Ai fini della di una corretta qualificazione della sua natura l’atto amministrativo

Consiglio di Stato, Sezione quarta, Sentenza 5 giugno 2020, n. 3552.

La massima estrapolata:

Ai fini della di una corretta qualificazione della sua natura l’atto amministrativo va interpretato non solo in base al tenore letterale, ma soprattutto in base al suo specifico contenuto e risalendo al potere concretamente esercitato dall’amministrazione, prescindendo dal nomen iuris che gli è stato assegnato.

Sentenza 5 giugno 2020, n. 3552

Data udienza 7 maggio 2020

Tag – parola chiave: Atto amministrativo – Qualificazione – Interpretazione – Contenuto specifico – Rilevanza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 346 del 2020, proposto dalla società Im. Lo. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati An. Ga. e Ma. Co., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio del primo, in Roma, p.le (…);
contro
il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Si. Fo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia n. 289 del 2019.
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 7 maggio 2020 – svoltasi in videoconferenza ai sensi dell’art. 84, commi 5 e 6, d.l. n. 18 del 2020 – il consigliere Silvia Martino;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso proposto innanzi al TAR per la Lombardia, la società Im. Lo. s.r.l. (in precedenza Immobiliare Ba. Lo. & fi. s.p.a.),impugnava:
a) l’ordinanza n. 104 del 25 febbraio 2011 con cui il comune di (omissis) aveva ingiunto alla ricorrente la manutenzione dell’area di proprietà sita nel predetto Comune, in viale (omissis) con rimozione dei rifiuti ed il rispetto degli obblighi convenzionali;
b) ogni atto preordinato e connesso, ivi compresi la relazione di servizio n. 3595/2010, il parere del settore lavori pubblici-urbanizzazione primarie del 2 novembre 2009, e, per quanto potesse occorrere, le note del 25 maggio 2010 prot. 20872 e del 25 ottobre 2010.
Chiedeva, inoltre, il risarcimento dei danni patiti e patiendi per effetto dei provvedimenti comunali impugnati.
2. In punto di fatto, la società deduceva di essere proprietaria di un immobile sito in (omissis) al viale (omissis), sul quale insistono, per una gran parte, alcuni capannoni a destinazione industriale, e la cui rimanente parte è invece costituita da uno spazio ancora inutilizzato.
Tale compendio era stato acquistato con atto di compravendita del 17 ottobre 1984 dalla società In. Pi. s.p.a.
Osservava la società ricorrente come l’ordinanza impugnata si riferisse al compendio “con un duplice contenuto”: da un lato, “ordina [va] attività di pulizia e rimozione di rifiuti”; dall’altro, “rivendica[va] l’uso pubblico della stessa area discendente da un’antica convenzione”.
Era infatti accaduto che la propria dante causa, Pi. s.p.a. avesse, in data 21 aprile 1972, presentato una “denuncia di costruzione di nuove opere edilizie” al fine di ottenere l’autorizzazione ad effettuare alcune sistemazioni interne dei capannoni allora esistenti ed alla costruzione di una tettoia aperta e di servizi. Il Comune di (omissis) aveva rilasciato la licenza edilizia n. 3828 con la quale aveva autorizzato l’esecuzione delle opere richieste ma aveva, altresì, contestualmente, sottoscritto con la Pi. un “Atto di vincolo di inedificabilità con rispetto del piano di fabbricazione e di consenso a vincolo di area per servizio pubblico a favore del Comune di (omissis)”.
L’atto era stato ritualmente trascritto presso la conservatoria in data 4 agosto 1972.
Per mezzo di tale atto, Pi. s.p.a. si era impegnata:
a) a vincolare “a servizio pubblico comunale per uso di parcheggio autoveicoli e di verde pubblico” una porzione dell’immobile attualmente identificata catastalmente al foglio 12 mappali 181 e 182, e a sistemarla “a propria cura ed esclusive spese”;
b) a vincolare “come inedificabile, ad esclusivo uso delle costruzioni esistenti e di quanto oggetto della licenza edilizia, le aree libere di pertinenza degli edifici ed opere annesse e connesse di cui alla domanda n. 3828”.
La Pi. s.p.a. aveva proceduto quindi all’esecuzione delle opere autorizzate, dichiarate successivamente agibili dal Comune di (omissis) in data 12 luglio 1973.
