato, liquidandole forfettariamente in complessivi Euro 5.000/00 (cinquemila), oltre accessori di legge, disponendone, come da richiesta, la distrazione a vantaggio del difensore.
Condanna, altresì, l’appellante a versare al verificatore la somma di Euro 4.916,12 (quattromilanovecentosedici/12), detratto quanto eventualmente già corrisposto a titolo di anticipo.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 dicembre 2021 con l’intervento dei magistrati:
Hadrian Simonetti – Presidente FF
Silvestro Maria Russo – Consigliere
Alessandro Maggio – Consigliere, Estensore
Davide Ponte – Consigliere
Thomas Mathà – Consigliere
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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