Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|28 marzo 2023| n. 8729.
Ai fini della pronunzia di una condanna generica ai sensi dell’art. 278 c.p.c.
Ai fini della pronunzia di una condanna generica, ai sensi dell’art. 278 c.p.c., non occorre la prova certa di un danno, essendo sufficiente, invece, il mero accertamento della sussistenza di condizioni di fatto potenzialmente causative di effetti pregiudizievoli. Ne consegue che il giudicato formatosi su una condanna generica non impedisce che il giudice chiamato a liquidare il danno possa, nel caso concreto, negarne l’esistenza.
Ordinanza|28 marzo 2023| n. 8729. Ai fini della pronunzia di una condanna generica ai sensi dell’art. 278 c.p.c.
Data udienza 1 marzo 2023
Integrale
Tag/parola chiave: Proprietà – Distanze legali – Piante e aperture lucifere – Arretramento e chiusura – – Risarcimento danno – Appello – Onere di specificità dei motivi – Nozione – E’ richiesto a pena di inammissibilità dell’impugnazione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente
Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere
Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere
Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere
Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1716/2022 proposto da:
(OMISSIS), e (OMISSIS), elettivamente domiciliate in (OMISSIS), presso lo studio dell’avv. (OMISSIS), rappresentate e difese dall’avv. (OMISSIS);
– ricorrenti –
contro
(OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avv. (OMISSIS), e domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3913/2021 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 25/10/2021;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 01/03/2023 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.
Ai fini della pronunzia di una condanna generica ai sensi dell’art. 278 c.p.c.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato in data 19.2.2016 (OMISSIS) evocava in giudizio (OMISSIS) e (OMISSIS) innanzi il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, invocandone la condanna ad arretrate, sino a distanza legale dal confine, alcune piante, a chiudere una apertura lucifera da esse realizzata a carico della proprieta’ dell’attore, ovvero alla sua regolarizzazione, e a risarcire il relativo danno.
Con sentenza n. 3580/2017 il Tribunale dichiarava prescritta la domanda di chiusura dell’apertura lucifera e rigettava la domanda risarcitoria.
Con la sentenza impugnata, n. 3913/2021, la Corte di Appello di Napoli accoglieva in parte il gravame proposto, avverso la decisione di prime cure, da (OMISSIS), originario attore, condannando le appellate (OMISSIS) e (OMISSIS) a chiudere l’apertura lucifera da esse realizzata a carico dell’area scoperta pertinenziale alla proprieta’ dell’attore, nonche’ a risarcire il danno causato a quest’ultimo, da liquidarsi in separata sede.
Propongono ricorso per la cassazione di detta decisione (OMISSIS) e (OMISSIS), affidandosi a tre motivi.
Resiste con controricorso (OMISSIS).
Ambo le parti hanno depositato memoria in prossimita’ dell’adunanza camerale.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, le ricorrenti lamentano la violazione dell’articolo 342 c.p.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perche’ la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere inammissibile l’appello, considerato che il (OMISSIS) non aveva neanche indicato le norme di legge delle quali egli lamentava la violazione.
La censura e’ inammissibile.
Le stesse ricorrenti riportano il contenuto dell’atto di appello del (OMISSIS), con il quale costui aveva affermato il proprio diritto ad ottenere la chiusura dell’apertura lucifera di cui e’ causa, in tesi per violazione dell’articolo 8 dell’atto notarile stipulato in data 21.12.1995, rep. 60212, e, in ipotesi, in forza delle disposizioni di cui all’articolo 901 c.c. (cfr. pag. 13 del ricorso). La Corte distrettuale, scrutinando il gravame nel merito, ha implicitamente ritenuto, peraltro in modo del tutto condivisibile, che esso contenesse gli elementi necessari ai fini della individuazione delle censure proposte dall’appellante al contenuto della decisione di prima istanza.
In proposito, occorre ribadire il principio secondo cui “Nel giudizio di appello – che non e’ un novum iudicium – la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso specifici motivi e tale specificita’ esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono. Ne consegue che, nell’atto di appello, ossia nell’atto che, fissando i limiti della controversia in sede di gravame consuma il diritto potestativo di impugnazione, alla parte volitiva deve sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilita’ del gravame, rilevabile d’ufficio e non sanabile per effetto dell’attivita’ difensiva della controparte, una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, al qual fine non e’ sufficiente che l’atto di appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma e’ altresi’ necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificita’ da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 18932 del 27.9.2016, Rv. 641832; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 9244 del 18.4.2007, Rv. 597867; cfr. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 21566 del 18/09/2017, Rv.645411).