La società non aveva tuttavia proceduto alla realizzazione delle opere necessarie per la sistemazione dell’area vincolata a parcheggio ad uso pubblico comunale ed a verde pubblico.
Il Comune resistente non aveva chiesto l’adempimento dell’obbligo convenzionale e già nel 1984 (ossia al momento dell’acquisito dell’area da parte della ricorrente), la proprietà risultava dotata di un cancello che delimita l’ingresso da viale (omissis), precludendo la pubblica fruibilità .
La ricorrente, in forza di concessione edilizia n. 6502 del 15 luglio 1987, aveva proceduto a sostituire tale cancello che era stato munito, altresì, di relativa autorizzazione al passo carrabile privato.
Successivamente con lettera dell’8 settembre 2009, la ricorrente aveva chiesto al Comune di (omissis) di accertare la decadenza del vincolo e l’assoggettamento dell’area alla previsioni dello strumento urbanistico vigente.
Il Comune, con nota del 21 settembre 2009, aveva respinto l’istanza e, con successiva nota del 25 maggio 2010 prot. 20872, aveva richiesto il ripristino dell’area vincolata.
Con successiva nota del 6 agosto 2010 aveva contestato la permanente sussistenza del vincolo.
Ad essa aveva fatto seguito la nota di replica del Comune del 25 ottobre 2010.
La ricorrente aveva quindi adito il Tribunale di Monza per sentire accertare e dichiarare i propri diritti sull’area.
Il Comune di (omissis), infine, aveva notificato l’ordinanza impugnata innanzi al TAR.
3. Avverso siffatta ordinanza la società articolava otto motivi di ricorso che venivano così sintetizzati dal primo giudice.
I. Con il primo motivo (relativo all’ordine di rimozione dei rifiuti e rubricato: “Violazione artt. 192 e 255 d.lgs. 152/2016 in relazione all’art. 3. L. 241/1990”), la ricorrente evidenziava la carenza di motivazione del provvedimento che richiamava le disposizioni dettate dal Codice dell’ambiente senza, tuttavia, indicare quali sarebbero state le situazioni di fatto che avevano condotto all’applicazione di tale normativa;
II. Con il secondo motivo (relativo all’ordine di rimozione dei rifiuti e rubricato: “Violazione artt. 192 e 255 d.lgs. 152\06 – incompetenza”), la ricorrente deduceva la carenza di potere del dirigente all’emanazione di un provvedimento di matrice ambientale e, come tale, di competenza del Sindaco;
III. Con il terzo motivo (rubricato: “Violazione art. 7 I. 241\90 in relazione agli artt. 192 e 255 d.lgs. 152\06 – eccesso di potere per difetto dei presupposti”), la ricorrente lamentava la mancata comunicazione di avvio del procedimento, ritenuta necessaria stante la materia ambientale, a suo dire, oggetto dell’ordinanza;
IV. Con il quarto motivo (rubricato: “Violazione artt. 192 e 255 d.lgs. 152\06 – falsa applicazione artt. 3.2.1, 3.2.4, 3.34, 3.3.5, 3.5.9 del regolamento d’igiene tipo regionale e art. 26 reg. ed. – eccesso di potere per difetto di istruttoria e travisamento dei presupposti – sviamento”), la ricorrente deduceva la carenza dei presupposti per l’applicazione della normativa richiamata in rubrica;
V. Con il quinto motivo (rubricato: “Falsa applicazione DPR 380\01 – violazione art. 11 I. 241\90 incompetenza assoluta”), veniva dedotta l’incompetenza assoluta del Comune a richiedere l’adempimento di una prestazione oggetto dell’obbligazione con un atto autoritativo;
VI. Con il sesto motivo (rubricato: “Violazione art. 111. 241\90- prescrizione del diritto ex art. 2946 c.c.”), la società deduceva l’intervenuta prescrizione del diritto derivante dalla convenzione del 1972;
VII. Con il settimo motivo (relativo agli obblighi manutentivi e di decoro dell’area e rubricato: “Eccesso di potere per difetto di motivazione e difetto dei presupposti – ulteriore violazione art. 3 I. 241\90 in relazione agli artt. 3.2.1, 3.2.4, 3.34, 3.3.5, 3.5.9 del regolamento d’igiene tipo regionale e art. 26 reg. ed. e del DPR 380\01 – sviamento”), la ricorrente contestava la sussistenza dei presupposti per imporre obblighi manutentivi, nonché la mancanza di rilievo urbanistico delle strutture presenti;
VII. Con l’ultimo motivo (relativo all’estinzione del vincolo di destinazione e rubricato: “Applicazione dell’art. 7 d.lgs. 104/2010”), la società evidenziava infine l’esistenza di una controversia dinanzi all’Autorità giudiziaria ordinaria volta a far dichiarare l’estinzione del vincolo di destinazione e chiedeva che, “qualora il provvedimento possa rappresentare una rivendica del diritto di servitù sull’area di proprietà della società Ba. Lo. & Fi. S.p.A individuata catastalmente al fg. 12, mappali 181 e 182, pari a mq 2.310,46 [sia] dichiarato il difetto di giurisdizione dell’Ecc.mo Tar in favore del giudice ordinario”.
4. Nella resistenza del Comune di (omissis), il TAR accoglieva in parte il gravame e compensava le spese.
In particolare, accoglieva il quinto e sesto motivo di ricorso limitatamente alla parte dell’ordinanza comunale impugnata che aveva imposto alla società l’adempimento di un obbligo di facere relativo alla sistemazione dell’area, essedo il relativo diritto, di fonte convenzionale, ormai prescritto (come accertato dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. n. 3788 del 2019).
Viceversa, relativamente ai restanti motivi di ricorso – sempre sulla base della suddetta pronuncia – in relazione alla accertata sussistenza di una servitù di diritto pubblico, il TAR riteneva il Comune legittimato all’adozione di un provvedimento avente natura di autotutela possessoria, con il quale l’amministrazione medesima si era limitata ad ordinare “la manutenzione dell’area al fine di eliminare gli inconvenienti igienico sanitari e di porre in sicurezza i manufatti in cemento esistenti e sporgenti rispetto alla quota di campagna/calpestio”; nonché a imporre “di mantenere aperto il cancello di accesso all’area, tutti i giorni, dalle 7.00 alle 20.00”.
5. La sentenza è stata impugnata dalla società Im. Lo. s.r.l., relativamente ai capi che l’hanno vista soccombente.
I motivi di appello possono essere così sintetizzati:
I. Error in iudicando ed in procedendo nella parte in cui non è stata ritenuta fondata e rilevante la violazione degli artt. 192 e 255 d.lgs. n. 152 del 2006 in relazione all’art. 3 della l. n. 241/90 nonché il difetto di motivazione.
L’ordinanza impugnata richiama una relazione di servizio n. 2595/2010 della Polizia Locale che non contiene alcuna menzione di un deposito – incontrollato o meno – di rifiuti, unitamente a svariati articoli del regolamento d’igiene tipo regionale (art. 3.2.1, 3.2.4, 3.34, 3.3.5, 3.5.9) che prescrivono generali obblighi di salubrità dei terreni e di sistemazione del suolo senza specifici riferimenti in punto di fatto. Su tale base ravvisa “la necessità di emettere un provvedimento al fine di garantire il rispetto degli obblighi convenzionali, la pulizia, il decoro e la manutenzione dell’area” e conseguentemente ordina “entro 30 giorni” di sgomberare l’area “dai rifiuti e quanto altro insista sul terreno in argomento e provvedendo alla manutenzione della stessa”, nonché di “effettuare periodicamente la manutenzione dell’area al fine di eliminare gli inconvenienti igienico sanitari”.
La volontà di applicare il d.lgs. n. 152 del 2006 potrebbe evincersi dal successivo avvertimento che “l’eventuale inosservanza del presente atto comporterà :
• l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 255 del decreto legislativo 3 Aprile 2006, n. 152;
• l’attuazione di quanto ordinato.ai sensi dell’art. 26 del regolamento edilizio vigente e dell’art. 192 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 15 2 a cura dell’Amministrazione ed a spese della proprietà “.
L’art. 26 del Regolamento Edilizio prescrive che “i lotti inedificati ed incolti devono essere decorosamente mantenuti e convenientemente sistemati in modo da escludere pericolo per l’incolumità pubblica e per l’igiene”, aggiungendo altresì che “i proprietari sono responsabili della formazione abusiva di discariche a meno che i lotti non siano recintati e devono pertanto provvedere alla pulizia, alla rimozione di materiali che vi vengano depositati e allo smaltimento delle acque; essi inoltre devono evitare la crescita di sterpaglie2.