Il principio e’ interpretato, con orientamento ormai consolidato, nel senso che “L’onere di specificita’ dei motivi di appello deve ritenersi assolto quando, anche in assenza di una formalistica enunciazione, le argomentazioni contrapposte dall’appellante a quelle esposte nella decisione gravata siano tali da inficiarne il fondamento logico giuridico” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 18307 del 18.9.2015, Rv. 636741). In senso conforme, cfr. anche Cass. Sez. 3, Sentenza n. 25218 del 29.11.2011, Rv. 620524, secondo la quale “Ai fini della specificita’ dei motivi d’appello richiesta dall’articolo 342 c.p.c., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno del gravame, possono sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, purche’ cio’ determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice” (conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2814 del 12/02/2016, Rv. 638551).
Con il secondo motivo, le ricorrenti lamentano la violazione degli articoli 99, 101, 102, 177, 179 c.p.c., articoli 2697 e 2700 c.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perche’ la Corte di Appello avrebbe erroneamente rigettato l’eccezione di non integrita’ del contraddittorio sollevata, in seconde cure, dalla difesa delle odierne ricorrenti.
La censura e’ inammissibile.
La Corte di Appello afferma che le odierne ricorrenti non avevano provveduto a depositare, nei termini previsti dal rito, il certificato di matrimonio di (OMISSIS), e dunque non avevano fornito la prova che la stessa si trovasse, al momento dell’acquisto dei diritti reali oggetto del rogito del 21.12.1995, in regime di comunione legale con il marito (OMISSIS). Inoltre, la Corte di merito aggiunge che l’esistenza del regime di comunione non era stata oggetto di accertamento da parte del notaio rogante, il quale si era limitato a recepire le dichiarazioni della (OMISSIS) (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata).
Le ricorrenti non si confrontano con tale duplice statuizione, poiche’ da un lato non dimostrano di aver effettivamente prodotto in atti documentazione a riprova dell’esistenza, alla data del 21.12.1995, del dedotto regime di comunione legale tra i coniugi (OMISSIS) e (OMISSIS); mentre, dall’altro lato, non contestano specificamente l’affermazione secondo cui il notaio non aveva accertato l’esistenza del regime patrimoniale di cui anzidetto, ne’ si danno cura di riportare la clausola del rogito del 1995, al fine di documentare – almeno – la dichiarazione che, in quella sede, era stata fatta dalla (OMISSIS).
La Corte di Appello ha fatto corretta applicazione del consolidato principio secondo cui “Colui che eccepisca la non integrita’ del contraddittorio ha l’onere, qualora questa non possa essere rilevata direttamente dagli atti o in base alle prospettazioni delle parti, non solo di indicare i soggetti che rivestono la qualita’ di litisconsorti necessari asseritamene pretermessi, ma anche di provare i presupposti di fatto e di diritto dell’invocata integrazione e, quindi, i titoli in forza dei quali essi assumono tale qualita’…” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11318 del 10/05/2018, Rv. 648831, relativa ad una fattispecie in cui era stata dedotta la mancata vocatio in ius di uno degli eredi del de cuius senza la dimostrazione dell’avvenuta accettazione di eredita’ ad opera dello stesso). Tale prova, peraltro, deve rivestire il carattere della certezza, “… poiche’ il dubbio su tali circostanze ricade sull’eccipiente e non consente al giudicante di ravvisare la dedotta violazione dell’articolo 102 c.p.c.” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5880 del 16/03/2006, Rv. 587525).
Con il terzo motivo, le ricorrenti lamentano la violazione dell’articolo 278 c.p.c. e articolo 2697 c.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perche’ la Corte di Appello avrebbe erroneamente accolto la domanda di condanna generica al risarcimento del danno, formulata nei loro confronti dal (OMISSIS), senza considerare che l’esistenza del pregiudizio non era stata dimostrata, in termini di certezza.
La censura e’ infondata.
La pronunzia, a norma dell’articolo 278 c.p.c., di condanna generica al risarcimento del danno produce il solo effetto di precludere la possibilita’ che, nel successivo giudizio di liquidazione, si possa affermare che “… il pregiudizio dal fatto accertato con la prima sentenza non e’ risarcibile perche’ non e’ ingiusto” (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14752 del 14/11/2000, Rv. 541671). Tuttavia “Il giudicato formatosi sulla pronuncia di condanna generica non impedisce che in sede di liquidazione del quantum, il giudice oltre a determinare liberamente l’entita’ del danno, possa anche negare l’esistenza in concreto di un danno risarcibile” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12257 del 03/12/1997, Rv. 510670). E’ ammessa quindi la condanna generica al risarcimento del danno anche in presenza di un accertamento della sussistenza di condizioni di fatto “… potenzialmente causativo di effetti pregiudizievoli”, come ad esempio nel caso di lesione dell’altrui possesso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9043 del 05/06/2012, Rv. 622639; conf. Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 31353 del 04/12/2018, Rv. 651796).
In conclusione, l’assunto delle ricorrenti, secondo cui la condanna al risarcimento del danno ex articolo 278 c.p.c., presuppone necessariamente la prova certa di un danno, non corrisponde alla ratio della norma e non trova conferma nell’interpretazione che di essa e’ stata fornita da questa Corte.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimita’, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimita’, che liquida in Euro 3.600, di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis, se dovuto.
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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