La norma si chiude con l’avvertenza che “il Sindaco può emettere ordinanza nei confronti dei responsabili ovvero della proprietà per ordinare la pulizia del lotto”.
Il provvedimento, per la congerie di fonti normative richiamate e in assenza di idonee indicazioni di risultanze di fatto, violerebbe la disposizione dell’art. 3, comma 1, della l. n. 241/90 che al secondo periodo, impone alle pubbliche amministrazioni di motivare ogni provvedimento amministrativo indicando “i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato le ragioni dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.
Inoltre, come potrebbe evincersi dal rapporto ambientale relativo alle indagini appositamente commissionate dalla società appellante, tutti i campioni di terreno prelevati risultano conformi, per i parametri analizzati, alle CSC stabilite per terreni ad uso commerciale ed industriale nonché a quelle relative ad un uso verde pubblico e residenziale.
Il TAR, nel ritenere infondata la censura, avrebbe commesso un duplice errore giuridico.
Da un lato, il primo giudice ha ritenuto che l’ordine emesso non avesse alcuna attinenza con le ordinanze ambientali in tema di rifiuti disciplinate sia dal d.lgs. n. 152 del 2006, sia dal Regolamento d’igiene, nonostante il preciso, esplicito e testuale richiamo, all’interno del testo dell’ordinanza, alla predette fonti normative, dall’altro non ha tenuto conto del fatto che nessun rifiuto sarebbe stato presente nell’area la quale, contrariamente a quanto ritenuto dal Comune, era sistemata a verde e con aiuole.
Sarebbe stata altresì ignorata dal TAR la Relazione di Servizio n. 2595 del 2010 della Polizia Locale, richiamata dal medesimo provvedimento, che non contiene alcuna menzione di un deposito – incontrollato o meno – di rifiuti, confermando dunque l’insussistenza dei presupposti giuridico – fattuali del provvedimento impugnato;
II. Error in iudicando nella parte in cui non è stata rinvenuta la violazione degli artt. 192 e 255 del d.lgs. n. 152 del 2006 e l’incompetenza del dirigente.
Il provvedimento impugnato mancherebbe di una chiara individuazione del potere amministrativo in concreto esercitato e quindi non permetterebbe una sua univoca classificazione.
Non sarebbe chiaro, cioè, se il provvedimento debba essere qualificato come ordinanza ex art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006 ovvero se sia espressione di una funzione dirigenziale riconducibile al T.U.E.L. n. 267 del 2000 ed alla applicazione del Regolamento edilizio e di igiene.
Secondo l’appellante, poiché nel sistema delle fonti deve essere data la prevalenza alla disciplina speciale di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, l’ordinanza impugnata sarebbe viziata in quanto adottata dal dirigente, non competente in materia.
Il TAR si sarebbe altresì sostituito all’amministrazione comunale nell’indicazione dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti il provvedimento impugnato ignorando i chiari richiami normativi nello stesso contenuti, tra cui l’espresso avvertimento secondo cui l’eventuale inosservanza delle prescrizioni impartite avrebbe comportato l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 255 del d.lgs. n. 152 del 2006 e l’attuazione di quanto ordinato ai sensi dell’art. 26 Reg. Ed. e dell’art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006;
III. Error in iudicando nella parte in cui non è stata ravvisata la violazione dell’art. 7 della l. 241/1990 in relazione agli artt. 192 e 255 d.lgs. 152/2006 ed omessa comunicazione dell’avvio del procedimento.
L’appellante ha poi riproposto la censura di violazione del contraddittorio procedimentale.
Al riguardo ha in particolare evidenziato che il generico riferimento, contenuto nelle note richiamate dal Comune, ad obblighi manutentivi discendenti dal preteso vincolo ad uso pubblico, non sarebbe idoneo ad instaurare un contraddittorio sulla pretesa sussistenza di una situazione di degrado dell’area. La corretta instaurazione del contraddittorio avrebbe invece permesso alla società appellante di rappresentare all’amministrazione sia le ragioni ostative all’emissione dell’ordinanza impugnata, sia la reale situazione fattuale dell’area.
L’avvio del procedimento sarebbe stato oltretutto opportuno, prima ancora che doveroso, anche in ragione della rilevanza del tempo trascorso, considerato che lo stato di fatto censurato dal Comune si è protratto, col beneplacito dell’Amministrazione, per circa un trentennio;
IV. Error in iudicando ed in procedendo nella parte in cui non è stata rinvenuta la violazione degli artt. 192 e 255 del d.lgs. n. 152 del 2006, la falsa applicazione degli artt. 3.2.1, 3.2.4, 3.34, 3.3.5, 3.5.9 del Regolamento d’Igiene tipo regionale, l’art. 26 del Regolamento Edilizio, l’eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento dei presupposti e sviamento.
In primo grado era stata contestata l’assenza di qualsiasi accertamento idoneo a provare la sussistenza dell’abbandono di rifiuti, ovvero di comportamenti atti a mettere in pericolo la salubrità dei luoghi secondo le varie tipologie menzionate dalle norme in epigrafe richiamate del Regolamento regionale d’igiene tipo e del Regolamento edilizio
L’esame di queste censure, come pure quelle di insufficienza istruttoria e di travisamento dei fatti, sarebbe stato completamente omesso dal TAR..
La società ha riproposto, infine, la domanda di risarcimento dei danni, tenuto anche conto dell’accoglimento parziale del ricorso contestualmente disposto.
6. Si è costituito, per resistere, il Comune di (omissis).
7. Con memoria del 31 marzo 2020 la civica amministrazione ha preliminarmente eccepito che il Presidente della Sezione ha fissato l’udienza di discussione in una data in cui non era ancora scaduto il termine ex art. 46, primo comma, del c.p.a. per la costituzione dell’appellato; detto termine, infatti, sarebbe scaduto soltanto il 3 marzo 2020.
La stessa amministrazione riconosce tuttavia che la violazione del termine prescritto dall’art. 71 c.p.a. potrebbe essere meramente formale, e ritenersi sanata in base al principio del raggiungimento dello scopo.
Nel merito, la civica amministrazione si è difesa con dovizia di argomentazioni, anche in ordine alla domanda risarcitoria.
8. Le parti hanno depositato memorie conclusionali e di replica.
Il Comune ha depositato anche “brevi note”, in data 29 aprile 2020, ai sensi dell’art. 84, comma 5, d.l. n. 18 del 2020.
9. L’appello è stato infine trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 7 maggio 2020 ai sensi dell’art. 84, comma 5, del d.l. n. 18 del 2020.
10. In via preliminare, vanno disattesi i rilievi formulati dalla difesa del Comune di (omissis) circa l’irritualità della fissazione dell’udienza di discussione, la quale risulta essere avvenuta in data 31 gennaio 2020 e quindi anteriormente alla scadenza del termine per la costituzione delle parti intimate (fissato dall’art. 46, comma 1, c.p.a., in sessanta giorni dalla notificazione del ricorso), così come previsto dall’art. 71, comma 3, c.p.a..
Se è vero infatti che la celerità della fissazione dell’udienza di merito non può prevalere sulla facoltà concessa alle parti dall’art. 46, comma 1, del c.p.a., di costituirsi nel termine di sessanta giorni dal perfezionamento nei propri confronti della notificazione del ricorso (incidendo direttamente sul diritto di prima difesa – cfr., sul punto, Cons. Stato, sez. VI, 29 novembre 2011, n. 6298), nel caso di specie, va considerato che l’effettiva costituzione del Comune è avvenuta in data 24 febbraio 2020 e quindi ben prima dei sessanta giorni antecedenti la data dell’udienza del 7 maggio 2020.
Ne risulta che – come peraltro ammesso dalla stessa amministrazione – in alcun modo ne siano state conculcate le prerogative difensive, sia per quanto concerne il diritto di “prima difesa”, sia per quanto riguarda la pienezza del contraddittorio e l’ordinato svolgimento del processo, garantite dai termini stabiliti dall’art. 71, comma 5 (” Il decreto di fissazione è comunicato a cura dell’ufficio di segreteria, almeno sessanta giorni prima dell’udienza fissata, sia al ricorrente che alle parti costituite in giudizio. […]”) e 73, comma 1, c.p.a. (“Le parti possono produrre documenti fino a quaranta giorni liberi prima dell’udienza, memorie fino a trenta giorni liberi e presentare repliche, ai nuovi documenti e alle nuove memorie depositate in vista dell’udienza, fino a venti giorni liberi”).
11. Nel merito, in primo luogo, giova sintetizzare il contenuto del provvedimento impugnato.
11.1 L’ordinanza n. 104 del 25 febbraio 2011 esordisce richiamando nelle premesse il “vincolo di inedificabilità con rispetto del piano di fabbricazione e di consenso a vincolo di area per servizio pubblico” di cui all’atto pubblico del 1972 “con il quale in attuazione degli standard urbanistici la società Pi. Sa. dichiarava di vincolare l’area a servizio pubblico comunale per uso di parcheggio e verde pubblico”.
Vengono altresì richiamati:
– la relazione della Polizia locale relativa ai sopralluoghi condotti nelle date dell’8 gennaio 2011, 11 gennaio 2011 e 13 gennaio 2011 per verificare le condizioni di accesso all’area e lo stato dei luoghi;
– il parere del settore Lavori pubblici – urbanizzazioni primarie in data 2 novembre 2009 che “conferma la necessità del vincolo” in relazione alla programmata riqualificazione ambientale “dell’intero asse stradale di v.le (omissis), con la formazione di un percorso ciclo – pedonale che ridurrà l’attuale calibro stradale con conseguente ridimensionamento della sosta veicolare”;
– le precedenti note del 25 maggio 2010 e 25 ottobre 2010 con cui era stato già disposto di “provvedere entro 90 giorni al ripristino dell’area all’uso pubblico, adottando idonei interventi manutentivi ed ad avvenuto ripristino delle aree, a mantenere le stesse aperte ed accessibili tutti i giorni dalle ore 7.00 alle ore 20.00”.
Dopo aver constatato che l’obbligo di “rendere fruibili le aree all’uso pubblico” non era stato adempiuto dalla proprietà, il competente dirigente comunale ha ordinato alla società odierna appellante:
” – Di provvedere ad inoltrare idoneo progetto di sistemazione dell’area citata in premessa […], sgomberando la stessa dai rifiuti e quanto altro insista sul terreno in argomento e provvedendo alla manutenzione della stessa;
– di effettuare periodicamente la manutenzione dell’area al fine di eliminare gli inconvenienti igienico – sanitari e di porre in sicurezza i manufatti in cemento esistenti e sporgenti rispetto alla quota di campagna/calpestio;
– di mantenere aperto il cancello di accesso all’area, tutti i giorni, dalle 7.00 alle 20.00″.
Il provvedimento reca poi in calce l’avvertenza che l’eventuale inosservanza dell’ordinanza comporterà :
” – l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 255 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152;
– l’attuazione di quanto ordinato ai sensi dell’art. 26 del regolamento edilizio vigente e dell’art. 192 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, a cura dell’amministrazione comunale e a spese della proprietà “.
Come già evidenziato il punto di fatto, l’accoglimento parziale disposto dal TAR ha espunto dall’atto l’obbligo di provvedere a predisporre un progetto di sistemazione dell’area, pur rimarcando che, secondo quanto statuito dalla Corte di Cassazione nella citata ordinanza n. 3788 del 2019, la convenzione intercorsa tra il Comune e la dante causa della ricorrente “pone [..] una servitù di uso pubblico […] che non può ritenersi estinta per il mero non uso da parte della generalità dei cittadini” essendo per contro necessario “un comportamento della pubblica amministrazione incompatibile con l’asservimento del bene privato a pubblici interessi”.
Il TAR ha poi qualificato l’atto, alla luce delle restanti prescrizioni in esso contenute, come “espressione del potere di autotutela della pubblica amministrazione ex art. 823 c.c.” ritenendo quindi che le stesse non trovino fondamento “nelle previsioni del d.lgs. n. 152 del 2006 o nel regolamento di igiene (pur richiamati nei provvedimenti impugnati)” ma che al contrario gli stessi siano “obblighi esclusivamente strumentali a consentire l’esercizio del diritto di servitù “.
Tale qualificazione comporta, in via conseguenziale, che debbono ritenersi estranei alla natura e all’oggetto dell’ordinanza anche i richiami alle disposizioni sanzionatorie del Codice dell’Ambiente o nel Regolamento di igiene, citati nelle surriportate “avvertenze”.
12. Nonostante tali perspicue argomentazioni, la società appellante ha impostato la propria impugnativa senza assolvere all’onere di confutare l’impianto della sentenza del TAR.
Non è infatti vero né che il provvedimento sia perplesso perché mancherebbe di “una chiara individuazione del potere amministrativo in concreto esercitato” né che il primo giudice si sia semplicemente “sostituito” all’amministrazione nell’indicazione dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti il provvedimento impugnato.
Il TAR si è infatti limitato ad una mera attività di interpretazione e qualificazione dell’atto amministrativo, sulla base di consolidati criteri ermeneutici.
E’ infatti noto che “Ai fini della di una corretta qualificazione della sua natura l’atto amministrativo va interpretato non solo in base al tenore letterale, ma soprattutto in base al suo specifico contenuto e risalendo al potere concretamente esercitato dall’amministrazione, prescindendo dal nomen iuris che gli è stato assegnato” (Cons. Stato, sez. II, 30 settembre 2019, n. 6534).
In assenza di specifiche disposizioni, gli atti amministrativi vanno infatti interpretati secondo le regole fissate dal codice civile per l’interpretazione del contratto, sia pure adeguandole alla natura dell’atto medesimo, espressione di un potere pubblico.
In particolare, ove il dato letterale non conduca ad una interpretazione univoca, sarà possibile valutare il contenuto complessivo dell’atto, applicando in via analogica i criteri interpretativi di cui agli artt. 1362 e ss. del codice civile (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 24 settembre 2019, n. 6378).
In sostanza, l’individuazione del potere esercitato dall’amministrazione deve farsi discendere non già (o non soltanto), dal nomen iuris che gli viene formalmente attribuito o dal compendio normativo richiamato, bensì dalla funzione cui concretamente assolve.
Nel caso di specie – avuto riguardo ai contenuti e ai fini dell’ordinanza impugnata, interamente incentrata sulla necessità di garantire l’uso pubblico dell’area di cui trattasi attraverso un’idonea manutenzione ed il libero accesso – il mero richiamo alle disposizioni del Regolamento di igiene ovvero alle sanzioni previste dal d.lgs. n. 152 del 2006 per l’abbandono dei rifiuti, non è sufficiente ad attribuirle la natura tipica dei provvedimenti di matrice ambientale, essendo evidente che, come rimarcato dal TAR, le prescrizioni in concreto impartite dall’amministrazione risultano funzionali alla reintegrazione del vincolo a servizio pubblico comunale e non già alla tutela di specifici interessi ambientali.
Se quindi, come correttamente fatto dal primo giudice, si interpreta l’atto impugnato alla luce delle sua effettiva natura, risultano, più che infondati, del tutto inconferenti i residui mezzi di gravame riproposti dalla società appellante (incompetenza, travisamento dei fatti e omessa comunicazione di avvio del procedimento) in quanto incentrati sulla violazione di quelle stesse norme del Codice dell’Ambiente di cui il primo giudice ha escluso il rilievo.
13. Infine, deve convenirsi con il Comune che, pur considerando l’annullamento parziale disposto dal TAR, la domanda risarcitoria risulta sfornita di qualsivoglia supporto probatorio.
La società non ha infatti né allegato né provato di avere dato un principio di adempimento all’obbligo di predisporre, il “progetto di sistemazione dell’area” ritenuto illegittimo dal TAR, né comunque ha fornito dimostrazione delle spese che – in ipotesi – avrebbe sostenuto per ottemperare ad un ordine rivelatosi poi non dovuto.
14. In definitiva, per quanto testé argomentato, l’appello deve essere respinto.
Le spese del grado seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull’appello, n. 346 del 2020, di cui in premessa, lo respinge.
Condanna la società appellante alla rifusione delle spese del grado che liquida complessivamente in euro 10.000,00 (diecimila/00), oltre gli accessori di legge, se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 maggio 2020 svoltasi da remoto in videoconferenza con l’intervento dei magistrati:
Antonino Anastasi – Presidente
Daniela Di Carlo – Consigliere
Francesco Gambato Spisani – Consigliere
Alessandro Verrico – Consigliere
Silvia Martino – Consigliere, Estensore

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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